LA GUERRA DEI MEDIA: COME CONTARE I MORTI IN KOSOVO?

L’IMPERO DEL PAPA

LA GUERRA DEI MEDIA:
COME CONTARE I MORTI
DOSSIER BALCANI

INKOSOVO?   di Alfonso DESIDERIO
La battaglia delle cifre sui massacri compiuti in Kosovo dai serbi e dall’Uçk ha come posta in gioco la legittimazione dell’intervento militare e il concetto di ‘guerra umanitaria’. Le rivelazioni
di Stratfor e dell’Osce e le repliche del Dipartimento di Stato.
LA CAMPAGNA AEREA DELLA NATO INI-
ziata il 24 marzo 1999 non è stata la sola guerra che si è combattuta per il Kosovo. La provincia serba a maggioranza albanese è stata al centro anche di un’altra guerra, quella dei media, che aveva e ha come scopo la conquista delle opinioni pubbliche internazionali. La campagna aerea della Nato è terminata il 9 giugno, la guerra sui media è ancora in corso. La posta in gioco nella prima guerra era riportare l’ordine e la pace nel Kosovo e/o assicurarsi il controllo della regione; nella seconda gli obiettivi sono la legittimazione degli interventi militari dell’Occidente fuori dalla propria area, l’affermazione dell’idea di guerra umanitaria e i futuri equilibri nei Balcani.
Nella guerra del Kosovo i contendenti erano facilmente identificabili: da una parte la Nato e gli albanesi, dall’altra i serbi e sia pure indirettamente —– almeno per un certo periodo – Russia e Cina. Nella guerra dei media, o – se si preferisce – della propaganda, invece il fronte è indefinito: serbi e albanesi chiaramente rimangono su opposte barricate, ma i veri contendenti sono all’interno del fronte occidentale.
La guerra dei media si combatte con le parole, o meglio con le interpretazioni e le «stime» di fatti accaduti. I fatti in questione sono le violenze perpetrate dai serbi sugli albanesi e viceversa, prima, durante e dopo la guerra del Kosovo: dal massacro di Racˇak nel gennaio 1999 a quello di Izbica, dall’esistenza o meno di un genocidio perpetrato dai serbi al numero delle vittime albanesi nelle fosse comuni. Le parole-chiave sono: strumentalizzazione, provocazione, pulizia etnica, genocidio, propaganda e «stime» (cioè il conteggio delle vittime fondato sui racconti dei sopravvissuti e non sulla base di un computo effettivo dei cadaveri).
Per conoscere la verità – se ne esiste una sola – ci vorranno anni e sarà compito della storia pronunciare una parola chiara. La politica corrente invece si fa con

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le interpretazioni e le percezioni, non c’è possibilità di aspettare: ma nei Balcani – e non solo in quella regione —– i popoli hanno una secolare esperienza nel distorcere a proprio comodo le interpretazioni degli avvenimenti di rilievo politico.
Il dossier Stratfor scatena la tempesta
Il 17 ottobre il centro di intelligence americano Stratfor pubblica su Internet un dossier intitolato Dove sono le fosse comuni del Kosovo?1. In primo luogo il dossier riporta le dichiarazioni rilasciate a El País 2 da due esperti spagnoli, componenti della squadra inviata a cercare le fosse comuni in Kosovo. Perez Pujol, direttore dell’Istituto di anatomia legale di Cartagena, dichiara: «Ho letto i dati dell’Onu, cominciavano con 44 mila morti, poi sono stati abbassati a 22 mila, ora parlano di 11 mila. Aspetto di vedere quale sarà il conteggio finale». Juan Lopez Palafox, responsabile dell’Ufficio di antropologia della polizia, aggiunge: «Ci hanno detto che stavamo andando nella zona peggiore del Kosovo. Che ci saremmo dovuti preparare a effettuare più di 2 mila autopsie. Che avremmo dovuto lavorare fino a novembre. Il risultato è molto diverso. Abbiamo trovato solo 187 cadaveri e ora stiamo per tornarcene». «Nella ex Jugoslavia», continua Palafox, «sono stati commessi dei crimini, alcuni senza dubbio orribili, ma derivavano dalla guerra. In Ruanda abbiamo visto 450 donne e bambini, uno in cima all’altro, tutti con le teste spaccate» 3.
Stratfor poi cita, tra gli altri, i casi delle miniere di Trepcˇa, dove il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (Icty) riteneva fossero stati uccisi 700 albanesi. Non è stato trovato alcun cadavere. Stessa situazione per la presunta fossa comune di Djakovica, dove erano state indicate oltre 100 vittime. E ancora a Ljubenié, vicino a Peé, dove si riteneva ci fossero circa 350 corpi e sono stati trovati invece sette cadaveri. Infine, il centro studi cita i risultati delle ricerche compiute dall’Fbi americano che in due diverse missioni in Kosovo ha trovato circa 200 corpi. Dopo aver ricordato le affermazioni di Bernard Kouchner, responsabile della missione Onu in Kosovo, che il 2 agosto aveva indicato in 11 mila le vittime albanesi stimate, Stratfor conclude invece che —– sulla base di proprie ricerche e dei dati elencati in precedenza – il numero di vittime albanesi ritrovate sarà (le ricerche non sono concluse) nell’ordine delle centinaia e non delle migliaia. L’errore nelle stime ufficiali, continua il dossier, sta nella metodologia utilizzata dagli enti governativi e da altri osservatori, fondata sulle interviste ai rifugiati albanesi in Macedonia e Albania, le cui affermazioni erano controllate dall’Uçk, l’Esercito di liberazione del Kosovo, interessato a giustificare l’intervento della Nato. Pur riconoscendo che in Kosovo sono stati compiuti crimini orribili, dalle stragi all’espulsione di centinaia di migliaia di persone, Stratfor ritiene infondate le motivazioni della guerra
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Cfr. www.stratfor.com/crisis/kosovo/genocide.htm.
P. ORDEZ, «Esperti spagnoli non vedono alcun genocidio in Kosovo», El País, 23/9/1999.
Gli esperti spagnoli riferiscono inoltre che molti corpi erano sepolti orientati verso la Mecca, secondo l’uso albanese.
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addotte dai leader occidentali, in particolare inglesi e americani 4: la pulizia etnica prima e il genocidio in seguito.
Il dossier di Stratfor dà il via a una serie di articoli sulla stampa occidentale, sia da parte di giornali fin dall’inizio schierati contro l’intervento della Nato, che trovano così conferma ai loro sospetti sulla pretestuosità delle motivazioni occidentali e sull’opera di propaganda dell’Alleanza atlantica, sia da parte di testate autorevoli e indipendenti, che riprendono le tesi del centro studi americano. Citiamo, tra le altre, Reuters, Los Angeles Times, New York Times, Newsweek, Time. Tra i fatti citati da tali articoli, oltre a stime ancora superiori riportate dagli occidentali durante la guerra – 100 mila morti (segretario alla Difesa Usa William Cohen, aprile) o addirittura 500 mila (indicati dal Dipartimento di Stato Usa secondo una fonte di orientamento marxista 5) – un dato di fonte croata secondo cui sarebbero stati trovati 670 corpi, ma soprattutto i dati sui ritrovamenti nelle fosse comuni nel settore di competenza italiano forniti dal ministero della Difesa italiano, citati da Paolo Soldini sull’Unità 6. Nei 46 siti dove sono state effettuate ricerche nel settore italiano sono stati trovati 115 cadaveri, di cui 59 a Peé, mentre negli altri i corpi si contano sulle dita di una mano. Tra i casi più eclatanti la fossa di Djakovica, dove invece delle trecento vittime (in due distinte stragi) riportate dal Dipartimento di Stato americano, sono stati trovati tre corpi, e la fossa di Kraljane, con un solo cadavere e non 100 come riferito sempre dal Dipartimento di Stato.
La campagna provoca la reazione in primo luogo delle organizzazioni umanitarie, riferita in altri articoli, dossier e rapporti 7. Si mette in evidenza che i dati su cui si fondano le tesi di Stratfor sono parziali perché le ricerche non sono state concluse dall’Icty, ma solo sospese per l’inverno e quindi la stima ufficiale di 11 mila vittime non è da considerarsi smentita. Inoltre molte testimonianze confermano che i serbi, dopo l’esperienza della Bosnia dove ha già operato il Tribunale internazionale, hanno cercato di cancellare le prove dei crimini prima di abbandonare il Kosovo; infine proprio in Bosnia ad anni di distanza dai fatti si continuano a trovare nuove fosse comuni. Senza dimenticare poi i 1.500 albanesi ancora dispersi 8, molti dei quali ar-
Nel marzo 1999 il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, James Rubin, dice che la Nato non ha bisogno di provare che i serbi stiano portando avanti un genocidio perché è chiaro che crimini contro l’umanità vengono commessi. Il 22 marzo il premier britannico Tony Blair afferma alla Camera dei Comuni: «Dobbiamo agire per salvare migliaia di uomini, donne e bambini innocenti da una catastrofe umanitaria, dalla morte, dalla barbarie e dalla pulizia etnica di un brutale dittatore». Infine Bill Clinton, alla fine della guerra in giugno, annuncia: «La Nato ha fermato un tentativo deliberato e sistematico di pulizia etnica e genocidio».
WORLD SOCIALIST WEB SITE, Investigations Belie Nato Claims of «Ethnic Genocide» in Kosovo, www. wsws.org/articles/1999/nov1999/koso-n09_prn.shtml. Si tratta di una forzatura, come sarà messo in risalto in seguito. La cifra comprendeva sia i presunti morti che i profughi.
P. SOLDINI, «Fosse comuni ecco i numeri», l’Unità, 1/11/1999, e dichiarazioni di Soldini rilasciate all’autore.
Cfr. tra gli altri, G. RAMPOLDI, «Kosovo il mistero delle fosse comuni», la Repubblica, 3/11/1999.
La questione dei dispersi è controversa e non esistono stime certe, perché i serbi hanno spesso distrutto le anagrafi che comunque contenevano dati parziali; negli ultimi anni prima della guerra gli albanesi avevano creato una struttura statale parallela e clandestina, con proprie anagrafi. È quindi im-   24 7
possibile stabilire con esattezza il numero di albanesi presenti in Kosovo prima della guerra.
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restati dalla polizia e portati in Serbia. Almeno 2 mila sono poi gli albanesi nelle prigioni serbe accusati di terrorismo 9.
Il 10 novembre il neoprocuratore capo dell’Icty, la svizzera Carla Del Ponte, affronta l’argomento in un’audizione al Consiglio di sicurezza dell’Onu e nella successiva conferenza stampa 10. Dopo cinque mesi di indagini da parte degli esperti di 14 paesi che collaborano con il Tribunale internazionale sono stati esaminati circa un terzo delle 529 fosse comuni di cui l’Icty ha ricevuto notizie. In queste 195
ALCUNE FOSSE COMUNI CONTROVERSE
FED.
JUGOSLAVA
MONTENEGRO
˘Pristina
ALBANIA
MACEDONIA
8
3
5
1
i
4
2
Djakovica
7
11 Ljubenic
2 Djakovica
3 Izbica
4   Lipljan
5 Glogovac
6 Kacanik
7 Bistrazin
8 Miniere di Trepca
6
MUNICIPALITÀ
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HUMAN RIGHTS WATCH, World Report 2000, 10/12/1999.
Le dichiarazioni di Del Ponte sono riportate nei giorni successivi da tutti i giornali. Per i resoconti sia dell’audizione che della conferenza stampa cfr. sito Internet delle Nazioni Unite, www.un.org.
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Vicino Pec. Nella fossa comune – secondo Stratfor – in cui si stimavano 350 corpi, sono stati trovati soltanto 7 cadaveri.
Secondo Stratfor nessun cadavere malgrado 100 morti indicati, ma la stessa fonte segnala testimonianze secondo cui i serbi sono tornati e hanno portato via i corpi. Secondo il Dipartimento di Stato i cadaveri stimati sono 235 e il New York Times del 26/6/1999 ha scritto che in un sol giorno sono stati sepolti 100 corpi nel locale cimitero.
Zona di Srbica. Secondo Stratfor 150 morti denunciati, nessun ritrovamento nella fossa comune. Secondo il Dipartimento di Stato Usa i kosovari hanno denunciato l’uccisione di 140 persone. I serbi hanno seppellito i morti dopo la strage in fosse individuali, come documentato da un videotape di un albanese dove si evidenziano almeno 100 sepolture. Ai primi di giugno i serbi poi hanno distrutto le fosse. L’Itcy ha trovato fosse manomesse senza corpi. Paolo Soldini sull’Unità mette in evidenza che nella foto che ritrae la terra smossa di alcune fosse manomesse ci sono particolari che non corrispondono a quelle presentate come termine di raffronto (una casa è cresciuta in altezza e un’altra ha cambiato forma).
Secondo il Dipartimento di Stato, in base a testimonianze albanesi i serbi sono tornati a maggio dopo una strage in aprile e hanno riesumato i corpi, ordinando poi agli abitanti di riseppellirli in fosse individuali.
Secondo il Dipartimento di Stato, che ha raccolto testimonianze di profughi, i serbi hanno riesumato
i corpi di almeno 50 albanesi e li hanno trasportati in una città vicina. L’Icty ha trovato due corpi.
Secondo il Dipartimento di Stato la polizia serba ha scavato la fossa comune e spostato nel cimitero
i corpi delle vittime uccise ai primi di aprile. L’Icty ha trovato oltre 130 corpi in diverse fosse comuni.
Il Dipartimento di Stato riferisce che l’Icty non ha trovato alcun cadavere fino a questo momento, malgrado fossero stati denunciati più di cento morti. Secondo l’elenco del ministero della Difesa italiano è stato trovato un corpo.
Secondo Stratfor il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia non ha trovato alcuna fossa comune, malgrado fosse stato segnalato un massacro di 700 persone. Il Dipartimento di Stato Usa conferma che l’Icty non ha trovato alcun corpo, ma cita testimonianze albanesi e un articolo del New York Times secondo cui nelle miniere sono stati trasportati a partire dal settembre 1998 molti cadaveri in camion coperti. Inoltre aggiunge che soldati Nato del contingente francese hanno trovato sul posto pile di abiti, scarpe, foto di famiglia e documenti d’identità di albanesi, avanzando l’ipotesi che i corpi possano essere stati distrutti o non ancora scoperti.
fosse sono stati riesumati 2.108 corpi, invece dei 4.256 che si riteneva fossero stati seppelliti negli stessi siti. In totale le stime sulle 529 fosse comuni ammontano a 11.334 vittime, calcolate sulla base di testimonianze e rapporti di Organizzazioni non governative. Secondo Del Ponte tale dato non riflette necessariamente il reale numero delle vittime, perché sono state scoperte manipolazioni nei siti e in molte fosse comuni non è possibile calcolare l’esatto numero delle vittime. Inoltre il procuratore sottolinea come il principale obiettivo del Tribunale sia non di compilare una lista dei decessi, ma di cercare le prove delle accuse di crimini contro l’umanità rivolte al presidente Slobodan Milosˇevié e altri alti dirigenti jugoslavi, in particolare cercando di identificare le vittime e i loro aggressori. Dalle ricerche fin qui
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effettuate si desume comunque che in genere le fosse sono di dimensioni relativamente ridotte, in molti siti è stato ritrovato un numero minimo di corpi. Alla domanda se tutte le vittime fossero albanesi, Del Ponte risponde che la maggior parte sono albanesi, ma che ha notizia di un certo numero di vittime di altre nazionalità. Aggiunge che il Tribunale indaga in tutte le direzioni, su crimini commessi da serbi, da musulmani e dall’Uçk.
A fine novembre Andrea Ferrario, in un dossier sul sito Internet Notizie Est 11, mette in evidenza alcune inesattezze e trucchi retorici utilizzati da Stratfor 12. Sottolinea poi l’inaffidabilità delle dichiarazioni degli esperti spagnoli, impegnati in un’area limitata del Kosovo, e che riportano notizie sulle stime dell’Onu non ufficiali e mai pubblicate. Inoltre ricorda il grande lavoro del Tribunale per l’ex Jugoslavia e delle Organizzazioni non governative nel controllare le interviste incrociando i dati ottenuti. Infine ricostruisce quella che considera una vera e propria campagna di disinformazione «mirata a “ridimensionare” i crimini compiuti in Kosovo per ottenere maggiori consensi a qualche nuova forma di distensione con la Serbia» 13.
Quindi nell’arco di due mesi sui media occidentali si sono scontrate due versioni contrapposte, fondate su dati parziali o «stimati». Semplificando, una considera sufficienti i dati parziali sui ritrovamenti per criticare la legittimità dell’intervento della Nato e ritiene invece inaffidabili le «stime» sulle vittime, l’altra invece considera inattendibili i dati parziali e sicure invece le «stime» sui crimini compiuti. Entrambe fanno uso di schemi dietrologici per spiegare gli avvenimenti: da una parte la macchinazione dell’Uçk ordita ai danni o con la complicità della Nato, dall’altra l’uso della campagna di «disinformazione» per delegittimare l’intervento occidentale e orientare i futuri equilibri nei Balcani.
Il 6 dicembre l’Organizzazione per la sicurezza in Europa (Osce) pubblica due
rapporti sui crimini commessi in Kosovo 14. Il primo copre il periodo dall’ottobre
1998 al 9 giugno 1999 ed è stato elaborato sui risultati della missione Osce in Koso-
vo (Kvm) da ottobre a marzo e su interviste a rifugiati albanesi compiuti dalla stessa
missione trasferitasi nei mesi successivi in Albania e Macedonia a causa della guerra.
L’Osce prudentemente e correttamente non stila «stime» generali sulle vittime.
Dimostra invece che massacri sono stati compiuti sia da parte serba (esercito e mi-
lizia) che da parte albanese (Uçk) prima dello scoppio della guerra. Le forze del-
l’ordine serbe hanno utilizzato i massacri per terrorizzare e costringere alla fuga gli
albanesi. Tale pratica ha subìto un forte incremento dopo l’inizio della campagna
aerea della Nato. L’Osce elenca anche altri crimini compiuti dai serbi: rapimenti,
violenza sessuale, arresti e detenzioni arbitrarie, espulsioni forzate, saccheggio e
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A. FERRARIO, «Le speculazioni sulle vittime in Kosovo», www.ecn.org/est/balcani/kosovo, 2/11/1999.
Ad esempio Stratfor parla di 400 fosse comuni, mentre secondo i dati dell’Icty sono oltre 500. Inoltre il centro studi americano, riportando le dichiarazioni del 2 agosto di Kouchner, gli fa dire che 11 mila corpi erano già stati trovati, notizia poi non confermata dall’Icty, mentre invece Kouchner parlava di vittime «stimate».
Ibidem.
Cfr. www.osce.org/kosovo/reports/hr/ .htm.
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distruzione di proprietà; particolarmente colpite alcune categorie di persone: i giovani impiegabili in attività militari, le donne e i bambini, e la classe dirigente albanese. Il rapporto calcola in 1 milione e 400 mila (il 90% degli albanesi) le persone costrette ad abbandonare le proprie case. D’altra parte riconosce che anche i serbi sono state vittime delle violenze dell’Uçk, ma conclude che i due fenomeni non sono comparabili per intensità, soprattutto in seguito all’escalation delle violenze serbe dopo l’inizio della guerra. Il rapporto stila poi un resoconto delle violazioni umanitarie villaggio per villaggio. Infine riconosce nelle violenze serbe una chiara strategia con attività sistematiche delle forze militari e paramilitari. Ma l’Osce non usa i termini «pulizia etnica» e «genocidio».
Il secondo rapporto copre il periodo dal 14 giugno al 31 ottobre, in cui ha operato in Kosovo la nuova missione dell’Osce (Omik). Stavolta ad essere elencate sono le violenze degli albanesi, la grandissima maggioranza dei quali sono tornati nella provincia, sui serbi, i rom e gli slavi musulmani del Kosovo, vittime di uccisioni, espulsioni, violenze e distruzioni di proprietà. Motivo principale è la vendetta contro coloro che sono considerati responsabili o corresponsabili delle precedenti violenze. Però, secondo una Ong specializzata in diritti umani, alcuni dei crimini non sono da addebitare allo spirito di vendetta, ma all’attività di bande criminali e mafiose che hanno approfittato del vuoto di potere in Kosovo 15. Tutto ciò ha provocato l’esodo di tali comunità nazionali dal Kosovo. Il dossier dell’Osce riporta molte testimonianze sul coinvolgimento dell’Uçk in tali violenze, sia prima che dopo la sua demilitarizzazione e il suo formale scioglimento (19 settembre). A seconda delle fonti utilizzate, dai 200 ai 400 serbi sono stati uccisi in Kosovo dopo la guerra e circa 100 mila (su 200 mila in totale) hanno abbandonato la provincia a seguito della contropulizia etnica. Essi sono andati ad aggiungersi ai circa 550 mila profughi serbi già in Serbia, conseguenza delle espulsioni di massa in altre zone della ex Jugoslavia 16.
Il 10 dicembre viene pubblicato l’ennesimo rapporto sulla vicenda. Stavolta è il Dipartimento di Stato americano che scende in campo con un dossier che rappresenta la continuazione di un precedente rapporto pubblicato a maggio e reso famoso per le immagini scattate da aerei e satelliti americani sulle presunte fosse rilevate in alcuni luoghi del Kosovo. Il nuovo rapporto è intitolato Pulizia etnica in Kosovo: un resoconto e conferma la stima di 10 mila albanesi morti in Kosovo, utilizzando anche un ragionamento che sembra sviluppato apposta per far quadrare i conti. Partendo dai dati dell’Icty (2 mila cadaveri trovati in un terzo delle fosse) e ipotizzando la stessa media di vittime nelle altre, arriva a un bilancio di 6 mila morti (che coincide con una precedente stima del Dipartimento di Stato), a cui bisogna aggiungere – sempre secondo il Dipartimento di Stato – «1) le vittime sepolte in fosse comuni di cui non si è a conoscenza; 2) le vittime cui l’Icty si riferisce in-
HUMAN RIGHTS WATCH, op. cit.
Ibidem. Vale la pena di ricordare il destino di migliaia di rifugiati serbi provenienti dalle guerre in Croazia e Bosnia e costretti nel 1996 a trasferirsi in Kosovo. Molti di questi hanno dovuto ancora una volta fuggire prima e dopo la guerra del Kosovo. Questi «doppi» rifugiati sono uno dei simboli della   251
tragedia dei Balcani. Cfr. www.osce.org/kosovo/reports/hr/ .htm.
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dicando un numero significativo di fosse in cui non può essere effettuato un calcolo preciso; 3) le vittime i cui corpi sono stati distrutti dalle forze serbe». Arriva così a ritenere probabile la cifra di 10 mila vittime. Il rapporto è elaborato sulla base delle testimonianze dei rifugiati, della documentazione delle Ong, dei media, di informazioni governative declassificate e di fonti di organizzazioni internazionali. Elencando i vari crimini commessi dai serbi (espulsioni di massa, assassinî, stupri, detenzioni arbitrarie, violenze) conclude che si è realizzata in Kosovo una campagna sistematica di pulizia etnica. In particolare documenta quattro casi in cui i militari serbi, secondo testimonianze albanesi, prima di abbandonare la provincia hanno riesumato i corpi, distruggendoli o seppellendoli in fosse singole.
In definitiva, sono innegabili le violenze e le espulsioni di massa compiute dai serbi, come d’altra parte è innegabile che l’Uçk prima della guerra abbia cercato il casus belli anche a danno dei propri connazionali 17 e che i politici occidentali nell’ansia di legittimare l’intervento della Nato agli occhi dell’opinione pubblica abbiano esagerato la reale entità delle violenze arrivando addirittura a paragonare Milosˇevié a Hitler.
Il massacro di Racˇak
La vexata quaestio delle fosse comuni è solo l’ultima fase della guerra dei media, iniziata ancora prima della campagna aerea della Nato. Già dal 1998 comincia a essere usato il termine «pulizia etnica» in riferimento al Kosovo, quando secondo alcuni osservatori ancora le attività serbe non giustificavano tale definizione. Ma è con il massacro di Racˇak che la guerra dei media fa un salto di qualità. Il 15 gennaio vengono uccisi nel villaggio 45 albanesi. I kosovari accusano dell’eccidio i serbi e nei giorni successivi anche il capo missione dell’Osce William Walker conferma l’ipotesi – prima della conclusione dell’inchiesta – accusando i serbi e chiedendo la consegna dei responsabili. Le autorità della Federazione jugoslava respingono l’accusa di aver ucciso civili, sostenendo che le vittime sono combattenti dell’Uçk. Quindi dichiarano Walker persona non grata.
Il massacro di Racˇak attira l’attenzione di tutti i media internazionali e colpisce le opinioni pubbliche grazie anche alla particolare efferatezza del crimine: parte dei corpi —– anche una donna e un bambino —– sono stati decapitati. L’evento attira le simpatie internazionali sugli albanesi e sull’Uçk, fino ad allora considerata un’organizzazione terroristica non solo dai serbi. Il massacro di Racˇak diventa una sorta di casus belli, anche se la guerra inizierà solo dopo il fallimento di Rambouillet.
Ben presto emergono sospetti sulla reale dinamica dei fatti a causa, secondo alcune fonti 18, di una velina dei servizi segreti francesi. L’Uçk avrebbe «confezionato» il massacro o aggravato la reale entità della strage, ad esempio mutilando i corpi,
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E dopo la guerra l’Uçk si è macchiato di crimini se non quantitativamente almeno moralmente altrettanto gravi, malgrado la presenza dei contingenti della Nato.
A. FERRARIO, op cit.
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per convincere l’Occidente a intervenire. Alcuni aspetti della vicenda sembrano corroborare o comunque non smentire l’ipotesi. Infatti gli osservatori occidentali sono potuti arrivare sulla scena del massacro solo il giorno dopo i fatti; il rapporto dell’Unione Europea 19 a conclusione delle investigazioni a Racˇak non è stato mai reso pubblico, mentre successivamente i medici legali finlandesi rifiutano di firmare un rapporto elaborato dai colleghi serbi e bielorussi con i quali avevano collaborato.
Del massacro di Racˇak torna a occuparsi il dossier dell’Osce, che cerca di ricostruire gli avvenimenti. Nei giorni precedenti al massacro viene data notizia di un’imboscata e di alcuni attentati contro la polizia serba compiuti dall’Uçk. Viene poi riferito che per ritorsione le forze serbe hanno arrestato una ventina di persone. La situazione è confusa perché nella zona sono in corso combattimenti. Il 16 gennaio gli osservatori dell’Osce si recano a Racˇak e scoprono i corpi dei civili albanesi distribuiti in più fosse, la principale contiene una ventina di corpi. Molte vittime sembrano essere state uccise durante una fuga, una parte dei corpi sono stati mutilati. Il rapporto conclude che è ancora troppo presto per dare risposte definitive sul massacro, ricordando che sul caso sta indagando l’Icty. A parte il massacro di Racˇak, l’Osce ha ricevuto 26 denunce di violazioni dei diritti umani nell’area del municipio, in 15 di questi casi l’Uçk è considerato responsabile.
Rimane il mistero sulla mancata pubblicazione del rapporto dell’Unione Europea. Un rapporto elaborato a titolo personale da uno dei medici legali finlandesi 20 (autori solo della parte medico-legale dell’inchiesta) che hanno potuto effettuare le autopsie solo una settimana dopo il massacro e in ritardo rispetto ai colleghi serbi, non aiuta a capire meglio gli avvenimenti. La dottoressa finlandese autrice del rapporto conferma che le vittime non indossavano uniformi o insegne militari, ma conclude che dalle indagini medico-legali non è possibile stabilire se le vittime sono state uccise nel corso di una battaglia o in altro modo, considerando anche che non è stato possibile «congelare» la scena del delitto subito dopo l’evento come richiedono i criteri scientifici. Sottolinea però che la mancata firma dei finlandesi in calce al rapporto stilato dai medici serbi e bielorussi non è dovuta a un mancato accordo sui contenuti ma all’esigenza, considerata necessaria dai finlandesi, di aspettare l’esito di alcuni esami di laboratorio da svolgere in Finlandia prima di arrivare a una conclusione scientificamente motivata.
Con l’inizio della campagna aerea della Nato e l’evacuazione dei verificatori dell’Osce dal Kosovo non rimangono più osservatori occidentali a riferire gli avvenimenti successivi. Intanto però scoppia la polemica sulla missione dell’Osce. Secondo alcuni degli stessi osservatori dell’Osce la missione è stata strumentalizzata da inglesi e americani, schierati contro i serbi al fianco degli albanesi 21.
Agli esperti e procuratori del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia non è stato consentito di entrare nel paese per svolgere indagini.
H. RANTA, Report of tbe EU Forensic Expert Team on Racak Incident, 17/3/1999, www.usia.gov/regional/eur/balkans/kosovo/racak.htm.
Cfr. ULISSE, «Come gli americani hanno sabotato la missione dell’Osce», Limes, quaderno speciale «Kosovo, l’Italia in guerra», aprile 1999; e, «Che cosa faceva l’Osce in Kosovo?», Limes, «Dopo la guerra», n. 2/1999.   253
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Genocidio e dietrologia
La questione delle fosse comuni non è solo un macabro conteggio delle vittime. L’entità delle violenze serbe è importante non solo per legittimare l’intervento occidentale ma anche per determinare l’eventuale reato di genocidio.
Il termine genocidio è diventato famoso in riferimento alla liquidazione fisica di milioni di ebrei da parte di Hitler. È stato usato anche per descrivere il massacro turco degli armeni all’inizio del Novecento e, per arrivare ai nostri giorni, è stato applicato alle stragi in Ruanda. La Convenzione internazionale sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio del 1948 (entrata in vigore nel 1951) definisce il genocidio come «atti commessi con l’intento di distruggere interamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». La definizione è abbastanza ambigua, perché non specifica cosa si intende per «parte» di un gruppo. Finora comunque il concetto di genocidio è stato utilizzato, ed è unanimemente accettato, solo per casi di violenze sistematiche molto evidenti, con centinaia di migliaia o milioni di vittime.
Nella conferenza stampa del 10 novembre Carla Del Ponte, a una domanda che ipotizzava il venir meno dell’accusa di genocidio contro i leader serbi nel caso il bilancio finale delle vittime fosse basso, ha risposto che è importante non solo quante persone sono state uccise, ma come lo sono state. La definizione di Del Ponte, pur se rispettosa della norma – ambigua – della Convenzione, rivoluziona il sistema internazionale. Questa concezione «allargata» del genocidio si applicherebbe a molti casi nel mondo, facendo poi diventare determinante l’individuazione soggettiva delle modalità dei singoli crimini. È chiaro che anche dando per scontate le «stime» peggiori il Kosovo non è un caso di genocidio, a meno di annacquare a tal punto il concetto da renderlo giuridicamente insignificante, ridurlo a un equivalente del termine massacro. In questo caso dovremmo usare allora un altro termine per indicare le persecuzioni naziste sugli ebrei, ben altra cosa rispetto al Kosovo. È vero che nel linguaggio politico e dei media l’uso del termine genocidio è spesso abusato, ma non è detto che ciò abbia un valore giuridico, o valga a interpretare la definizione della Convenzione del 1948.
L’uso da parte di politici occidentali di termini come genocidio ha avuto lo scopo di legittimare attraverso i media l’intervento della Nato agli occhi delle opinioni pubbliche, motivandolo con il dovere umanitario. Giustificare una guerra solo con motivi umanitari è rischioso, anche se è più facile da spiegare rispetto a giustificazioni strategiche o geopolitiche.
L’uso della propaganda e dei mezzi di informazione in una guerra non è una novità, ma acquista una rilevanza particolare nell’èra delle informazioni globali. La questione diventa molto importante con la nascita della «guerra umanitaria» o delle guerre legittimate attraverso i media.
Secondo Joseph S. Nye: «Una politica dei diritti umanitari non è in sé una politica estera, ma è una parte importante di una politica estera» 22. Inoltre la politica
22. J.S. NYE, «The New National Interest», Foreign Affairs, n. 4, luglio-agosto 1999.
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L’IMPERO DEL PAPA
estera non può essere esclusivamente determinata dall’emotività dell’opinione pubblica e dai mezzi di informazione, anche se spinti da motivi umanitari. Il fallimento della missione internazionale in Somalia nel 1992, fortemente influenzata dalla pressione dei media, tanto da fare coniare il termine «effetto Cnn», deve essere di insegnamento. L’opinione pubblica americana fu molto impressionata dalle immagini dei crimini e della disperazione in Somalia, ma lo fu altrettanto, e anche più, quando vide le salme dei soldati americani uccisi. Secondo Nye, il fallimento della missione in Somalia è stato una delle cause che ha provocato lo scarso sostegno degli Stati Uniti e di altri paesi alla forza di peace-keeping dell’Onu in Ruanda, che nel 1994 avrebbe potuto limitare il genocidio poi compiuto 23. Non solo, una guerra legittimata attraverso i mezzi di informazione con motivazioni esclusivamente umanitarie è un’arma a doppio taglio. In primo luogo, non è detto che un intervento militare possa risolvere o sia la soluzione migliore in situazioni molto complesse e magari radicate nei secoli; anzi, a volte le può aggravare. In secondo luogo, è facilmente immaginabile che uno delle centinaia di movimenti nazionali indipendentisti sparsi nel mondo sia stimolato a provocare (o a falsificare ad arte) crimini tali da attirare l’attenzione dei media e delle opinioni pubbliche internazionali. Nye, rivolto al governo Usa, invita alla prudenza. Prudenza ancora più necessaria in un’area travagliata e complessa come i Balcani.
Non a caso, considerata la tradizione balcanica, la guerra dei media ha assunto contorni da romanzo giallo, con trame che lasciano adito a svariate interpretazioni. A volersi prestare al gioco delle dietrologie, la trama può infittirsi anche di più. È curioso che non ci siano, sulla stampa occidentale, prese di posizione di Milosˇevié che utilizzino il rapporto di Stratfor a propria difesa. Certo i serbi hanno sempre definito le loro attività in Kosovo come operazioni di polizia contro i terroristi e hanno sostenuto che la Nato ha mistificato la vicenda per i propri fini, ma è strano che non abbiano sfruttato l’occasione. Allo stesso modo è interessante notare che la «campagna di informazione» sia partita da un centro studi americano, il paese maggiormente coinvolto nell’intervento armato, e per di più citando dati di un ente governativo come l’Fbi. Si potrebbe ipotizzare l’ennesima guerra intestina tra Fbi, Cia e Dipartimento di Stato, o un anticipo di campagna elettorale con un attacco repubblicano al Clinton vincitore della guerra. Ma forse non è il caso di aggiungere ulteriori interpretazioni dietrologiche.
Nei Balcani l’interpretazione spesso distorta degli avvenimenti, la riscrittura della storia ai propri fini, l’applicazione metodica della «dietrologia» ad ogni fatto accaduto, sono parte della vita politica quotidiana. La guerra dei media dimostra come – almeno in questo campo – l’intervento non è servito a occidentalizzare i Balcani, ma a balcanizzare l’Occidente.
23. Ibidem.   255