Ecco perché Prodi non cade
Come aveva già scritto Gianfranco La Grassa agli inizi di dicembre nel suo articolo “Si tenta di chiudere il cerchio” se Prodi non cade è solo perchè la GF e ID ha bisogno di maggiore tempo per trovare un’opzione alternativa propriamente valida agli attuali assetti di governo ma, soprattutto, perché ci sono in ballo le nomine in scadenza delle presidenze di imprese fondamentali, quali Eni, Finmeccanica, Enel, Poste ecc. Senza tralasciare che in bilico c’è anche la presidenza del più grande gruppo assicurativo italiano, Le Generali, le quali, pur essendo una compagnia privata, stimolano gli appetiti pantagruelici del mondo politico e di quello finanziario, dopo le fusioni ,avvenute negli scorsi mesi, (in realtà mere acquisizioni da parte dei pesci più grossi su quelli più piccoli) tra i principali gruppi bancari (Intesa-San Paolo IMI, Unicredit-Capitalia, MPS-AntonVeneta).
Si può ben dire che questo governo, con a capo uno dei più inveterati burocrati di Stato cresciuti alla scuola IRI, oggi a pieno servizio presso i gruppi finanziari e idustrialdecotti italiani (BazoliMontezemolo), a propria volta sottoposti all’imperio delle merchant banck statunitensi e alle ipertrofiche “voluttà” di dominio incontrastato dell’occidente da parte USA, abbia avuto come compito precipuo quello di ridisegnare la mappa del potere in Italia.
Il mix “terribile” è stato realizzato dando una copertura pubblicistica (una foglia di fico per mascherare azioni di mero accaparramento delle risorse del sistema-paese sotto il pretesto di una maggiore tutela degli interessi generali, attraverso la presunta opera redistributrice e riequilibratrice dello Stato) a manovre di vorace speculazione e di pura rapina privatistica a favore di grandi colossi finanziari e imprese industriali della precedente rivoluzione tecnologica, ormai sul limine del fallimento. Queste risorse sono servite ai gruppi della GF e ID, coalizzatisi dietro Prodi, per attivare condotte spartitorie, con avvantaggiamento di alcuni “drappelli” di potere su altri (in primis dei potentati nostrani maggiormente legati agli Usa), al fine di riprendere fiato ed energie dopo anni di crisi generalizzata che ne ha fiaccato la performatività economica e la lungimiranza strategica. Il tutto è avvenuto a detrimento degli strati sociali più deboli costantemente esclusi dalla gestione del potere: i lavoratori autonomi, quelli salariati, le piccole e medie imprese. Questi settori sociali sono stati più volte ingannati dagli schieramenti politici, dai sindacati, dalle associazioni di categoria e dall’apparato ideologico dominante (composto da uno stuolo di intellettuali e da sedicenti specialisti lautamente retribuiti) che ha lavorato intensamente per riprodurre, come in un caleidoscopio, il cerchio magico di un’apparente diversità tra destra e sinistra (nel quale rientrano non solo i partiti ma anche le organizzazioni che fungono da cinghia di trasmissione per questi ultimi) quando in realtà la politica nel suo complesso si stava muovendo all’unisono, ed in maniera del tutto speculare, per dissanguare il popolo italiano.
Oggi che queste trame sembrano giungere al loro epilogo più bramato, almeno da lorsignori, il giudizio di La Grassa, espresso nell’articolo già citato, assume i caratteri del vaticinio che si adempie:
“A quel punto [se i piani della Gf e ID dovessero concretarsi, G.P.], avremmo un vero regime illiberale; magari non all’“olio di ricino”, ma a quello “di vaselina”. Bevete due litri di quest’ultimo e starete male più o meno come con quello di ricino. Questi sono comunque i giochetti dei nostri potentati (sub)dominanti; possiamo solo contare sulla loro inettitudine, sul grave arretramento che stanno facendo subire al paese, per cui non esisteranno molti margini (ampio reddito da ridistribuire) per corrompere e comprare adeguatamente tutto ciò che sarebbe necessario corrompere e comprare.
AZIENDE DI STATO, PIOVRA DEI PRODI BOYS di G.M. De Francesco (fonte il giornale)
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Roma – La caduta dell’Impero romano nel 476 non fece molto rumore e in pochi in Italia si accorsero della deposizione di Romolo Augustolo e dell’ascesa dei Goti. Un’eventuale caduta dell’imperium di Romano Prodi nel 2008, invece, potrebbe destare molto più clamore, soprattutto tra coloro che ambiscono a entrare nei palazzi del potere diventando manager di importanti aziende controllate dallo Stato come Eni, Enel o le Poste. E che dire di coloro che potrebbero beneficiare del valzer di poltrone in Rai o che ambiscono alla presidenza di Generali che è privata, ma sulla quale una «raccomandazione» di Palazzo Chigi peserebbe? Una prematura fine dell’esecutivo lascerebbe quest’esercito in preda allo sconforto.
I giorni dell’Iri Sin dall’insediamento del Professore si sapeva che lo spoil system non sarebbe stato considerato un aspetto secondario nell’esercizio del potere. Prodi si è circondato di «fedelissimi» che lo seguono dall’epoca della presidenza Iri. Da Silvio Sircana per la comunicazione ad Angelo Rovati e Daniele De Giovanni per le funzioni di staff fino al sottosegretario all’Economia Massimo Tononi, il premier ha sempre potuto contare su un manipolo pronto a trasformare il suo pensiero in azione. Il passo successivo è stato il lento ma inesorabile avvicendamento di amministratori «made in Via Veneto» nei posti-chiave delle aziende statali.
Il primo in ordine cronologico è stato Pierpaolo Dominedò, nominato ad di Patrimonio dello Stato. Poi l’ex-Iri Pietro Ciucci è stato chiamato a presiedere l’Anas targata Di Pietro. Più difficile la gestazione del caso-Rai dove il neo-dg Cappon, pur proveniente dall’ex holding pubblica, non era inizialmente gradito al premier. Ma il Tg1 è subito stato assegnato a Gianni Riotta, mentre Maurizio Braccialarghe è stato prima indirizzato al Personale e poi alla concessionaria di pubblicità Sipra.
Perché non cade Spaccature della maggioranza ed emergenze varie non hanno determinato il tramonto dell’esecutivo perché il premier ha saputo in qualche modo accontentare un po’ tutti quando si è trattato di assegnare posti di rilievo come le Ferrovie al diessino Mauro Moretti o Cinecittà Holding ai rutelliani Battisti e Carducci senza tralasciare il coté rosso-verde che si è dovuto «accontentare» del sottobosco governativo. Va da sé che nei momenti di crisi è il Professore che avoca a sé tutti gli incarichi come nel caso Alitalia re-irizzata con Maurizio Prato. Ma si può far cadere un presidente del Consiglio così attento agli equilibri da poter scrivere un nuovo manuale Cencelli?
Avanti, c’è posto! Nella prossima primavera sono in scadenza ben sette consigli di amministrazione di società a maggioranza pubblica. Un’occasione troppo ghiotta per sprecarla facendo cadere il governo. Si tratta di 7 presidenti, 7 amministratori delegati e oltre 50 consiglieri di nomina esclusivamente politica. Eni, Enel e Finmeccanica sono società quotate e un blitz è difficile. Gli attuali ad (Scaroni, Conti e Guarguaglini) sono ben visti dal mercato e soprattutto dai fondi, ma c’è margine di manovra con le presidenze. Piero Gnudi, presidente Enel, proviene dall’Iri e nei palazzi si mormora di un suo passaggio alla presidenza Eni dove siede da sei anni Roberto Poli.
A Finmeccanica, invece, è derby per un incremento delle deleghe tra il direttore generale Giorgio Zappa e il condirettore generale Alessandro Pansa. In ribasso le quotazioni della rentrée di Giuseppe Bono, attualmente a Fincanteri. Senza «paracadute» invece gli attuali vertici delle Poste presiedute da Vittorio Mincato e guidate da Massimo Sarmi che già si vede insidiato da Giovanni Ialongo (Ipost) e Guido Pugliesi (Enav). Idem per il tandem Roth-Cattaneo a Terna e per Tirrenia. In estate, poi, ci sarà la madre di tutte le lottizzazioni con la nomina del nuovo cda Rai.
Spalle coperte Un tema sul quale sicuramente il leader del Pd, Walter Veltroni, ha già cominciato a riflettere è la necessità di tessere una tela di alleanze economico-finanziarie in grado di controbilanciare il potere prodiano. Non sarà facile. Il Prodi-bis ha consegnato agli annali due maxifusioni bancarie nate con la «benedizione» di Palazzo Chigi: Intesa Sanpaolo (guidata dai prodiani Bazoli e
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Passera e dal diessino Modiano) e Unicredit-Capitalia consegnata nelle mani del non ostile Alessandro Profumo. La querelle Telecom si è poi risolta con il ritorno di un boiardo di Stato come Franco Bernabé.
C’è solo un supermanager che è rimasto in «panchina»: l’ex Goldman Sachs Claudio Costamagna, amico di vecchia data del premier e in odore di presidenza Generali al posto di Antoine Bernheim. Se questo tassello non dovesse incastrarsi, la partita Eni-Enel, potrebbe non chiudersi come previsto. Sempre che gli equilibri del mondo bancario (soprattutto in Intesa) restino inalterati. Infine una curiosità: è dai tempi della presidenza Abete che la corsa a Confindustria non registrava una candidatura solitaria, quella di Emma Marcegaglia. Per le vicepresidenze conteranno anche i buoni auspici della politica.
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Come appendice aggiungiamo, per chiarire più sinteticamente la funzione che svolge questo governo (di centrosinistra; mai dimenticarlo!), un elenco (non completo) delle nomine fatte, e da fare, da parte di questo “Arturo Ui” italiota, la cui “resistibile ascesa” è dovuta al suo essere il semplice mandatario delle bande del “capitalismo italiano come Chicago negli anni ‘20” (Guido Rossi) allo scopo, già rilevato, di portare a termine le varie occupazioni di posti chiave nei settori dell’economia (e non solo). Si ricorda agli smemorati che, contrariamente a quanto accaduto con i svariati processi intentati a Berlusconi, il magistrato De Magistris è stato bloccato e maltrattato dalla stessa ANM per le sue indagini che si è sostenuto non fossero condotte correttamente. Fra queste vi era quella, assai rilevante, sulla s-vendita dell’Italtel (azienda IRI) alla Siemens, cessione avvenuta mentre il nostro “Arturo Ui” era presidente dell’Istituto; per questa operazione si parla di una tangente di 10 (dieci) milioni di dollari andata a “ignoti” (e che tali ormai rimarranno).
Vediamo le nomine già imposte, e quelle ancora da imporre (elenco del tutto incompleto, la cui fonte è Il Giornale, riportato con nostre minori ma opportune correzioni).
Nomine già eseguite.
Alitalia (Prato), Anas (Ciucci), Rai (Cappon e Riotta), Cassa Depositi e Prestiti (Iozzo), Cinecittà Holding (Battisti e Carducci), FFSS (Moretti e Cipolletta), Patrimonio (Neppi, Dominedò), Poligrafico (Murri).
Prossimi posti da assegnare
Inps, Inail, Inpdap (entro gennaio o poco più); Eni, Finmeccanica, Enel (ad aprile); e ancora: Poste, Tirrenia, nuovo Cda della Rai, Terna spa (nasce dentro l’Eni ma oggi è da questa staccata e possiede il 90% della trasmissione dell’energia elettrica ad alta e altissima tensione).
Imprese controllate da “amici” (in realtà i “mandanti”, facenti parte della GFeID, “grande finanza e industria decotta”).
Intesa-San Paolo (Bazoli e Passera), Unicredit con incorporata Capitalia (Profumo e Geronzi, oggi presidente di Mediobanca), Telecom (Bernabé e Galateri di Genola rispettivamente ad e presidente).
Le partite ancora da giocare.
Confindustria (papabile in pratica sicura: Emma Marcegaglia vicina all’attuale presidente, uno della GFeID).
Generali (il cuore della finanza italiana, l’obiettivo principe della battaglia in corso per il riassetto dei rapporti entro la solita GFeID).
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