SUL CRITONE

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Il breve dialogo platonico denominato Critone pone un problema che mi ha sempre arrovellato. Il ragionamento socratico, in altri casi così convincente, mi pareva particolarmente forzato quasi egli avesse ritenuto necessario trovare una soluzione anche davanti a un problema che si presentava come praticamente insolubile. Nell’ultima occasione in cui ho ripreso in mano il testo mi è parso invece che se il problema mi si presentava così oscuro questo fosse dovuto alla difficoltà nell’applicare la distinzione tra principio morale e principio economico-politico (per usare il linguaggio di B. Croce) a Socrate e al contesto della grecità classica nel suo complesso. I Padri della Chiesa notoriamente consideravano Socrate come una sorta di anticipazione, esterna alla Tradizione ebraico-cristiana, del messaggio di Gesù di Nazareth, soprattutto valutandolo, nell’ambito del pensiero occidentale, come il primo che avesse dato articolata tematizzazione ed elaborazione al problema morale. Ma indubbiamente anche la morte di Socrate, la sua ingiusta condanna, l’accettazione della stessa quasi come naturale compimento della sua missione di “rischiaramento” e insegnamento presso i greci e gli ateniesi in specifico, si prestava ad essere accolta dai cristiani come un modello anticipatore della “buona novella” già all’interno del contesto del paganesimo. D’altra parte la separazione tra principio morale e ragionamento politico viene considerata contributo specifico della modernità; solo i moderni fanno della politica anche una scienza (con Machiavelli e Hobbes) oltre che un arte e un tema di riflessione filosofica. Eppure in questo dialogo, leggendo con attenzione, appaiono già presenti, in nuce, numerosi elementi di quello che sarà il realismo politico moderno anche se i neosocratici non saranno d’accordo e ci vorranno riproporre la loro sterile contrapposizione tra il governo del bene comune degli antichi e la lotta per il potere dei moderni oppure l’approccio analogico che vede il governo della polis come una derivazione, quasi immediata, dal governo di sé e dalla cura dell’anima (individuale).
Come è noto il dialogo inizia con l’arrivo dell’amico Critone in visita a Socrate prigioniero e in attesa dell’esecuzione della condanna che ne ha decretato la morte. Critone fa capire a Socrate che, con l’aiuto dei suoi numerosi amici e forse anche considerando il fatto che ad alcuni dei suoi accusatori non piace l’idea di farne un martire, evadere dal carcere e fuggire da Atene non appare una impresa impossibile:<<Sai, non è grossa la cifra che prendono quei tali, là fuori, disposti a liberarti, a cavarti da qui. Quanto ai delatori, tu li conosci, no ? Tipi economici. Non credo che per loro ci vogliano grosse cifre. Tu sei padrone di tutto quanto io possiedo: e già basta, t’assicuro. […] Continuo a dirtelo: non farti scrupoli simili, non cedere, deciditi a salvarti.>>
Ma come di consueto Socrate non accetta di prendere una decisione prima di aver esaminato razionalmente la questione:<<Perché io – e non comincio adesso, è da una vita – sono fatto così: dei miei ragionamenti io seguo solo quello che al lume del mio ragionare è l’eccellente. Nessun altro, mai.>> Per prima cosa, nell’argomentazione, il Maestro ateniese si pone il problema se sia lecito dar peso alle opinioni della gente, delle masse riguardo a ciò che è giusto o sbagliato: <<se c’è di mezzo diritto e torto, sporco e pulito, nobiltà e miseria – cose tra cui stiamo scegliendo noi adesso – ci accoderemo all’idea della folla, tremebondi, o a quella dell’uomo isolato – se esiste tecnico di queste cose – davanti al quale, più che alla massa unita, estranea, rispetto profondo e tremori sono sacrosanti ? Se non gli andremo dietro, sgretoleremo e guasteremo in noi ciò ch’era destinato a fiorire col diritto, a sfarsi con il torto.>>
Ma ecco che di fronte all’ingiusta condanna di un uomo, di fronte ad un atto di accertata ingiustizia, sembra che Socrate ponga il problema proprio alla maniera di quello che potremmo chiamare idealismo politico e morale : <<Resta inammissibile l’atto ingiusto di reazione, e così il colpo basso all’altro uomo, qualunque sia l’offesa umana sopportata […]l’atto ingiusto in nessun caso, dico nessuno, è retto; né la reazione ingiusta, né il vendicarsi, con cattiveria, d’un brutto colpo ricevuto.>>
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Il dialogo , a questo punto, entra nel vivo con la personificazione, operata da Socrate, di quell’entità ideale che sono le Leggi di Atene; da questo momento il suo interlocutore non è più una persona fisica ma questa specifica persona giuridica. Alle Leggi si potrebbe far presente : <<A noi Atene faceva offesa: in più, la sua sentenza non fu retta.>> Le Leggi domandano allora:<<Socrate, fra noi e te c’era quest’altro accordo, o quello di star fedeli ai giudizi della giustizia ateniese ? [ … ] di che c’incrimini noi Leggi e il tuo paese, per metter mano ad annientarci ? Primo: non t’abbiamo messo noi in questo mondo ? E tuo padre non sposò tua madre in nome nostro, per poi darti vita ? Ci sono le Leggi sulle nozze, qui fra noi: vuoi criticarle per qualche punto difettoso ? Parla chiaro.>>
Socrate risponde:<< Non ho critiche.>>
Le Leggi continuano:<<Ne hai per quelle sulla protezione del bambino, sulla scuola, della quale tu pure fosti scolaro ? Forse, fra noi, non erano all’altezza quelle schierate in questo campo, che comandavano a tuo padre di mandarti a scuola di musica, e d’esercizio fisico ? >>
<<All’altezza.>> Ammette ancora Socrate.
<<E dopo che sei nato, che hai ricevuto cure e un’istruzione […] t’illudi che fra te e noi esista equilibrio di diritti ? T’illudi che qualunque azione su di te noi avviamo, ritorcerla sia tuo pacifico diritto ? [ … ] Al punto che se c’impegniamo a cancellarti – nella coscienza che sia giusto – pure tu t’impegnerai, reagendo con tutte le tue forze, a cancellare noi, tue Leggi, e il tuo paese ? In più proclamerai che questa scelta tua è un atto di giustizia: tu l’autentico amatore della perfezione !>> Proprio a questo punto sono sempre iniziate le mie difficoltà: anche se l’ordine sociale in cui viviamo è da noi ritenuto giusto e quindi accettato perché non dovremmo opporci ad una singola grave ingiustizia che sia stata, o possa essere, comunque commessa ? Ma, in realtà, anche Socrate, ovviamente, è d’accordo sul fatto che dobbiamo tentare tutto il possibile per evitare le ingiustizie che possono essere commesse anche in una società (per noi) “buona”: <<Magari ti chiama alla battaglia, futuro mutilato, o morto ucciso: devi andare, perché è giusto, non imboscarti, non defilarti, non disertare. In guerra, in aula di giustizia, ovunque tu sia, devi eseguire gli ordini del paese nativo. O convincerlo che la radice di giustizia è lì, dalla tua parte.>> La questione però deve essere affrontata in maniera diversa: dobbiamo tenere conto, infatti, della possibilità che per evitare una singola , e magari grave, ingiustizia, tutto il sistema di società in cui viviamo e che magari riteniamo il migliore in cui ci sia dato di poter vivere possa venire sconvolto, rivoluzionato, trasformato. Le Leggi considerano proprio questo nel prosieguo del dialogo: <<O sei tanto colto da scordarti che di tua madre, di tuo padre, delle tue ultime radici più preziosa cosa è la tua patria, più solenne, più sacra, su un piedistallo più elevato, agli occhi di dio e degli uomini dotati di cervello ? Si deve culto, alla patria.>> Ma la patria di cui parlano le Leggi non è lo stato o la nazione della modernità ma la comunità politica e sociale, regolata da leggi “giuste e buone” in cui la giustizia e la virtù degli individui non è in corrispondenza e di pari valore rispetto a quella della società, ma subordinata a quest’ultima. Mentre i neosocratici ritengono che si possa conciliare la cura dell’anima e la cura della polis perché il loro rapporto sarebbe simile a quello tra microcosmo e macrocosmo (cioè di eguale “natura”) Socrate sa, ritiene, che tra le due vi sia un rapporto in cui le Leggi della città debbono prevalere, in caso di contrasto, sui diritti dell’individuo. Tutto ciò vale naturalmente solo se l’ordine sociale in cui viviamo è da noi ritenuto “buono” e non da trasformare radicalmente; in quest’ultimo caso il problema diventa quello del modo migliore di muoversi, della migliore strategia da utilizzare per produrre il cambiamento che auspichiamo.
Le Leggi pongono anche una alternativa che oggi volenti o nolenti non penso si possa quasi più riproporre:<<Noi comunichiamo dall’inizio [ … ] che l’ateniese, già ammesso alla cittadinanza, già a conoscenza delle istituzioni nostre, e di noi Leggi, se proprio noi non gli piacciamo, è padrone di emigrare dove vuole, con la roba sua. [ … ] Ma all’uomo che rimane, che ha sott’occhio i nostri modi di giustizia, le regole politiche, noi diciamo chiaro che con il suo gesto già si obbliga, concordemente, a eseguire in futuro i nostri vari comandi.>> Gli antichi greci vivevano nelle città-stato, con ordinamenti differenti l’una dall’altra (Sparta, Creta, Tebe, Megara e la Tessaglia
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vengono citate nel dialogo) e ancora un po’ più in là confinavano con società (civiltà) di tipo molto diverso, anche se non è a queste, penso, a cui si riferissero le Leggi. Nell’attuale formazione sociale mondiale capitalistica vi sono differenze e culture (non so se si possa parlare veramente di “civiltà” diverse oramai) di vario tipo, ma per chi riconosca le varie forme di oppressione come connesse ad una unica struttura globale di dominio mi pare più consequenziale e logico portare avanti la propria battaglia politica all’interno del proprio “habitat” sociale, o comunque in contesti in cui maggiormente ci si trovi a poter sfruttare i propri requisiti al fine di meglio operare in vista di un cambiamento dell’organizzazione sociale. Ma insomma, alla fine, è proprio illecito fuggire per salvare almeno la vita da una ingiusta condanna ? Le Leggi rispondono ancora duramente:<<Supponiamo che tu vada in una città del circondario, Tebe, o Megara (buone leggi in entrambe), vi entrerai nemico dei loro ordinamenti e gli uomini, preoccupati del paese proprio, ti guarderanno storto, ti penseranno guastatore delle leggi.>> Allora, tirando le conclusioni, nel momento in cui cerchiamo di costruire la società migliore, quando ci troviamo a vivere nell’ordine sociale, magari imperfetto, ma che riconosciamo in un dato momento il più giusto dobbiamo essere pronti ad accettare la violenza, anche la violenza estrema, che consiste nel permettere la condanna a morte di un innocente. Così nell’Ottobre 1917 anche Lenin e i bolscevichi ritenevano che la loro “causa”, che consisteva nel tentativo di costruire un sistema economico, politico e sociale più giusto e “democratico”, richiedesse e giustificasse il sacrificio dei singoli. E fino all’ultimo momento Socrate volle ribadire a Critone e agli altri suoi amici che per combattere l’oppressione e il dominio ingiusto politico e sociale bisognava saper accettare la violenza (anche immeritata) che può colpire noi stessi o gli altri e che in entrambi i casi può risultare necessaria.
Più volte anche La Grassa nell’ultimo periodo è intervenuto, utilizzando approcci diversi , sul tema della violenza. Io posso solo ancora ribadire che l’oppressione e la violenza , nelle loro diverse forme di espressione caratterizzano il nostro mondo: ce ne sono di terribili, come i bombardamenti americani, che dall’alto, quasi senza rischiare distruggono intere nazioni e altre, meno truculente, come la messa in sospensione, la “sterilizzazione” dei pochi magistrati che hanno il coraggio di comportarsi in maniera indipendente nel nostro paese. La difesa dei diritti degli individui, della loro libertà, del diritto di non essere condannati e/o perseguitati ingiustamente non potrà mai essere garantita in una società in cui le regole e i rapporti sociali e quindi le leggi sono costituite per l’esclusivo interesse di cosche dominanti in lotta per il dominio e prive di qualsiasi considerazione per i cosiddetti “diritti inalienabili” degli altri esseri umani.
Mauro Tozzato   25.12.2007
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