UNO STATO FORTE E’ L’UNICA VIA di Andrea Fais
RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Le vicende di Terzigno ci stanno nuovamente sbattendo sul muso la situazione cui il nostro Paese è ormai abituato da troppo tempo, ahi noi. Senza entrare nel merito della vicenda specifica di questo centro alle porte di Napoli, è ormai chiaro che in Campania non è possibile intervenire seriamente sulla situazione interna, senza che vi siano serie e pesantissime ripercussioni sulla situazione sociale di degrado. Ma ancor più preoccupante è l’immagine del nostro Paese che, dopo la vergogna del 2008, torna a mostrare al mondo intero gli ennesimi disordini di Napoli, legati al mercato dei rifiuti.
E sì, perché anche i rifiuti ormai costituiscono un mercato fiorente, e la nostra società delle “magnifiche sorti e progressive” pare non lasciarsi sfuggire davvero nulla: quello che noi ingenuamente pensiamo di “buttar via”, consegnandolo all’ultimo atto dello smaltimento, è in realtà un ennesimo prodotto che, giunto alla sua fase post-consumo, apre ad un nuovo mercato. Molti interessi e molti affari si celano nella catena e nella filiera della raccolta e dello smaltimento, così come immense sarebbero le possibilità intrinsecamente legate ad uno sviluppo tecnologico della nostra macchina organizzativa, se solo fosse impiantata, oliata e manutenuta dal nostro Stato. Lo Stato, presentato come un "moloch" disprezzato da più parti e per vari motivi, è diventato ormai l’emblema del malcostume italiano, del consociativismo della Prima Repubblica e di quell’odioso assistenzialismo ormai legato al ricordo passato di una dialettica che non esiste più.
Le partecipazioni economiche e il ritrovato ruolo dell’IRI nel periodo craxiano hanno poi dato il colpo di grazia: la congiuntura storica che saldò le due dimensioni internazionale (dissoluzione dell’URSS) e nazionale (tangentopoli) della scena politica e sociale, in un unicum cronachistico artefatto e manipolato ad hoc del triste immaginario collettivo del biennio 1991-1992, scaraventò il Paese in una condizione di smarrimento, di disillusione. E come in ogni clima analogo, fu allora il Partito Radicale, con la sua enfasi referendaria dell’anti-partitocrazia, a spingere, con la più violenta delle non violenze, il Paese verso il disfacimento della nostra economia nazionale, che si sarebbe poi consumato materialmente a bordo del Panfilo Britannia, allorquando diversi finanzieri ed economisti, italiani e americani, si riunirono presso il porto di Civitavecchia per iniziare una delle più gravi opere di svendita della ricchezza industriale e strategica del nostro Paese.
Lo Stato, come concetto stesso, fu distrutto. L’Italia venne allineata d’improvviso alla mitologia ultra-liberista degli Anni Novanta, a quella che Giulio Tremonti ha definito in più di un’occasione “l’era della cornucopia”, il terribile sogno, imposto al pianeta da alcuni spregiudicati falchi della finanza internazionale, in base a cui, finita la Guerra Fredda, il nostro mondo potesse ormai avviarsi verso una completa “americanizzazione”, olistica e totalitaria, spacciando l’internazionalizzazione dei loro affari, per una novità assoluta che coinvolgesse tutti i cittadini del mondo: per creare questo mito scelsero il nome di "globalizzazione", con una serie di termini annessi ripetuti ad libitum in ogni occasione come “villaggio globale”, “cittadini del mondo” o “melting pot”. Dimenticavano che il mercato e l’economia, sin dai tempi antichi, furono sempre “internazionali”, negli scambi commerciali, per esempio, o nei contatti culturali tra civiltà. Tuttavia il mito del “nuovo secolo americano” andava imposto in ogni direzione e con ogni strumento, specie con lo strumento essenziale e ineludibile del linguaggio.
È così che la percezione italiana del concetto di Stato – fondamentale termine di paragone della storia politica, economica e sociale, dell’era moderna, sin da Machiavelli, sin da Hobbes – improvvisamente decadeva in un senso di squallore. L’opinione pubblica di quella “maggioranza silenziosa”, per decenni vissuta all’ombra dello Stato consociativo italiano, diventava improvvisamente “anarcoide”, imbevuta di retorica anti-Stato, nel nome della necessità del libero mercato.
La distruzione del nostro Stato è in realtà molto più datata, e forse possiamo dire che in Italia uno Stato autentico non è mai veramente esistito. Dinastie professionali, baronie, lottizzazioni di pubblici servizi, malfunzionamenti, corruzione e criminalità organizzata hanno sempre costituito colpi decisivi nell’abbattimento di una positiva e costruttiva concezione dello Stato negli italiani.
Il degrado cui stiamo assistendo, sociale, culturale e, ovviamente, politico, è proprio riconducibile a questa progressiva autodistruzione di quello Stato che da noi ha preferito svolgere la sola funzione per cui era stato predisposto dalle borghesie nazionali nel XIX secolo: reprimere il dissenso popolare, ma soprattutto reprimere sé stesso. Reprimere il proprio carattere giuspubblicistico, di garante dell’uguaglianza sociale e giuridica, reprimere il proprio ruolo di guida e controllo della e sull’economia, reprimere la sua strutturale funzione di “padre” della propria prole. Insomma, lo Stato si è progressivamente trasformato nell’anti-Stato.
I mezzi che la volontà politica metterebbe a disposizione sarebbero immensi. Con la volontà di uno Stato forte e determinato, finalmente rinvigorito attore protagonista nella gestione del mondo del lavoro e della finanza, sarebbe possibile raggiungere risultati incredibili in termini di sviluppo economico e tecnologico. Sarebbe possibile sradicare la criminalità, utilizzando le mirabolanti meraviglie tecnologiche che il settore della logistica militare ci riserva ogni giorno nel resto del pianeta, sarebbe possibile dare avvio a programmi di indipendenza energetica, avviando finalmente una diversificazione delle fonti, perequamente suddivise tra nucleare, risorse naturali e rinnovabili, e sarebbe possibile indirizzare le dinamiche dell’attuale globalizzazione economica verso lo sviluppo di zone economiche speciali, interne al Paese, autonome nell’iniziativa, pur sottoposte al controllo dello Stato, e capaci di accelerare l’avanzamento e migliorare la qualità nel settore produttivo dei servizi e delle implementazioni, per rimanere quanto meno al passo con le principali potenze mondiali fin quando la competizione globale non sia risolta dalla storia.
Ma i settori tanto moderati quanto estremistici della politica italiana, ambedue ricompresi nella stessa idiota polemica interna ad una dialettica destra-sinistra di matrice sostanzialmente reazionaria, si muoverebbero sicuramente, l’uno contro l’altro, o l’altro contro l’uno, non appena qualcuno decidesse di avviarsi verso un modello simile di sviluppo. Il timido ed isolatissimo tentativo di Berlusconi in una parvente analoga direzione, è quotidianamente sommerso di insulti e di latenti minacce quasi da ogni settore della vita pubblica, e pure coloro che in teoria dovrebbero sostenerlo (quotidiani “amici”), sono così impregnati di retorica liberista, che, nel difendere il Presidente del Consiglio dagli attacchi esterni, in verità ne disconoscono i reali meriti, prefe
rendo continuare ad elogiare il sistema economico che ci sta portando alla deriva, e sputando fuoco su Gheddafi o su Putin, su Lukashenko o su Wen Jiabao.