IL GENERALE E LO SPECIFICO

[download id=”78″ format=”4″]
(maggio 2008)
1. Intendo partire da un pacchetto di citazioni dall’Introduzione del 1857 di Marx, che rappresenta il mio punto di riferimento essenziale sulle questioni che andrò, pur brevemente per il momento, trattando:
“La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso un qualcosa di complessamente articolato che si dirama in differenti determinazioni. Di queste alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune […..] ma, se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, appunto ciò che costituisce il loro sviluppo le differenzia da questo elemento generale. Le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale [corsivo mio]. In questa dimenticanza consiste, per esempio, tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti [ …. ] Il capitale è tra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato e oggettivato. Quindi, il capitale è un rapporto naturale eterno, universale; a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico (corsivo mio) che, solo (corsivo mio), fa di uno ‘strumento di produzione’, di un ‘lavoro accumulato’, un capitale […..]. Per riassumere: esistono determinazioni comuni a tutti gli stadi della produzione, che vengono fissate dal pensiero come generali; ma le cosiddette condizioni generali di ogni produzione non sono altro che questi momenti astratti [corsivo mio; come si vede qui si assume il significato negativo del termine ‘astratto’, come spesso nel linguaggio comune] con i quali non viene spiegato alcuno stadio storico concreto della produzione [corsivo mio; si noti la contrapposizione di questo ‘concreto’ al precedente ‘astratto’]”.
Per quanto mi riguarda, dunque, non contesto che si cerchino determinazioni comuni a più epoche storiche della società umana (alle varie formazioni sociali, per usare un linguaggio che preferisco); o addirittura che siano comuni all’intera storia dell’umanità. Va però sempre esattamente posto il problema che si intende risolvere quando si adottano certi atteggiamenti teorici (certi punti di vista) oppure altri. Ad esempio, se cerco di capire perché ancor oggi le tragedie greche possono commuovere – diciamo meglio: dovrebbero commuovere una persona di anche “media cultura”; penso che non siano moltissimi oggi a “capire” (o “sentire”) qualcosa di quelle tragedie; ma lo stesso, temo, si debba dire delle opere di Shakespeare o di Cecov o di Pirandello, ecc. ilche implica (se sono nel giusto) che la “cultura media” è ormai abbastanza devastata – non posso non porre in evidenza elementi di generalità (determinazioni comuni) nei sentimenti che provano pur sempre gli individui umani in ogni epoca storica della “civilizzazione”, dunque in ogni formazione sociale (che è nel contempo una formazione culturale).
L’esempio fatto sembra, non a caso, dimostrare che l’individuazione delle “determinazioni comuni” a varie epoche è soprattutto utile, direi indispensabile, nel trattare – mi si passi l’espressione generica e imprecisa – il “complesso emotivo” della personalità umana; essa si differenzia in diverse fasi storiche, ma possiede elementi, caratteri, “eterni” (non di fase), e cogliere questi ultimi è senz’altro di rilevante importanza. Naturalmente, il “complesso emotivo” comprende sentimenti vari, alcuni trattati solitamente come positivi – solidarietà, spirito di collaborazione, generosità, sincerità e lealtà, amicizia, ecc. – altri come negativi e perfino distruttivi: agonismo conflittuale, prepotenza e spirito di sopraffazione, egoismo, venalità, menzogna, raggiro, corruzione, ecc. Tali sentimenti sono ampiamente implicati nei rapporti sociali; senza di essi, anzi, non vi è socialità possibile, nessun legame si stabilisce tra insiemi di individui.
1
Tralascio di discutere adesso se la distinzione tra sentimenti negativi e positivi è proprio così netta, e soprattutto se per caso alcuni sentimenti detti negativi (ad es. lo spirito di conflitto anche aspro, con tutto ciò che comporta “di contorno”) non siano in realtà decisivi per le potenzialità di cambiamento e di innovazione negli assetti sociali. In ogni caso, la forma storico-specifica dei rapporti tra gli individui emerge sfruttando senza dubbio gli elementi costitutivi del “complesso emotivo”, ma non si riduce ad essi; altrimenti non si capirebbe l’evoluzione storica, l’ascesa e la decadenza di certe formazioni sociali, il trasmutare dell’una nell’altra, e via dicendo.
Bisogna fare attenzione a non interpretare i passi marxiani sopra citati con semplice riferimento alle forme storiche della produzione; intendendo quest’ultima nel suo stretto senso di trasformazione di materie prime (naturali o già semilavorate) in prodotti atti a soddisfare bisogni degli uomini (in società) o anche, più in generale, come ottenimento di dati output mediante certi input. Non potrebbe esistere alcuna produzione se non nell’ambito della produzione e riproduzione di determinati rapporti sociali. Ancora Marx afferma:
“Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso; da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato” (Il Capitale, libro I, capoverso finale del cap. XXI sulla “riproduzione semplice”; corsivi miei salvo gli ultimi tre).
Anche in tal caso non ci si fermi alle affermazioni specifiche di Marx concernenti la formazione sociale capitalistica; il problema, mi sembra del tutto evidente, riguarda ogni formazione sociale. Non c’è produzione “materiale” senza riproduzione sociale. Non si tratta quindi di quella meramente biologica, che fa sfondo; certo essenziale, ma non sufficiente. Quest’ultima non lo è nemmeno per altre specie animali; per l’uomo è proprio una “prima base”, che non spiega la particolarità di questo animale “immerso” nella storia e nella cultura.
Per vivere occorre produrre, ma per conseguire tale scopo è indispensabile, nel contempo, riprodurre forme specifiche di rapporti sociali; in effetti, i prodotti da ottenere sono quelli indispensabili a sostenere determinati orientamenti dell’evoluzione storica, caratteristici di ogni data fase della stessa. Perfino i prodotti, che sembrano i più essenziali per l’uomo, primi fra tutti quelli per l’alimentazione, hanno ormai una struttura d’insieme – sia che si parli della loro forma finita (e pronta all’uso) sia che ci si riferisca ai processi produttivi e agli strumenti e materie prime utilizzati per ottenerli o, ancora, ai metodi per renderli adatti al consumo (crudi o invece cotti, conditi, ecc.) – del tutto peculiari a seconda della riproduzione della forma dei rapporti sociali in cui si inserisce la loro produzione.
Tralascio qui la questione del vero o presunto rapporto (e di che tipo) tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali (problema che merita una trattazione a parte); comunque, nella storia avvengono mutazioni nelle forme di questi rapporti che implicano il passaggio a formazioni sociali diverse. Ovviamente, è fondamentale l’ambito spaziale e temporale preso in considerazione per comprendere di quale formazione sociale si intende parlare. Un conto è trattare, per differenza, la società feudale e quella capitalistica. Un altro è pensare alla differenza tra il capitalismo inglese (quello studiato in particolare da Marx e da cui egli trasse il concetto di modo di produzione capitalistico) e il capitalismo “occidentale” che appare dominato dalla forma del capitalismo statunitense (quello che denomino dei funzionari del capitale), succeduto al primo durante la fase (policentrica) di passaggio dalla preminenza inglese a quella americana; oppure, in senso spaziale, posso cercare di individuare quali caratteristiche differenti abbia attualmente il capitalismo “orientale”, il quale non è affatto una forma ben definita e stabilizzata ed è, a sua volta, diverso in Russia o Cina o India, ecc. (il Giappone appartiene ormai più che altro a quello “occidentale”).
Quando si tratta della riproduzione di particolari forme dei rapporti sociali (formazioni sociali), è necessaria la massima attenzione a distinguere le determinazioni che sono specifiche di ognu-
2
na di esse. Non è evidentemente negativo cogliere anche quelle comuni a più epoche o fasi (o anche semplici congiunture), proprio per quanto ho tentato di mettere in luce nel mio Tutto torna ma diverso. Tuttavia, proprio perché i rapporti sociali (la cui riproduzione è indispensabile per produrre i beni atti alla vita, che è vita in quella ben determinata fase storica della società) nascono certo sulla base dei “sentimenti” costitutivi del “complesso emotivo”, ma non sono a questi riducibili, è limitativa, e conduce in direzioni del tutto sbagliate, la sola considerazione (o anche la considerazione prevalente) delle determinazioni comuni; quelle specifiche di quella data formazione sociale – lo ricordo: definita a partire dall’individuazione della sua “collocazione” nel tempo (feudalesimo o capitalismo oppure capitalismo borghese o dei funzionari del capitale, ecc.) e nello spazio (capitalismo “occidentale” o “orientale”, ecc.) – sono essenziali per orientarsi nella vita (in tutti i suoi aspetti) nell’ambito di una storicamente specifica formazione sociale o delle sue diverse parti (ben individuate).
Le determinazioni comuni a molte epoche storiche (a diverse formazioni sociali), o perfino a tutte, appartengono soprattutto agli elementi già considerati del “complesso emotivo”, e hanno quindi un carattere prevalentemente culturale (e ideologico, in quanto valori e sistemi di valori che informano i rapporti interindividuali nelle varie formazioni sociali). Senza alcun bisogno di accettare un determinismo economicistico che vede in questi elementi un puro aspetto “sovrastrutturale”, è difficile negare che la lotta politica (per la conservazione degli assetti sociali o invece la loro trasformazione, quest’ultima potendo assumere valenze più o meno radicali) deve sfruttare a fondo questi elementi (“emotivi” e ideologici), e non può non farlo; tuttavia, tale lotta deve saper incidere sui rapporti sociali in quella particolare epoca e non può certo esimersi dall’indagarne a fondo (via ipotesi) le strutture fondamentali, le quali conoscono configurazioni specifiche in varie epoche (sempre tenendo ben fermo che queste ultime, e la loro differenza, dipendono dagli ambiti temporali e spaziali entro cui si svolge l’indagine posta a base delle scelte politiche).
Se si sfrutta nella lotta una serie di valori condivisi, e si fa appello alla solidarietà, lealtà, generosità, ecc. alfine di meglio unire un dato insieme di individui per l’attuazione di un certo orientamento politico, è evidente che il gruppo dirigente dell’insieme ricerca l’unità di quest’ultimo onde spostare a suo favore i rapporti di forza nei confronti di altri insiemi che a quell’orientamento ne oppongono altri con esso contrastanti; tale spostamento non si ottiene, e quindi non si ottiene il più complessivo mutamento (anche la cosiddetta conservazione implica mutamenti) dei suddetti rapporti di forza, se non si prende atto del campo (la struttura dei rapporti tipica della formazione sociale in quella contingenza storica) in cui si svolge il conflitto, delle forze in campo (gruppi e raggruppamenti sociali), ecc. E’ normale utilizzare nel conflitto determinati valori ritenuti comuni a epoche passate (anzi, in queste assai più vitali; si pensi alla “Roma Imperiale” o al “Mare nostrum” del fascismo), ma si debbono utilizzare ben consci di dove (in quale epoca storica, in quale formazione sociale con le sue specifiche strutture relazionali) si sta svolgendo la lotta. Bello scaldare i cuori con l’Impero romano (imitando i simboli del passato); tuttavia, organizzare le “squadre d’azione”, usare una violenza ben mirata per disorganizzare e demoralizzare lo specifico avversario (con le sue organizzazioni partitiche e sindacali, le sue Camere del Lavoro, le sue cooperative, ecc.) – e poi però svolgere anche azioni “costruttive” particolari adatte all’epoca (che so: ad es. la costituzione dell’IRI, le bonifiche, ecc.) – è assai più decisivo per indurre nella società mutamenti favorevoli a sé.
4. In definitiva, è certo funzionale alla lotta (di certi insiemi sociali) l’esaltazione degli elementi culturali facenti parte del cosiddetto “complesso emotivo”; è utile far credere che tale lotta mira ad affermare i sentimenti considerati positivi del complesso in questione, a far sentire ai membri dell’insieme sociale che essi sono nel “Giusto”, nel “Bene”, che stanno esaltando tutto il (presunto) “Meglio” dell’Essere Umano. Questo mascheramento di più “bassi” interessi è fondamentale; non è, ad es., facile dichiarare che si sta in definitiva combattendo per il proprio arricchimento, e andare egualmente al cimento con entusiasmo; ma nemmeno vi riesce chi soltanto si limitasse a battersi per
3
“un tozzo di pane”, poiché lo farebbe per pura disperazione, non con l’esaltazione che è elemento necessario per combattere con l’intenzione di vincere.
Tuttavia, per quanto appunto necessario, l’entusiasmo ideale non è sufficiente per uscire vittoriosi dallo scontro. Lo ripeto: occorre una direzione strategica del movimento che sappia innanzitutto comprendere su quale terreno si sta combattendo e con quali (non solo quante) forze si scende in campo. Non lo si sa sulla base dei valori ideali per cui ci si batte, non si afferra l’essenziale soltanto basandosi sulle determinazioni comuni, sui sentimenti e aspirazioni più profondi che certamente appartengono agli uomini in ogni epoca storica della formazione sociale. Sia chiaro: si tratta di elementi che non vanno trascurati poiché potrebbero ben essere quelli capaci, in definitiva, di trascinare le cosiddette masse alla lotta. Tuttavia, essi non consentono certo di elaborare una strategia vincente; a tal fine sono necessarie le determinazioni specifiche di quella data situazione storica e sociale, cioè le determinazioni differenziali di cui parla Marx nei passi citati all’inizio. Se si tratta di una battaglia, bisogna anzi arrivare a comprendere pure la ristretta contingenza in cui quest’ultima si combatte; se però si tratta di un confronto tra insiemi (raggruppamenti) sociali – se volete, chiamatela ancora “lotta di classe” – in una data fase storica di una certa formazione sociale, è allora indispensabile afferrare l’intero campo strutturato dei rapporti tra detti insiemi (“classi”), e il formarsi e trasformarsi dei diversi “blocchi sociali” in quella fase, processi che non sono la pura ripetizione di quelli svoltisi in altre fasi, caratterizzate da diverse strutture relazionali.
Questo era il senso reale della ben nota “analisi concreta della situazione concreta” di cui parlava Lenin. Non molto diverso è però quanto intendeva dire Marx, forse non compreso in modo appropriato, quando scrisse nelle Tesi su Feuerbach: “i filosofi hanno finora interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo” (più o meno, vado a memoria). Non che egli volesse opporre nettamente, e antagonisticamente, fra loro interpretazione e trasformazione; metteva invece in evidenza la limitatezza di un atteggiamento interessato esclusivamente alle determinazioni comuni a più formazioni sociali con cui non si individua “concretamente” la strutturazione di nessuna di esse; poiché detta strutturazione è sempre specifica di ogni formazione sociale, in cui si svolge il conflitto tra insiemi (di individui) sociali mossi da finalità contrastanti. E’ bene sia chiaro che il coglimento delle determinazioni specifiche di quella particolare formazione sociale non è necessario solo a chi si prefigge di trasformarla, ma anche a chi pretende di conservarla. Le “classi” reazionarie, non meno di quelle rivoluzionarie (qualsiasi sia il grado e l’intensità della “reazione” o della “rivoluzione”; non c’è in ogni caso mai immobilità sociale assoluta), debbono individuare le determinazioni particolari (e differenti) per agire con possibilità di successo; possono sfruttare (ideologicamente) le determinazioni comuni ad altre epoche, solo però calandosi in quelle specifiche al fine di compiere azioni che mutino qualcosa. Diciamo meglio: che abbiano l’intenzione di mutare qualcosa in una certa direzione – o in senso “rivoluzionario” o in senso “reazionario” – con la consapevolezza che sempre, alla fine, la Storia ci deluderà poiché le nostre azioni provocheranno cambiamenti imprevisti.
Lasciamo stare adesso il termine “concreto” opposto ad “astratto”; lasciamo perdere che Marx e Lenin pensavano di “riprodurre la realtà nel cammino del pensiero”. Non è questo l’importante, bensì essere perfettamente consapevoli che la teoria – se vuol diventare una parte della pratica; cioè la pratica teorica quale guida e orientamento della pratica pratica (quindi della politica) – deve cimentarsi nell’individuazione delle determinazioni peculiari di ogni epoca della società, di ogni formazione sociale delimitata in base a precisi e (pre)stabiliti criteri di carattere temporale e spaziale. La “società in generale” (o “l’Uomo in generale”), esattamente come la “produzione in generale” di cui parla Marx, ha un senso (perché “ci risparmia una ripetizione”, o forse pure per altri motivi che qui non interessano), ma non serve ad orientare l’azione di trasformazione, a individuare il campo e le forze in campo che lottano per mutare la struttura dei loro rapporti; e uso individuare in senso letterale poiché campo e forze in campo presentano, in ogni data fase, caratteri individuali, singolari, per certi aspetti “unici”.
Bisogna avere il coraggio di ammettere che, in linea generale (pur con eccezioni, va da sé), parlare di certi temi in generale annebbia la vista sul da farsi concreto per mutare le situazioni; ecco
4
perché Marx sosteneva che i filosofi si erano fino allora limitati all’interpretazione del mondo mentre sarebbe stata ormai ora di dedicarsi alla sua trasformazione (quelle che denomino rivoluzioni contro o dentro il capitale sono comunque azioni di cambiamento). Le interpretazioni fondate sul generale (sulle determinazioni comuni a più epoche o a tutte le epoche) forniscono senza dubbio un godimento intellettuale, tendenzialmente “estetico”; mi sembrano perciò preferibili nell’attività artistica, che sa cogliere proprio il singolare di quella specifica situazione, essendo però capace di rappresentare nella individualità di quest’ultima anche i vari aspetti comuni di pertinenza del cosiddetto essere umano, cioè gli innumerevoli sentimenti che, pur nelle loro forme di manifestazione “uniche”, costituiscono delle “costellazioni emotive” più generali e travalicanti i tempi.
5. Se però è nostra intenzione agire (da politici e non da “filosofi”) per trasformare il mondo, o anche per conservarlo (poiché senza gli opportuni mutamenti di “adattamento” non si conserva un bel nulla), dobbiamo ricomprendere, all’interno del nostro teorizzare (della nostra pratica teorica), gli elementi della singolarità, della specificità, di quella data fase storico-sociale. La nostra attività teorica deve mirare alla fase, dedicare perciò assai meno tempo e sforzo alle determinazioni comuni e ben di più a quelle peculiari delle diverse epoche storiche. Essa può richiamare senza dubbio, per analogia, certi periodi del passato, perché comunque alcuni aspetti di quest’ultimo sembrano tornare; ma non torneranno mai secondo le vecchie forme di manifestazione, saranno sempre “vestiti” con “abiti” di particolare foggia che, da una parte, rappresentano un mascheramento ideologico da svelare, dall’altra sono “tagliati e cuciti” utilizzando “stoffe nuove” che il Tempo (storico) va intessendo nel suo inarrestabile scorrimento. Questo Tempo non è un vuoto contenitore in cui affastellare eventi successivi, soltanto dipendenti dalle nostre scelte volontarie; è intriso invece di un “etere velenoso”, sempre mutevole nei suoi componenti, che corrode e uccide senza posa il già venuto ad esistenza per lasciare spazio a nuove “entità” che sappiano assuefarsi ad esso, al suo cangiante “materiale” costitutivo, provandosi nella ricerca di “antidoti” che debbono sempre essere specifici per ogni fase del suo cambiamento.
Nella nostra pratica teorica dunque, cioè nella nostra attività di pensiero comunque finalizzata alla politica – cui applicarsi con un minimo di orientamento strategico e non semplicemente per seguire passivamente gli accadimenti – è di ben scarsa utilità lanciarsi in grandi cavalcate storiche o passare a volo d’uccello attraverso i caratteri generali che piacciono a chi semplicemente “interpreta il mondo”, a chi si compiace – è solo un esempio – di vedere nel volo della farfalla di fiore in fiore lo stesso amore dell’uomo nella sua amicizia con gli altri. No, esistono nel “volo della farfalla” e nell’ “amicizia tra esseri umani” determinazioni differenti, che vanno colte esattamente nella loro peculiarità per non scadere nel “romanticismo”, nel “sentimentalismo”, che non cambiano il mondo, anche se, nel migliore dei casi (quando all’emozione si unisce il pensiero), sono in grado di alimentare l’arte. L’artista vero può svolgere una funzione importante nel preparare alla lotta (pur se, in certi casi, contribuisce invece a indebolire l’animo rendendo gli individui disponibili a fuggire, a rinchiudersi in se stessi, a piegarsi e sottomettersi, ecc.); mai è però in grado di condurla, o anche solo di accrescere le possibilità di vittoria, perché a tal fine occorre indagare a fondo i mutamenti intervenuti di momento in momento (storico) oltre a essere abili nel “finale” colpo d’occhio intuitivo, che coglie l’unicum di ogni successiva “costellazione di variabili” entro cui si svolge l’azione: in una battaglia come in uno scontro sociale più vasto, ecc.
Di conseguenza, per quello che qui ci interessa, nella pratica teorica ai fini di quella pratico-politica non ci serve a nulla declinare in tutte le salse possibili la società in generale (tanto meno l’Uomo in generale), così come la produzione in generale non serviva a Marx per analizzare la produzione capitalistica del suo tempo (con il suo centro predominante nella formazione particolare inglese). Anzi, come dice giustamente Marx, la produzione in generale contribuiva a celare proprio la specificità del rapporto capitalistico, che consente l’appropriazione del pluslavoro dei dominati (lavoratori che vendono la capacità lavorativa in forma di merce) pur rispettando le regole dell’eguaglianza insita nello scambio di (merci) equivalenti. Il capitale veniva pensato dagli econo-
5
misti del tempo (quelli successivi non hanno compiuto alcun miglioramento a questo proposito pur a due secoli di distanza) come semplici strumenti di produzione, messi a disposizione del lavoro per trasformare materie prime in prodotti necessari alla vita degli uomini in società (in generale appunto; essendo anzi quella capitalistica la “forma finalmente scoperta” del produrre secondo razionalità: quella del minimax, dell’efficienza economica, come ho più volte messo in luce). Per giungere a simili conclusioni mistificatorie, è sufficiente dimenticare le caratteristiche peculiari del capitalismo, in particolare il rapporto salariale che vede il lavoratore quale “libero” venditore di merce; ma una particolare merce, differente dalle altre (ed ecco ancora spuntare la differenza specifica, senza tener conto della quale nulla si capisce della società in cui viviamo).
Gli economisti di cui parlava Marx (e quelli di oggi non sono diversi al riguardo) ricadono dunque sotto la sua critica ai “filosofi che hanno finora solo interpretato il mondo”. Basta, allora, “filosofare” solo in generale, accomunando processi storici ognuno dei quali possiede pure caratteri suoi peculiari; sono questi da indagare per svolgere azioni trasformative e non meramente interpretative. Niente più produzione in generale, ma meno che meno la società in generale o l’Uomo (umanità) in generale. Per trasformare, cioè per compiere una qualsiasi scelta politica, dobbiamo andare alla specificità della società, alla particolare unione di individui che è la formazione sociale, una struttura – di forma storicamente determinata – di rapporti tra di essi, raggruppati in date “classi”.
Chi parla solo in generale, chi ama accomunare i processi storici più disparati, può essere certo utile nel campo della conoscenza colta ed erudita, non invece in un contesto trasformativo; è insomma piuttosto superfluo per una pratica teorica orientata alla politica. A meno che non si tratti di artisti, perché questi, proprio al fine di rappresentare i sentimenti e le emozioni più antiche dell’umanità, sanno cogliere precisamente l’individuale, il singolare, e sono dunque anche capaci di situarci, di immergerci, in quell’universo del tutto particolare e differente da ogni altro. L’artista, ovviamente, non è uno stratega, non è aduso a cogliere quell’elemento specifico di una data costellazione di forze, afferrando il quale si aprono possibilità di successo nel provocare la trasformazione della stessa a nostro favore; e tuttavia, non sempre ma spesso, l’arte ci è utile nella preparazione all’azione, nel dare forza alle motivazioni che ci spingono ad intervenire nelle situazioni date. E ci spingono per emozione e per ragione, insieme; almeno se si tratta di grande arte e non di mero romanticismo e sentimentalismo d’accatto, da “feuilleton”.
6. Se sono prevalentemente negativi i concetti soltanto declinati in generale, lo è anche quello di formazione capitalistica in generale, la società capitalistica tout court. Alla fin fine, quando a questa ci rivolgiamo e la prendiamo in considerazione nel corso della sua ormai plurisecolare storia, siamo semplicemente capaci di dire che i suoi caratteri generali sono l’impresa e il mercato, che esiste un continuo processo di centralizzazione dei capitali; ci affanniamo sulle tendenze, anch’esse “sempiterne”, a qualche punto finale: la caduta del saggio di profitto, il crollo o la stagnazione della struttura del capitale (ormai dominata da rentier puramente finanziari), il “limite insuperabile” (e sempre superato da due secoli e passa) posto dai rapporti capitalistici (quelli della proprietà privata dei mezzi produttivi) allo sviluppo delle forze produttive; e altre “verità” catechistiche di una chiesuola fastidiosa (e qualcosa di più) per la sua ormai congenita ottusità “cattedratica”.
E’ ora di dire chiaro e tondo che è antimarxista chiunque usi categorie in generale, misurando il mondo – cangiante e mutevole nel tempo (storico) e nello spazio (geopolitico) – sempre con lo stesso metro. Perfino Marx – se fosse per miracolo vissuto altri cent’anni e avesse insistito sulle “verità” de Il Capitale – sarebbe divenuto uno sclerotico antimarxista. Non parliamo poi di quelli che si sono ad un certo punto sognati di sostituire l’analisi della succitata massima opera marxiana con i materiali ad essa preparatori, non ancora decantati ed elaborati (i famosi Grundrisse, che hanno portato dal marxismo al “grundrissimo”). Intendiamoci, non è che quei materiali non fossero pieni di spunti geniali, ma voler andare con essi oltre Il Capitale è come voler superare la teoria della relatività, tornando agli spunti che Einstein ha sicuramente fissato (in testa e sulla carta) prima di arrivare all’elaborazione definitiva delle sue idee.
6
Si è tuttavia fatto anche di peggio: si è cercato di trovare la “novità” da immettere nel marxismo per rifondarlo, andando a prendere i primi testi – intelligenti ma incerti, oscillanti, perché ancora manchevoli di molti studi ed elaborazioni – composti da Marx all’inizio della sua opera di studioso e pensatore (si è perfino “dissepolta” la sua tesi di laurea, pur di fargli dire qualcosa che contraddicesse il suo indubbio spirito scientifico). Poi, non sapendo dove sbattere la testa per ridurlo agli umori dei (non) pensatori del “romanticismo” e “sentimentalismo” d’accatto di cui si è già detto, si è messo in sordina Il Capitale per enfatizzare alcune lettere sulle comunità, fra cui la principale è quella a Vera Zasulic.
Comunque, lasciamo perdere. Il Marx da studiare e da prendere in seria considerazione è quello de Il Capitale e di alcune altre opere (importanti anche quelle “politiche”, di grande intelligenza e acume), ma a spizzichi e mettendoci le mani con “sapienza” e “prudenza”. Solo che, come in ogni opera scientifica, vi sono parti caduche, che il tempo rende tarlate e polverose; è molto probabile che non sia nemmeno scienza se non accade questo. In ogni caso, a Marx è accaduto; e tuttavia non va certo trattato come un “cane morto”. Semplicemente, dobbiamo applicare alla sua opera i canoni della critica scientifica; e, guarda caso, questi canoni, in fondo, ce li fornisce lui stesso con brani come quelli che ho riportato all’inizio.
Non è scientificamente corretto parlare in generale di società capitalistica. Tutte le formazioni sociali (particolari), che da secoli si sono sviluppate in certe zone – e, più o meno, tutte le principali formazioni esistenti attualmente sulla faccia del globo – hanno alcune caratteristiche (“determinazioni”) comuni, tra le quali ho indicato l’impresa e il mercato. Tuttavia, riprendo parzialmente i passi di Marx citati all’inizio, sostituendo al termine “produzione” quello di “formazione capitalistica”:
“Le determinazioni che valgono per la formazione capitalistica in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità ….. non vada poi dimenticata la differenza essenziale Per riassumere: esistono determinazioni comuni a tutti gli stadi della formazione capitalistica, che vengono fissate dal pensiero come generali; ma le cosiddette condizioni generali di ogni formazione capitalistica non sono altro che questi momenti astratti con i quali non viene spiegato alcuno stadio storico concreto della formazione capitalistica”.
Ripeto che qui non sto a discutere del termine “concreto” come opposto ad “astratto”; non disquisirò nemmeno sul termine “stadio” cui preferisco sostituire quello di ricorsività (da utilizzare con grande prudenza per non cascare in una sorta di ripetizione all’infinito delle medesime fasi storiche; ci mancherebbe altro). Quello che mi interessa sottolineare è che ci sarà da compiere uno sforzo di specificazione: non certo però per ripristinare la nozione di stadi successivi dello sviluppo capitalistico (sempre trattato in generale), magari tendente a qualche sbocco finale con un bel “Sole dell’avvenire” che sale all’orizzonte. E’ necessario afferrare, sia pure in teoria (nella pratica teorica in quanto bussola per la pratica politica), le determinazioni storico-specifiche di cui si preoccupava Marx nella sua epoca, quando si trattava di distinguere le caratteristiche peculiari dello sfruttamento capitalistico rispetto a quello esistente in società precedenti; nonché la dinamica specifica di tale moderna forma di sfruttamento che sembrava dover condurre alla sua autonegazione, quindi alla liberazione dalla stessa (e da ogni forma di sfruttamento).
7. Impresa e mercato sono le determinazioni che valgono per la società del capitale in generale; le isoliamo, ma con questo non abbiamo “spiegato alcuno stadio storico concreto” di questa società, denominata capitalistica non soltanto dai marxisti. Del resto, si prenda pure la teoria del plusvalore. Senza dubbio, essa mette in luce una determinazione comune a tutte le epoche della formazione sociale (a dir la verità, per usare le parole di Marx, più limitative tuttavia, dovrei dire: “a tutte le epoche della formazione economica della società”): quella rappresentata dal pluslavoro. Quest’ultimo viene estratto, nella formazione capitalistica, con metodologie differenti rispetto ad ogni altra precedente società (e sotto la maschera della forma di merce che occulta lo sfruttamento). In tal caso, la rilevanza decisiva delle particolarità che differenziano una forma di società dalle altre viene posta
7
pienamente in risalto. Tuttavia, questa caratteristica specifica del capitalismo (il pluslavoro come plusvalore) non serve a differenziare i diversi tipi di società capitalistica già sopra considerati.
Finché si rimaneva nell’ambito della famosa affermazione di Marx – de te fabula narratur – non sorgeva alcun problema. L’idea era molto chiara: in un dato volger di tempo (che Marx non pensava fosse di secoli, bensì abbastanza breve; si leggano per favore con attenzione anche solo gli ultimi capoversi del capitolo sull’accumulazione originaria ), il modo di produzione capitalistico avrebbe nella sostanza unificato e omogeneizzato il mondo o almeno la sua parte preponderante. Tale modo di produzione – nulla a che vedere con la mera globalizzazione mercantile, cavallo di battaglia di tutti gli ipocriti elogiatori di Marx, giacché il modo di produzione è appunto una storicamente determinata forma di sfruttamento, di estrazione di pluslavoro secondo modalità di ingannevole equivalenza negli scambi mercantili – era stato “scoperto” in base all’analisi del capitalismo inglese nell’epoca della sua preminenza mondiale; e se ne erano tratte conclusioni, rivelatesi errate, in merito allo sbocco finale del processo del suo sviluppo, che avrebbe dovuto creare le condizioni sociali oggettive (il lavoratore collettivo o combinato, dal dirigente all’esecutore) per l’avvento della nuova società senza più classi né sfruttamento.
Nulla di tutto ciò è avvenuto; ho illustrato in molti altri scritti le ragioni (teoriche: di pratica teorica) delle errate previsioni e del fallimento ormai conclusivo della pratica politica comunista. Una di queste ragioni, e senz’altro decisiva, è proprio l’inesistenza di un modo di produzione capitalistico, mentre esistono diverse formazioni sociali capitalistiche, con loro caratteristiche differenziali, sulle quali bisogna fissare l’attenzione ove infine si vogliano progettare e possibilmente tradurre in atto pratiche (politiche) di trasformazione. Essendo io un pensatore ancora pregno della teoria marxiana, incontro notevoli difficoltà nell’individuare queste specificazioni e differenziazioni, sia nel tempo che nello spazio. Posso solo utilizzare termini al momento assai poco determinati: capitalismo borghese (l’unico indagato da Marx ed erroneamente preso per il modo di produzione capitalistico) e quello dei funzionari del capitale (tipico della fase storica di predominanza statunitense); oppure capitalismo “occidentale” e “orientale” (termini ancora più generici). In questa direzione, comunque, debbono lanciarsi i più giovani – liberi da vecchi schemi che irrigidiscono il cervello – rispettando l’assunto marxiano secondo cui solo mediante determinazioni specifiche si possono spiegare le differenti strutture dei rapporti in diverse formazioni sociali, quindi anche in diverse formazioni capitalistiche.
Anche se i sacerdoti di una chiesuola ormai diroccata mi pensano come una sorta di traditore, in realtà sono ancora invischiato nelle pastoie del pensiero marxiano (e marxista). Ho solo preso coscienza della sua transitorietà – tipica di ogni pensiero effettivamente scientifico – e segnalato alcuni elementi di estrema debolezza che l’hanno condotto ad una pratica del tutto errata (con effetti contrari a quelli voluti); ma questa erroneità, riconosciuta, è sempre il primo passo per apprestare una pratica teorica del tutto diversa. Non è detto che debba essere elaborata subito quella “giusta”, cioè efficace in merito agli obiettivi perseguiti; tuttavia, è ora di iniziare a percorrere nuovi sentieri, retti da nuove ipotesi. Peggio di così non può andare; abbiamo “solo da perdere le catene” di un pensiero ormai opprimente e devastante, perché cristallizzato da alcuni “cervelli di cemento”. Fra l’altro, troviamo alcune “cure mediche” nei principi fissati dallo stesso Marx, come ho cercato di indicare in questo piccolo saggio. Ulteriore dimostrazione della grandezza del pensatore e del politico che ha illuminato tanta parte del mio cammino (e non solo del mio, ovviamente).
8