Gruppo di cretini congeniti dinanzi l'enigma russo
16/10/2007 – fatti e commenti
Molti eventi si aggiungono per designare come particolarmente attuale “la questione russa”. Alcuni, sostenuti da buone memorie ed interessate a fare gli importanti (che accrescendo le circostanze del dramma, si cresce esso stesso), parlerebbero “dell’enigma russo”.
La crisi dell’ABM è, in tutti i casi, un buono mezzo per esprimere la questione che ci è posta. (Si confermerà qui che l’interesse degli ambienti diplomatici europei per questa crisi non cessa di crescere e confermarsi attualmente, – cioè la realizzazione soltanto dell’affare pentagonesco dell’ABM, anti-missili USA in Europa, è una crisi, -curiosità finale- che riguarda l’Europa…
Vi è oggi una vera mobilizzazione stupefatta ed che fa un po’ paura agli ambienti diplomatici del nostro continente.)
Effettivamente, gli americani si sono mobilitati per avere un resoconto delle loro relazioni con la Russia. La mediocrità della situazione descritta confonde, in particolare per le analisi, osservazioni, ecc. gli esperti. Si trovano gli stessi passi un po’ ovunque, nel campo occidentale. La vacuità dei pensieri è per contro proporzionale alla sufficienza ed alla vanità di quelli che li emettono; è assai probabile che si possa elaborare una relazione solida di causa ad effetto tra le due constatazioni.
La relazione/analisi dei giornali McClatchy Newspapers del 12 ottobre, a cui ci riferiamo in dettaglio, fa un bilancio sorprendente, quasi surrealista, degli errori commessi nell’approccio americanista, inizialmente, di Putin e della Russia, delle loro cause, delle loro conseguenze. Si crederebbe di essere in una classe elementare nutrita di fumetti o nella sala d’attesa di uno stabilimento psichiatrico anche elementare. Non è che la realtà sia tenuta in bassa stima, è piuttosto che è sottoposta costantemente al diktat virtualista degli analisti del dipartimento di Stato, (“Poiché” dice l’ufficiale del dipartimento di Stato citato, “si rifiutava di ammettere che i Russi abbiano un’opinione diversa da quelle del dipartimento di Stato”). Il risultato è che confonde ed ha effetti devastanti.
Dal lato tedesco, abbiamo messo in linea molti echi che mettono in evidenza i blocchi della politica esterna tedesca, in particolare le relazioni germano-russe. Si legge ciò tanto sull’ABM, sull’Iran (in relazione con i Russi) che “sulle relazioni strategiche” germano-russe nelle quali Merkel è diventata “un attore passivo”. Immaginate le relazioni strategiche di cui sareste uno dei due attori e dove rifiutereste di essere un attore attivo? È il caso tedesco, con una diplomazia così identificabile come una medusa che galleggia nell’acqua torbida e che trova, bruscamente, un senso di resistenza a proposito dei diritti dell’uomo.
I francesi non sfuggono a questo triste carnaio diplomatico. Kouchner elegante, ha posto il suo segno di tattico abile da ‘dirittoumanista’ nell’emisfero dei diritti del pensiero diplomatico francese. Di conseguenza, galleggia la diplomazia francese. Ma, secondo l’idea forte ben conosciuta, la Francia resta la Francia e ci si rende conto che avviene qualcosa, che è chiaramente identificato dal contrasto tra Sarko del 9 ottobre e Sarkozy del 10 ottobre a Mosca. C’è conflitto tra l’emisfero destro e l’emisfero sinistro. Il 12 ottobre, alla trasmissione ‘Ça se dispute’ (su TV-I), Eric Zemmour faceva osservare, a proposito di questa visita moscovita, che vi si era vista, in modo ovvio, la contraddizione tra le due linee diplomatiche della Francia. Sarko ha detto Zemmour, dovrà scegliere tra queste due linee contraddittorie, “la linea kouchnérienne, “ditittoumanista”, che conduce all’atlantismo puro e duro, e la linea classica francese, gollista ed eurocentrica”. Il suo compare, Nicolas Domenach, di Marianne, per una volta era d’accordo, approvano e concludono per suo conto: “Sono d’accordo e credo che finisca per scegliere la linea tradizionale, gollista.” Si vedrà.
Tabella triste delle nostre chimere
Perché parlare “di un gruppo di cretini congeniti”? Nessuna aggressività, nemmeno una certa (sebbene discreta) affezione. (“Dove si trovano i cretini, la popolazione crede che la presenza di un essere di questa specie porti felicità alla famiglia”, ha scritto Balzac, in ‘Medico di campagna’, citato da Robert.) Il cretinismo è soltanto un problema d’insufficienza tiroidea. C’è una dimensione quasi emozionale che non può non toccarli, nell’ignoranza vanitosa e nell’incultura pomposa che segnano, oggi, i caratteri diversi delle nostre diplomazie occidentali.
Esiste un legame chiaro come il giorno, ed ovviamente contraddittorio se non antagonistico, tra la potenza e l’eleganza: più diventiamo potenti, più il nostro spirito s’imbrutisce, più il nostro pensiero si appesantisce… Effettivamente, una questione d’insufficienza tiroidea. Le esclamazioni si profondono, in particolare dal lato USA. Sembrerebbe che la Russia voglia ricostituire la sua potenza! Circostanza straordinaria, cosa assolutamente inattesa, che si scopre oggi.
L’eccellente Rice, così qualificata per la competenza kremlinologista, si strangola di indignazione dinanzi all’aumento vertiginoso del bilancio della difesa russa: pensate, cari concittadini, che supererebbe presto un decimo del bilancio del Pentagono? (E perfino questi voli, completamente spaventosi, dei Tu-95 “Bear”: “ I think the rapid growth in Russian military spending definitely bears watching. And frankly, some of the efforts – for instance, Bear flights in areas that we haven’ t seen for a while – are really not helpful to security.”) Tutte
queste voci surrealiste, nascondono lo stupore di una rivelazione. L’occidente si sta accorgendo, con una certa maestà e la virtù della giovane donna, appena uscita dal convento, che avviene qualcosa. Ha, dunque, messo tra i 3 e i 4 anni, l’occidente, “per accorgersi„.
Due cose glielo impongono:
La crisi anti-missili, che non si risolve e che potrebbe effettivamente risultare nell’abbandono, da parte dei Russi, del trattato FNI (LRINF), l’elemento essenziale della sicurezza europea. Chi pagherà i vasi rotti? Non gli americani, che sono piuttosto, dalla parte che rompe i vasi. Allora, gli europei si preoccupano. Li capiscono.
L’avviso che Putin, gestirà il mantenimento al potere di sé stesso, con un giro di valzer. Questo passaggio, ovviamente antidemocratico (è facile da verificare con, come riferimenti, le nostre attività virtuose), a noi appare anche, brutalmente, come un impegno di continuità dell’insopportabile politica russa. Il novantotto percento dei diplomatici europei, coinvolti nelle relazioni con la Russia, faceva il pesce i barile, fino alla partenza di Putin, argomentando che la situazione si chiarirebbe (si vede come) dopo le sue dimissioni, poiché, si sa, per sicura scienza, che ci si chiarirà negli USA, dopo la partenza di GW. I loro piani sono ridotti a brandelli, la loro pelliccia compromessa. La situazione appare, allora, singolarmente netta, tanto più netta in quanto è singolarmente avanzata e che esiste un fenomeno di sequenza che la chiarisce.
E dire che non c’è “un enigma russo”.
L’ascesa della Russia di Putin è iniziata nel 2000-2001, con la sua prima elezione alla presidenza; è dall’11 settembre 2001, che si scopre la politica bellicista americanista (ed occidentale con estensione?), in tutta la sua specificità. In queste condizioni precise, e sempre che si adottino le prescrizioni imperativamente egemoniche dell’americanismo versione Cheney-Perle, la contraddizione tra la Russia e l’occidente era su binari inevitabilmente antagonistici. La sottile politica americanista (“… si rifiutava di ammettere che i Russi abbiano un’opinione diversa da quelle del dipartimento di Stato. „) poteva soltanto suscitare l’attuale politica russa. Crediamo realmente che Putin fosse “a good Guy and one of us” (cioè “a good Guy because one of us”)?
Crediamo realmente, che le nostre pressioni ‘dirittumaniste’ forzassero i Russi? Contrariamente a ciò che ci aspettavamo, c’era un tipo d’intesa piacevole secondo i nostri “principi” al quale avremmo spinto i Russi, eventualmente dopo l’eliminazione “naturale” di Putin, naturalmente si è realizzato l’opposto sotto i nostri sguardi vuoti.
Gli europei iniziano ad accorgersene. Forse iniziano a dirsi che non hanno gli stessi interessi dei loro amici americanisti. Forse siamo entrati nella sequenza che porta al distacco delle valutazioni. Si parla qui, della crisi degli anti-missili, questa promessa, nel tenere il ruolo centrale, che si è evocato sopra, di ricettacoli di tensioni, di disaccordi e dell’ignoranza tra la Russia e l’Ovest, pende principalmente sul nostro capo.
Tutto questo sarcasmo e questo scherzare, seguite da una situazione in rapida crisi, – quella anti-missili e quella della nostra relazione con Russia, che si confondono, – per mostrare con derisione, quanto la politica americanista/occidentalista verso la Russia, sia sommaria e sostenuta tanto dal simbolismo primitivo che dall’auto-manipolazione grossolana, segnata dall’apriorismo del giudizio e dalla febbre della percezione, nata dal suprematismo caratteristico del nostro comportamento attraverso forza e belle formula morali.
Siamo imprigionati “nella narrativa” della nostra guerra fredda, sulla quale è stato costruito l’ordine post-guerra fredda. Quest’assemblaggio implica e richiede la colpevolezza russa, la grossolanità russa, il servilismo russo. Sono i soli fattori paradossalmente oggettivi ai nostri occhi, ai quali ci riferiamo per comprendere la Russia. A colpi di propaganda, di rivoluzioni fasulle provocate, dell’attivismo di organizzazioni di facciata, l’occidente ha montato in questi ultimi anni una rappresentazione diabolica e screditante della Russia, che prendiamo in considerazione, da virtualisti perfetti che siamo, e che è il solo riferimento della nostra politica. La nostra politica è prigioniera di quest’assemblaggio.
I nostri diplomatici sono a misura di questa povera situazione. Lavorano nell’etere delle illusioni forzate. È ancora un caso, che sembra il solo caso di situazione possibile in questo tempo storico, dove la crisi vive da sé stessa, perfettamente fuori controllo, conducendoci a fratture destabilizzanti.
Faremo, in seguito, i conti degli “scellerati” espulsi per l’occasione.
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Traduzione di Alessandro Lattanzio http://www.aurora03.da.ru/
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I gasdotti iraniani minano Washington
Bernard Estrade Mondialisation.ca, 2 giugno 2008 Géopolitique.com
Royal Dutch Shell e Repsol rinunciano a sviluppare la più grande riserva di gas naturale al mondo… in Iran. Ritornando sull’accordo firmato l’anno passato con Teheran, hanno annunciato che non parteciperebbero alla fase 13 di South Pars, un giacimento situato nelle acque iraniane. Il gruppo Total comunicherà le sue intenzioni a Teheran alla fine del mese di giugno.
Suspense… Le società energetiche non ci avevano abituati a tale incostanza. Né Shell, né Repsol ufficialmente non hanno spiegato la loro decisione. Ufficiosamente e senza altra precisione, sono stati evocati “incertezze e rischi geopolitici”. È, infatti, difficile per queste società petrolifere motivare la loro decisione di rinunciare a partecipare allo sviluppo di questo eldorado gasifero, dalla superficie di 1.300 chilometri quadrati. Il mercato mondiale è affamato, i prezzi del petrolio e del gas volano e gli attori del settore si dedicano a una concorrenza spietata per avere accesso ai giacimenti.
Una ragione politica prevale. Gli Stati Uniti hanno l’Iran nella loro linea di mira e moltiplicano le pressioni economiche per impedire alle società petrolifere occidentali di partecipare all’esplorazione ed allo sfruttamento degli idrocarburi di questo paese.
Poiché Teheran vuole dotarsi dell’arma nucleare e minaccia Israele, gli Stati Uniti sono riusciti a fare adottare dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite tre serie di sanzioni che riguardano l’Iran. Ma, anche con l’aiuto della Gran Bretagna e della Francia, Washington, finora, non ha ottenuto dalla Comunità internazionale che le sanzioni siano estese al settore dell’energia.
La sfida è importante: lo sfruttamento degli idrocarburi rappresenta, con 70 miliardi di dollari, 80 percento del reddito annuale in valute straniere dell’Iran. L’amministrazione del Presidente Bush, che rspinge all’unilateralità, ha organizzato il suo boicottaggio. S’impegna a farlo rispettare anche alle imprese non americane, esercitando tutta la gamma delle pressioni politiche, diplomatiche ed economiche.
Le banche, particolarmente considerate, sono state così informate che finanziare progetti petroliferi in Iran poteva proibire loro l’accesso al mercato finanziario americano. Tuttavia, da un punto di vista tecnico, un allineamento su questo boicottaggio dell’Iran fa pesare un rischio di tensione sull’approvvigionamento di energia dell’Europa. I clienti, per gli idrocarburi iraniani, non mancano.
Teheran ha, del resto, ha previsto che Gazprom per la Russia, Sinopec per la Cina, la INOC per l’India e SKS per la Malesia, prendano il posto delle società europee in South Pars. L’Iran, l’India ed il Pakistan anche, hanno appena rilanciato il progetto di gasdotto che collega i tre paesi, in sofferenza da molti anni a causa dell’ostruzione degli Stati Uniti. La firma formale per questo gasdotto è prevista per giugno. L’accordo è stato annunciato il mese scorso durante la visita ufficiale del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a Islamabad ed a Nuova Delhi.
Nonostante i suoi interventi, Washington non ha potuto impedire al Pakistan e all’India, i suoi due principali alleati strategici nel subcontinente, di mettersi d’accordo con Teheran su un progetto dell’importo di 7,6 miliardi di dollari che “Libera” l’Iran. L’Iran moderno, anche della rivoluzione islamica, guardava verso l’ovest e l’occidente. Non è nell’interesse dei paesi europei forzare Teheran a guardare verso l’est e l’Asia, dove i suoi vicini immediati gli offrono accesso alla tecnologia, sbocchi per i suoi idrocarburi e mercati per i suoi prodotti manifatturieri. In questo Vicino Oriente, in cui si trovano una gran parte delle risorse mondiali conosciute di petrolio e di gas, gli Stati Uniti controllano l’Arabia Saudita. Le società americane chiudono i giacimenti petroliferi dell’Iraq, a causa dell’occupazione militare.
Se le sanzioni imposte da Washington forzano l’Iran a voltarsi verso l’Asia, cosa potrà ben restare all’Europa, per garantire la sua indipendenza energetica? La Svizzera è passata oltre. Alla conclusione di un contratto dell’importo di 27 miliardi di euro, firmato a fine aprile. L’Iran fornirà, in 25 anni, gas alla società svizzera Elektrizitäts-Gesellschaft Laufenburg (EGL). Gli Stati Uniti hanno, tuttavia, minacciato pubblicamente la Svizzera di ritirarle il ruolo di rappresentante degli interessi americani a Cuba ed in Iran, cosa che garantisce da quando Washington ha rotto le sue relazioni diplomatiche con questi due paesi.
Total aveva ottenuto, come Shell e Repsol, un’opzione sullo sviluppo di South Pars. Ai sensi dell’accordo preliminare, il termine dato alla società francese, per confermare o rinunciare l’operazione, scade a fine giugno. La società petrolifera francese prova a tergiversare ma l’Iran intende forzarla a pronunciarsi. La risposta di total darà una buona idea della sua indipendenza, e della volontà e delle capacità di Parigi di seguire una politica indipendente da Washington.
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Il nuovo nazionalismo patriottico latino-americano e la sua integrazione regionale
Juan Diego Garcia Mondialisation.ca 30 maggio 2008 El Correo
L’onda nazionalistica che percorre l’America latina ha come complemento necessario il processo d’integrazione regionale. A questo nazionalismo (ai sensi patriottici del termine) di nuova creazione, s’oppongono non soltanto i partigiani del neo-liberalismo che perorano il rigetto del nazionale e preparano l’integrazione con gli Stati Uniti, come l’unico modo per uscire dalla povertà.
I partigiani creoli del neoliberalismo difendono l’apertura commerciale, disprezza come obsoleta e manifestazione ridicola qualsiasi espressione di nazionalismo, parlano di una supposta cittadinanza e una cultura “mondiali”, condannano senza appello la difesa dei segni identità propri, come un atteggiamento reazionario, pre-moderno e farcito da un indigenismo ridicolo.
Allo stesso tempo, non hanno nessuna difficoltà ad ammirare la cultura anglosassone e ad accettare, come fosse naturale, che gli statunitensi si proclamino d’essere il popolo eletto dall’Altissimo, e commossi, ne cantano l’inno nazionale, anche nelle circostanze più anodine, ed esibendone la bandiera quasi con ossessione.
Il nuovo nazionalismo latino-americano trova la sua migliore espressione nel rifiuto generalizzato all’ALCA e ai “trattati di libero commercio”, per i vantaggi che accordano agli Stati Uniti, mentre sacrificano il lavoro nazionale sottoponendolo ad una concorrenza impossibile con le merci straniere, e poiché ne superano in gran parte gli obiettivi commerciali, compromettono la sovranità stessa.
Non è un caso che molti vedono, in quest’integrazione con gli Stati Uniti, un nuovo tipo di colonialismo che condanna ad una dipendenza ancora più grande. Ma Washington ed i suoi alleati, non hanno tutte le carte dalla loro. Il nuovo nazionalismo latino-americano s’è già tradotto in progetti d’integrazione regionale, con cui cercano, sul posto, di difendere i propri interessi comuni, di fronte a terzi; un nuovo nazionalismo che è, quindi, compatibile con l’obiettivo dell’unità ed a una vecchia aspirazione, che risale anche alle guerre d’indipendenza. Infatti, all’inizio c’erano stati dei legami tra i loro territori, e dopo, quando fu spezzato il legame con la metropoli, ognuno si orientò verso i mercati mondiali, ignorando i propri vicini.
Già durante il secolo scorso, ci furono alcune iniziative d’integrazione, ma senza grande successo. Oggi, al contrario, tutto segnala che l’integrazione regionale conosce condizioni più favorevoli, inoltre vi è la necessità, inevitabile in un panorama internazionale complesso come l’attuale, che trasforma l’isolamento nazionale in un suicidio. Per dare uno slancio decisivo all’integrazione regionale, i governi della regione si riuniscono ora in Brasile, nel quadro dell’Unione delle nazioni Sudamericane – UNASUR- con un programma ambizioso che include forme variate di cooperazione politica, commerciale, d’investimento sociale e di difesa.
Lula propone che le nazioni della regione costituiscano un Consiglio di sicurezza propria per garantire la difesa comune, proprio quando il Pentagono spiega la IVa flotta nei Caraibi, “per combattere il terrorismo”, in via ipotetica (scuse che non fuorviano nessuno). L’iniziativa del presidente del Brasile ha un significato enorme e va nella stessa direzione della proposta di Hugo Chavez, di creare “l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Sud” – OTAS – ovvia riproduzione della NATO, ma con la sola presenza dei Sudamericani. Questa iniziativa, nel settore della difesa, è particolarmente sensibile. Infatti, influirebbe a fondo sui trattati militari attuali con gli Stati Uniti, impedirebbe la presenza della NATO nella regione, e corrisponde con la partenza “dei gringos” dalla base militare di Manta, in Ecuador ed il rifiuto generalizzato del loro trasferimento in Colombia, precisamente alla frontiera con il Venezuela.
La banca del Sud-Est è già una realtà che ha iniziato ad operare come alternativa agli organismi di credito controllati dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, che è visto con sfiducia ed è stato perfino respinto apertamente da molti governi, essendo responsabili “dei consigli” (imposizioni) che hanno portato a gravi crisi economiche, nella regione, ed hanno causato sollevamenti popolari con la caduta di molti governi (e centinaia di morti).
Petrosur, un’altra iniziativa del presidente Chavez, ha non soltanto basi economiche molto solide ma permette una grande autonomia ai governi, proprio su una questione chiave come l’energia. Numerosi sono i progetti d’infrastruttura destinati a produrre un vero mercato interno, come pure i vasti programmi d’investimento sociale in istruzione, sanità ed alimentazione, chiavi per lo sviluppo economico. Certamente, non sono inferiori le difficoltà che affronta l’integrazione regionale.
Esistono diseguaglianze considerevoli nel grado di sviluppo economico tra i paesi, asimmetrie regionali inopportune ed attività, che più che completarsi, causano non auspicabili concorrenze. Non vi è neppure armonia tra i vari sistemi di governo ed i cambiamenti politici possono causare ritardi considerevoli.
La costruzione d’infrastrutture è, spesso, una sfida titanica, imposta dalla geografia stessa (ad esempio, per collegare il Pacifico all’Atlantico, aprendo nuovi orizzonti commerciali e liberando potenzialità immense). Non si devono neppure ignorare le azioni ostili delle multinazionali, che proveranno a mettere i bastoni tra le ruote dell’integrazione (sostenute dalla diplomazia dei loro rispettivi governi), né meno ancora i conflitti locali che possono paralizzare il processo. Il più immediato, è quello che oppone la Colombia all’Ecuador, al Venezuela e al Nicaragua o le controversie di confine tra il Cile, il Perù e la Bolivia, o le differenze tra l’Argentina e l’Uruguay, riguardo le fabbriche di pasta di carta delle multinazionali (della Finlandia, dell’Unione europea), o tra il Brasile, l’Argentina ed il Paraguay quando si rivedrà la distribuzione dei vantaggi derivati dall’energia che producono congiuntamente.
Ma nessuna di queste difficoltà costituisce un ostacolo insormontabile, esiste una volontà politica e, soprattutto, l’integrazione è una necessità imperiosa imposta dalla realtà mondiale. Infatti, dinanzi ai processi di concentrazione dei capitali e dei mercati non vi è altra uscita che l’unione delle economie, per raggiungere dimensioni adeguate e resistere alla sfida.
Tutti sono sottoposti alla concorrenza selvaggia per le risorse naturali, e sarebbe una mancanza di buon senso, provare a fare fronte ai paesi ricchi, con la debolezza di chi suppone di poter negoziare in solitudine, essendovi la minaccia di coloro che avanzano il diritto d’intervenire militarmente in qualsiasi angolo del pianeta, “per promuovere la democrazia” o “difendere i loro interessi nazionali”.
Nulla di meglio che costituire organismi capaci di dissuadere e difendere, da liberi, uno sviluppo scientifico adeguato, solo il lavoro congiunto garantisce la possibilità di raggiungere la massa critica sufficiente a superare il ritardo tecnologico.
Vittime della valanga d’una certa cultura pattumiera, che proviene dalla metropoli, che degrada sempre più, il solo cammino è cercare di rafforzare l’unità di coloro che sono sottoposti alle stesse minacce. Il sogno unitario del Libertador Simón Bolivar -la grande patria- cessa d’essere, oggi, un semplice desiderio o sogno di capi idealisti, per trasformarsi in una realtà che ha tutta l’intenzione d’essere irreversibile. Il nuovo nazionalismo latino-americano, non è né esclusivo, né xenofobo, né si nutre d’alcun razzismo.
L’integrazione non né suppone la dissoluzione di ciò che è proprio di ogni paese, in un’amalgama informe, né la perdita dei segni d’identità di ciascuno. I promotori, politici di quest’iniziativa, sottolineano tanto la necessità imperiosa dell’integrazione, con tutti questi elementi che trasformano la storia nazionale dei loro popoli, in un destino comune, iniziando con il loro passato condiviso di povertà, sottomissione e dipendenza e le loro aspirazioni allo sviluppo, dignità ed autonomia nazionale.
Tutto indica che intraprendono un buono cammino.
El Correo, 23 maggio 2008.
Traduzione di Alessandro Lattanzio http://www.aurora03.da.ru/
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