RIFLESSIONI SULL’INTERVISTA A PREVE


Ho finalmente letto l’intervista concessa da Preve a “Ripensaremarx”. Intitolo questo pezzo come mera riflessione su di essa, e non come risposta, anche se del suo testo considererò solo le polemiche contro il sottoscritto. Sono rimasto sorpreso dell’animosità dell’intervistato; vorrei comunque sapesse che, se lui “si è stancato di raddrizzare le gambe ai cani”, io sono un po’ stufo di rispondere sempre alle stesse obiezioni. Come già sapevo, ognuno parla per i fatti suoi, pur quando sembra affrontare i problemi di altri, ed è difficile leggere insieme gli “stessi testi” con lenti teoriche (non solo filosofiche) differenti.
Non voglio mettere in dubbio che chi non conosce adeguatamente la filosofia sarà sempre schiavo di una “cattiva filosofia”; ma non lo metto in dubbio proprio perché, pur avendo letto (ma solo letto) molto di filosofia, non mi ritengo neanche per un “piccolo pezzo” un filosofo; e quindi non so dare giudizi sulla “mia filosofia”. Del resto, ho letto moltissimo di fisica (e cosmologia, ma quella scritta da fisici), chimica, biologia, e di non so quanti altri rami scientifici, ma non ritengo di conoscerli veramente. Ho letto anche abbastanza di storia (anche se avrei voluto impegnarmi molto di più), ma non sono purtroppo nemmeno un po’ uno storico. Quello che sono non lo so con precisione, ma credo di potermi definire come uno che ha cercato di sollevarsi, anche in tema di rigore, ad un medio livello di “scienza della società”; con particolari approfondimenti di quella che ha come oggetto la società capitalistica, considerata utilizzando un apparato teorico le cui coordinate fondamentali mi sono state fornite da Marx (ovviamente per come l’ho letto e fatto interagire con tutto il resto di cui mi sono “nutrito”).
Comunque, se Preve dice che sono schiavo di una cattiva filosofia, non ho alcun motivo (né interesse) a sostenere il contrario. So però che egli considera, come già altri, la Filosofia quale “Scienza Suprema”; e forse per questo si esime dal conoscere minimamente un qualsiasi altro ramo delle scienze (quelle con la s minuscola). Del resto egli è hegeliano; ed in un libro su Hegel (che Preve stesso mi ha consigliato di leggere), il commentatore Cicero scrive: “Qualsiasi aspetto generale o particolare della filosofia hegeliana si prenda in considerazione, è dunque determinante [corsivo mio] tenere in debito conto questa sua ‘iperbolica identificazione’ del pensiero filosofico e del pensiero divino”. E’ ovvio che non posso competere con il “divino”, e dunque sarò sempre un “cattivo filosofo” per un hegeliano. Mi viene comunque in mente il film “Manhattan” di Woody Allen. In un litigio con il suo amico (per questioni di donne), questi gli dice incazzato: “ma tu ti credi Dio”. E lui di rimando: “uno si deve pur dare un modello”. Se certi filosofi si lasciassero andare alla stessa autoironia, si leggerebbero più gradevolmente.
Commenterò in ogni caso solo alcuni passi dell’intervista previana, e in qualche modo risponderò ad alcune obiezioni, da non filosofo; e senza entrare in discussioni sul loro lato filosofico, perché altrimenti le mie risposte, per definizione, sarebbero “cattive” per chi tende alla “iperbolica identificazione” di cui sopra.
Intanto, debbo dire che su alcune questioni ho già ampiamente disquisito nella mia aggiunta al testo sulla “terza forza”, poiché avevo già ricevuto obiezioni come quelle di Preve. Errato il suo volermi trovare in contraddizione sul tema delle forze produttive. Ho già risposto e quindi sarò ripetitivo. Nessun maoista, nessun althusseriano – e tanto meno Bettelheim, di cui si legga almeno “Calcolo economico e forme di proprietà” – ha mai trascurato il lato dello sviluppo delle forze produttive. L’economista marxista francese non ha fatto alcuna “autocritica” per quanto riguarda la sua polemica con Guevara in merito allo sviluppo di Cuba, laddove quest’ultimo inneggiava al fattore uomo e Bettelheim lo richiamava ad un minimo di rigore e sobrietà, ricordando il lato del tutto oggettivo dello sviluppo delle forze produttive, che esigono un attento calcolo delle risorse e del loro uso economico.
Quello che il sottoscritto, così come ogni altro “maoista” o “althusseriano”, ecc. sosteneva è che non basta lo sviluppo delle forze produttive per provocare – nell’urto d’esse contro il limite posto
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dai vecchi rapporti di produzione – la trasformazione di questi ultimi. Non esiste la famosa “barriera che il capitale pone a se stesso, al suo ulteriore sviluppo”. Tutto qui, ma non mi sembra una “cosetta da niente”. Tuttavia, sarebbe assurdo pensare che, una volta preso eventualmente il potere (anche se adesso non è più tanto lecito pensarci, a quel tempo non era così), le forze politiche che intendessero trasformare il capitalismo in una diversa società (allora si pensava ancora al comunismo) dovrebbero pensare a trasformare gli uomini e i loro rapporti sociali, disinteressandosi dello sviluppo delle forze produttive, della crescita delle capacità di soddisfare i bisogni, che sono anche bisogni “materiali” (fra i quali vi sono quelli di sviluppo della scienza e della tecnica). Giustamente, la popolazione le spazzerebbe via; come in effetti è accaduto, perché il “socialismo” non era più in grado di sviluppare le forze produttive. L’ importante è non credere di risolvere il problema della trasformazione con il semplice sviluppo di queste ultime (su questo non ho cambiato idea).
Nel 1957, sulla base dell’esperienza dell’URSS (i cui aspetti negativi furono coperti al XX Congresso del PCUS nel 1956 con l’idiozia del “culto della personalità”), Mao formulò le tesi sulle “contraddizioni all’interno del popolo”, che tuttavia riguardavano anche la Cina e le difficoltà del suo sviluppo, malgrado il trionfalismo di statistiche poco attendibili. Fu accelerato il processo di costituzione delle Comuni popolari e si lanciò nel 1958 il famoso “balzo in avanti”, finito in un disastro (anch’esso occultato). Nessun comunista e marxista negli anni ’60 (nemmeno i maoisti europei fra cui chi scrive) si mise in testa la balzana idea che occorresse l’inviluppo delle forze produttive nei paesi socialisti per dedicarsi esclusivamente alla trasformazione dei rapporti sociali e dell’Uomo (per Preve non si tratta nemmeno di trasformazione, ma di ritorno alla classicità greca). Si sosteneva che il socialismo era una fase in cui sussisteva la lotta di classe (quindi le contraddizioni erano considerate ormai antagonistiche e non più soltanto interne al popolo), e che la borghesia stava riprendendo in mano il potere nel partito e nello Stato, ma poi anche nelle fabbriche. Celato dalla proprietà formalmente pubblica (statale), sussisteva il “potere di disporre” dei mezzi di produzione da parte di una nuova classe capitalistica (formatasi appunto dentro il partito e lo Stato).
Il problema non era quindi cambiato; se le forze produttive non si sviluppavano era perché urtavano contro la “barriera” capitalistica (formalmente “collettiva” sotto l’egida dello Stato). Bisognava pur sempre infrangere l’esistente struttura dei rapporti di produzione; solo che si ebbe una meno vaga rappresentazione di questi ultimi in quanto non mero involucro (e “catena”) bensì come strutturanti le forze produttive. In ogni caso, permaneva la necessità di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti (affidata alla lotta di classe, in particolare nella sfera della politica e dell’ideologia, ma anche nelle fabbriche), onde ridare slancio alle forze produttive. In omaggio al vecchio marxismo, si continuava a vedere nella classe operaia la classe universale, il motore della trasformazione: “la classe operaia deve dirigere tutto” si proclamò (e non lo smentì alcun althusseriano, alcun maoista, cinese o europeo che fosse). Si leggano gli scritti di Bettelheim (a cavallo degli anni ’60 e ’70) sull’URSS e, per converso, sulla Cina, e si vedrà come la pensava qualsiasi marxista, che si rendeva perfettamente conto non soltanto di come il confronto produttivo con il campo capitalistico non potesse certo essere eluso, ma anche di quanto fosse insensato voler erigere il comunismo sulla comune “povertà”, sulla frugalità e parsimonia generalizzate, sull’arresto della capacità di “soddisfare in misura crescente i bisogni del popolo”. Ci si sbagliò nelle “ricette”, cioè nell’analisi di classe (e soprattutto della classe operaia) e lo sviluppo non venne; e dunque vinse – giustamente in senso storico – Teng che lasciò libero sfogo a forze produttive strutturate da altri rapporti (non precisamente quelli del capitalismo occidentale, ma pur sempre rapporti tra minoranze dominanti e maggioranze dominate, per dirla schematicamente).
Credere di evitare questo problema, incitando all’inviluppo delle forze produttive, è solo l’ammissione del fallimento da parte di certi ex comunisti ed ex marxisti, che delusi si avvicinano allora a ideologie quanto meno influenzate da quelle propugnate dalla “nuova destra”. Io ammetto il fallimento del comunismo e del marxismo – anche di quello critico del maoismo europeo – ma mi rifiuto di trarne conclusioni che implicherebbero, qui da noi, non semplicemente la vittoria di un Teng, bensì di quelli da me indicati genericamente (per evitare inutili riferimenti a diversi, ma simi-
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lari nella sostanza, processi storici) come “rivoluzionari dentro il capitale”, che si aprono la strada con ideologie apparentemente volte a rinverdire le “antiche tradizioni del popolo”, ma sanno poi benissimo che cosa si deve fare – e su quali forze “di classe” ci si deve basare – per ridare slancio, con metodi del tutto moderni e avanzati, alle forze produttive (in una situazione di netto predominio di certi gruppi sociali su altri), senza il quale sarebbero spazzati via in “due balletti” da una stragrande maggioranza inferocita per il degrado delle proprie condizioni di vita.
Non ritengo per nulla senza effetti l’avvicinamento di Preve a certi “gruppi” tacciati di “novodestrismo”. Questo non mi porta a condannarlo o a ritenerlo traviato dal “Male Assoluto” definito sempre “fascismo”. Nemmeno ritengo che si sia scritta la “giusta storia” del nazifascismo di un tempo; siamo condizionati da una storia meramente ideologica, che non capisce niente dell’effettiva importanza di certi movimenti politici (e culturali) perché è obnubilata dagli “stravolgimenti” operati da chi si schierò opportunisticamente con i vincitori. Io non evoco il Male, non lancio anatemi ed esorcismi; dico semplicemente che la mia analisi, la mia teoria (e ideologia) mi conduce su sentieri pratici (e quindi anche politici) diversi da quelli di Preve e altri, di “vario orientamento” ideologico ma uniti nel tentativo di creare condizioni culturali – e anche ideologico-politiche – favorevoli a (som)movimenti (solo eventualmente possibili) di cui condivido l’antiamericanismo e l’antisionismo, ma non altre impostazioni. Preve ed io non percorriamo in questo momento strade convergenti, ma questo non mi porta all’animosità, salvo quel minimo di irritazione e fastidio che mi procurano le tesi contrarie allo sviluppo, alla crescita e continua innovazione di scienza e tecnica, ecc.
Mi si permetta una breve digressione. Il mio disagio è crescente di questi tempi; non passa un giorno in cui io non “sacramenti” contro le attuali modalità di vita (su cui non mi diffondo perché spero si comprenda a volo ciò che voglio dire). Ho continui “travasi di bile” e mi trovo spesso a “sognare” una macchina del tempo che mi riporti ai “miei” anni ’50 e, ancor più, ’60 (non di età, sto parlando dei decenni del secolo scorso che sento come miei in senso pieno). Questo è però un mio fatto privato, che immagino riguarderà anche altri della mia generazione; ma non tocca la “società”, e tanto meno l’Uomo. Invocherei “lo foco” con quel che segue; ma si tratta di momenti di incazza-tura e nulla più. Per il resto, sono fermamente convinto che il “progresso” (togliamoci pure ogni connotazione positiva di valore, sono d’accordo) continuerà, travolgerà i critici e condurrà a nuove epoche, in cui prevarrà o chi si adeguerà al “nuovo” (senza “giudizi di valore”) o, se saremo fortunati, ne trasformerà i rapporti sociali in senso, diciamo genericamente, “più giusto”, senza però provocare inviluppo. Le ideologie della decrescita, della tecnoscienza che ci distrugge, ecc. servono solo ad aprire la strada a certuni piuttosto che a certi altri; in ogni caso a chi saprà assicurare, pur nella trasformazione dei rapporti sociali (magari dentro invece che contro il capitale), un accrescimento delle capacità di sviluppo.
In conclusione, nessuna contraddizione nel pensiero del sottoscritto, rimango fedele all’impostazione dei “tempi andati” (per quanto concerne il rapporto forze produttive-rapporti di produzione, non però per quanto concerne le conclusioni di allora). Non intendo più spendere ulteriori parole in merito; mi sembra sia chiaro che Preve ha frainteso i miei intendimenti di sempre, che sono poi quelli del maoismo (cinese ed europeo, cioè anche degli althusseriani).
Per Preve, io sarei sempre un althusseriano pressoché ortodosso. Non entro nemmeno tanto nel discorso sul materialismo aleatorio. Se questo significa semplicemente che sono convinto che la casualità sia fondamentale nel “produrre” eventi (naturali come storico-sociali), questo è vero. Tuttavia, accetto tranquillamente la possibilità che tale casualità nasca soltanto dalla nostra incapacità di controllare tutte le innumerevoli “variabili” che determinano un processo e lo orientano in determinate direzioni. Non sono per nulla in grado di decidere se è così oppure se la casualità è intrinseca al movimento del mondo; questo lo sa solo Dio (a cui non credo). Inoltre, non faccio mai appello alla casualità per esimermi dallo studiare quelle cause (di un determinato processo) che sono in grado di analizzare e su cui mi sento di formulare ipotesi; e quindi non mi rifiuto di azzardare, se del
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caso, certe previsioni. Questo ovviamente non ha nulla a che vedere con le certezze che a Preve dà la “Suprema Scienza”. Non so che farci, ma su questo punto mi tengo la mia “cattiva filosofia”, che ritengo meno pericolosa.
Tuttavia, per me, Althusser era soprattutto quello che invitava a non leggere la prima sezione de “Il Capitale” (la merce ecc.) e a iniziare da subito dopo. Ho seguito a lungo tale impostazione, ci ho scritto sopra molti libri (e non me ne pento), poi sono tornato “indietro”; ma solo apparentemente. Non intendo spendere una parola su tale problema, su cui mi sono diffuso ormai più volte (anche nell’incompiuto “Marx in sé”, che si trova “in rete”). Se fossi tornato indietro e basta, non avrei potuto che riscrivere al massimo il testo di Rubin. Non pretendo di essere bravo come quest’ultimo (ci mancherebbe), sono però molto diverso; il passaggio per l’althusserismo ha lasciato comunque un segno, ma oggi non seguo più il consiglio di tale “scuola” e ritengo che Marx abbia cominciato “dalla parte giusta”, e ne ho spiegato più e più volte il perché.
Confesso anche che sono in effetti nominalista. Conosco gli uomini e non l’Uomo; e non riesco a pensare alla “cavallinità” o alla “gattità”, e via dicendo. Tuttavia, non credo affatto che Preve (e non so quanti altri dall’inizio della storia umana) sia matto o scemo o non so che. Può pensare all’Uomo, al Genere Umano, finché vuole; e credo che sia in grado di svolgere ragionamenti dotati di senso. Come li fanno coloro che credono in Dio e ci riflettono con profondità. Confesso anzi che ho una certa preferenza per questi ultimi rispetto a quelli che pensano l’Uomo. E’ però possibile che si tratti di un mio pregiudizio; in ogni caso, mi astengo qui dal ragionarci sopra. Personalmente non credo in Dio né nell’Uomo. Penso agli uomini, ai loro rapporti sociali, ecc.; non ho però alcuna intenzione di disprezzare un punto di vista diverso. Ricordo semplicemente che in tutta la storia del pensiero umano sono sempre esistiti i “realisti” e i “nominalisti”; non mi consta sia stata data definitivamente la prova che gli uni hanno torto e gli altri ragione, che gli uni sono “saggi” e gli altri “devianti” o limitati o cattivi o altro ancora. Il mio atteggiamento è il medesimo che ho nei confronti delle discussioni sull’esistenza o l’inesistenza di Dio; non sento voglia di parteciparvi. Non credo in Dio, lo ripeto, ma non mi impegnerei mai in una, a mio avviso assurda, dimostrazione della sua inesistenza; mi sentirei veramente a disagio, avrei la sensazione di perdere tempo. E’ però una semplice sensazione dell’individuo Gianfranco La Grassa, che non attribuisco dunque all’Uomo.
Vi è però un fraintendimento al quale forse ho dato adito io stesso, magari per la forma paradossale in cui mi sono espresso. Quando parlo degli uomini (individui) in quanto “punti di snodo” del reticolo sociale, non mi riferisco a quegli esemplari individuali dell’“essenza” Uomo in cui crede Preve. Egli pretende di citare Marx contro di me, ma si sbaglia di grosso. Già nella prefazione a “Il Capitale” (vogliamo ammettere che questa è la sua opera principale, che a questa dedicò quasi tutte le sue energie intellettuali, e che perciò egli era più scienziato che non altre cose?) Marx scrive: “qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi [quest’ultimo corsivo è mio]”.
L’ultima frase da me messa in corsivo, pur nella sua genericità, apre appunto alla considerazione degli uomini concretamente esistenti, empirici, che non sono solo “personificazione, incarnazione di determinati rapporti, ecc.”, non sono quindi solo punti di snodo di un reticolo di rapporti sociali di forma “storicamente determinata”. Ma nel fare scienza, Marx non tratta di questi individui concreti, bensì solo delle loro “maschere” sociali; egli li considera incasellati in determinate posizioni nell’ambito della struttura capitalistica dei rapporti di produzione, e dunque portatori di azioni che da queste posizioni si dipartono. Del resto, questa struttura di rapporti di produzione – molto schematica, perché fondata sulla mera proprietà/non proprietà dei mezzi di produzione – è un’altra categoria teorica: non rappresenta il mondo (sociale) empirico, concretamente reale. Marx analizza soprattutto il “modo di produzione capitalistico”, che non è la società nel suo insieme, nella sua effet-
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tiva esistenza, mutevole di giorno in giorno. La scienza è qui in primo piano; ma è senz’altro giusto affermare che “grigia è la teoria e verde è l’albero della vita”.
La scienza è in fondo una mappa orientativa, uno schema (ipotetico) per cercare di “muoversi” nel “mondo”; non ha – almeno non per quanto mi concerne – l’intenzione di cogliere “profonde verità”, di scandagliare gli insondabili misteri della nostra esistenza, del nostro essere “scagliati” in questo Universo di dimensioni tali da stordire. La scienza non può quindi pretendere di esaurire il nostro pensiero che si avventura verso “altri orizzonti”; figuriamoci se non sono d’accordo su questo. Tuttavia, non sono personalmente interessato – forse anche perché scoraggiato dall’immensità del compito – ad andare oltre l’ambito della scienza e dei suoi suggerimenti in tema di agire pratico nel mondo.
Per quanto mi riguarda, ritengo che l’arte sia nettamente migliore della filosofia nell’afferrare (intuitivamente) l’“albero della vita”. Ma questo non ha qui importanza. Spero sia adesso chiaro qual è l’uomo di cui parlo quando accenno al “punto di snodo” della rete dei rapporti sociali; si tratta semplicemente di una “figura teorica”. Importante però, perché molti continuano a fare pasticci tremendi, cacciando l’uomo concreto nel cuore stesso delle teorie scientifiche. Si pensi alla banale critica fatta da alcuni alla teoria economica neoclassica; da “buoni filosofi” (umanisti?) essi inorridiscono perché questa tratta dell’homo oeconomicus. Tutti i grandi economisti neoclassici, non uno escluso, sapevano perfettamente che l’uomo reale non è mosso solo da finalità economiche, non agisce in base alla pura razionalità del minimax (minimo mezzo o massimo risultato). Certa critica rivolta ai neoclassici è perciò fondamentalmente sbagliata, non colpisce l’obiettivo. E’ semmai necessario criticare, secondo il punto di vista marxista, le “robinsonate” di questa teoria – il suo “originario” fondarsi sulla relazione tra un soggetto e i mezzi (beni) necessari a soddisfare i suoi bisogni (da cui deriva una certa costruzione della società su cui certo non mi dilungo in questa sede) – mostrando la maggior pregnanza del quadro teorico di Marx, costruito attorno al concetto di modo di produzione capitalistico (con la sua particolare struttura di classi, ecc.); ma quest’ultimo non è più reale, concreto, aderente all’esistente (all’“albero della vita”) di quanto non sia l’homo oeconomicus. E’ su questo punto che molti marxisti “smarronano”, perché credono che la teoria di Marx “fotografi” meglio la realtà, le sia più aderente, la riproduca con maggiore fedeltà, sia più esaustiva. Nulla di più errato. E siccome non credo che Preve commetta questo errore, mi auguro che quanto detto sull’argomento sia sufficiente.
Un altro punto, a mio avviso superficiale, delle considerazioni di Preve. Negli anni ’60, il Club di Roma (legato alla “Trilateral”, ricordiamo anche questo per favore, visto che si tratta di una mafia capitalistica egemonizzata dagli americani!) sosteneva che, entro la fine del secolo, si sarebbero esaurite le risorse energetiche del pianeta e ci saremmo trovati con il “culo a terra”; senza quindi più alcuna possibilità di sviluppo. Il fatto che la previsione fosse errata, dice Preve, non implica che non possano essere esatte le attuali profezie di sciagura, di esaurimento delle fonti energetiche entro il 2050, di altri molteplici disastri ecologici che potrebbero colpire gravemente la Terra. Certo, nulla esclude che ciò possa avvenire; però è altrettanto lecito affermare che nulla esclude che le previsioni siano ancora una volta cervellotiche; ad esempio come le previsioni meteorologiche di qui a 2-3 mesi. E’ più che lecito farle, ma vanno trattate come “prove”, come esperimenti, con la consapevolezza della bassissima, infinitesima, probabilità relativa alla loro esattezza. Altrimenti si fanno profezie, non previsioni scientifiche. Ed io dovrei cominciare a strapparmi i capelli per delle profezie? Siamo seri, per favore!
Per il momento, io so che negli anni ’60 si prevedeva il disastro entro 30-35 anni. Da allora, la popolazione mondiale è cresciuta enormemente, si è sviluppato il sud-est asiatico, sono ormai da anni in piena avanzata i due più popolosi paesi del mondo (almeno il 35% della suddetta popolazione), con una crescita esponenziale dei consumi energetici. Eppure, anche i più catastrofisti ci assegnano ancora 40 e passa anni di possibile sopravvivenza e di utilizzo delle (attuali) fonti di energia; e se arrivati a quella data, con ulteriori incrementi della popolazione, del Pil mondiale, dei consumi
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energetici, ecc., si venisse a dire (non a me e a Preve, ovviamente) che ci sono al massimo altri 40- 50 anni di sviluppo e non di più? Può forse escludere questa possibilità Preve? Non vorrei si ragionasse come certi bordighisti, che fissano la rivoluzione proletaria a un dato anno; poi questa non si verifica, allora essi l’aggiornano ad un’altra data; e così via. Ricordo anche un’altra “piacevole trovata” dei comunisti duri e puri. Fallito il socialismo reale, accartocciatasi la prospettiva rivoluzionaria, essi si sono detti: ma che scemi, non ci ricordavamo più che il capitalismo si è affermato sul feudalesimo nel corso di alcuni secoli e con anche alcuni periodi di ritorno all’indietro; quindi così accadrà pure per il comunismo; adesso è solo fallita la prima ondata, ma nel corso dei prossimi secoli esso trionferà. E’ un ragionamento sensato? E’ da prendersi in seria considerazione? Domande retoriche, ovviamente, sia per me che, spero almeno, per Preve.
Potrei ancora ricordare Togliatti: di fronte alle obiezioni che la sua via italiana (parlamentare) al socialismo assomigliava molto all’opportunismo kautskiano, egli rispose che in effetti, quarant’anni (o giù di lì) prima, quella tesi era errata (e quindi Kautsky era veramente un socialdemocratico riformista e “rinnegato”), ma all’epoca in cui egli (Togliatti) formulava più o meno la stessa tesi le condizioni erano totalmente cambiate, ed essa era quindi realistica e rivoluzionaria. Quando mi scontrai con i dirigenti comunisti provinciali su questi problemi – prima di abbandonarli e mettermi con i “filocinesi” (maoisti) – mi accorsi che era inutile stare a discutere, perché era impossibile dimostrare loro, con piena evidenza, che Togliatti si avviava sulla stessa strada di tutte le socialdemocrazie di ogni tempo. Adesso, però, dopo mezzo secolo credo si possa tirare qualche conclusione. Non che io avessi completamente ragione, ma in ogni caso ero più realistico (e previsivo) di coloro che infilavano la testa sotto la sabbia come lo struzzo.
Scrive Preve che vorrebbe sapere da qualcuno, che ne sa più di lui, se lo sviluppo mette a rischio il pianeta oppure no. Anch’io vorrei saperlo, e anch’io non sono un esperto di questi problemi. So solo che non lo sono certo Latouche, De Benoist e tutti i filosofi della decrescita. Tra gli scienziati c’è dibattito e non tutti sono d’accordo. O meglio, credo che nessuno dica che tutto va bene, che non sussiste alcun rischio, che possiamo dormire tra due guanciali. Ci sono opinioni diverse sulla possibilità o meno di risolvere i problemi senza decrescere, anzi incrementando lo sviluppo di nuove tecnologie sempre più sofisticate (fra cui le nanotecnologie, forse ancora allo stadio iniziale, con qualche filone di fantascienza, ma credo molto interessanti), ecc. ecc. Non vorrei mettermi a dibattere questi nodi tutt’altro che risolti; e nemmeno saprei fare il conteggio degli esperti favorevoli all’una tesi (ottimistica) o all’altra (pessimistica). Mi sembra siano nettamente maggioritari i primi, ma non posso esserne sicuro al 100%. Tuttavia, una prova indiziaria che sono in maggioranza si può desumere dal fatto che gli ecologisti (tra cui conosco molti filosofi e pochi scienziati) accusano gli avversari di essere al soldo delle multinazionali. Forse nei due-tre secoli che precedono, e che hanno visto un progresso scientifico e tecnico in accelerazione esponenziale, c’è stata una schiacciante prevalenza della scienza pura e disinteressata, mai finanziata da Stati e mercanti (ad es. nel campo della navigazione) o dalle industrie, molte delle quali produttrici di quelle armi che hanno risolto i conflitti per la supremazia, di cui è punteggiata la nostra intera storia? E vogliamo credere che prima del capitalismo, a partire già dall’antichità, i grandi avanzamenti della conoscenza scientifica non hanno avuto nulla a che fare con le classi dominanti e i loro antagonismi spesso cruenti? Cerchiamo di non raccontarci balle (non è fra l’altro il non raccontarsele quell’essere comunisti, di cui ha spesso parlato Althusser, in questo approvato anche da Preve?).
Per me è eccezionale il folgorante inizio di “2001 Odissea nello spazio” (Kubrik). Siamo nel periodo delle prime scimmie già in marcia verso gli ominidi. Le varie “tribù” di scimmie si scontrano come al solito; ad un certo punto, una prende in mano un pezzo di legno e, a mo’ di clava, la picchia sulla testa di un “nemico” uccidendolo. Resta un momento perplessa, poi da lei (e da quelle del suo gruppo) si levano urla (stridii) di gioia, il pezzo di legno-clava viene lanciato in alto, volteggia e ….si trasforma nell’astronave in cui poi si svolgerà la vicenda. Il “progresso” umano è sintetizzato in quel volo della clava; e non si tratta solo di scienza e tecnica, ma di evoluzione – con salti trasformativi – delle forme sociali e culturali della civilizzazione umana. Il tutto con un “comincia-
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mento”: il conflitto e l’uso dell’arma per prevalere in esso. Gli “umanisti” saranno inorriditi di fronte a tale pensiero; io no. Ci si deve “mettere una pezza”, cioè cambiare le regole di questo gioco (sempre selvaggio malgrado le diverse forme, alcune apparentemente “civili”, del suo manifestarsi)? Io penso di si, credo che ci si debba battere per conseguire tale obiettivo. Tenendo però conto di quanto è finora avvenuto; e conoscendo adeguatamente quali mezzi sono a nostra disposizione in questo, probabilmente eterno, combattimento (eterno finché dureranno gli uomini e la Terra).
L’imperialismo. A Preve non piace che io usi egemonismo. Tuttavia, imperialismo può essere utile nell’agitazione propagandistica, nella polemica, in ambito giornalistico. Nella scienza è necessario utilizzare nomi diversi per indicare fenomeni diversi. Se egemonismo non va bene, si dovrà trovare un altro termine; anche se a me egemonismo non dispiace. Imperialismo è stato usato per segnalare una semplice politica imperiale o come sinonimo di colonialismo (ad es. da Kautsky). Lenin, cui faccio riferimento come gran parte dei comunisti marxisti, criticò entrambi gli usi. Egli parlò di imperialismo per definire un determinato fenomeno (storico) secondo due aspetti che egli pose come principali. Intanto, la lotta per l’egemonia mondiale tra un certo numero di potenze più o meno della stessa forza. In questo senso (geopolitico) io parlo di policentrismo. Preve considera gli USA l’unica vera potenza mondiale, e talvolta (telefonicamente) si è detto poco convinto della mia tesi di un incipiente policentrismo; tanto più allora il termine “imperialismo” è poco appropriato. In ogni caso, sia chiaro che anch’io considero l’attuale epoca ancora per l’essenziale monocentrica; ritengo che si sia appena aperta la porta per l’entrata in una fase di avvicinamento progressivo al policentrismo (imperialistico). Sono convinto che tale fase non sia reversibile, e che quindi nel giro di qualche decennio saremo in una nuova epoca “imperialistica”; al momento non la considero però tale perché, appunto, non policentrica.
Imperialismo, per Lenin, significava però anche un altro processo. Si trattava della fase suprema o ultima del capitalismo, del suo stadio monopolistico (irreversibilmente stabilizzatosi), cioè di un periodo di massima centralizzazione dei capitali. Il dirigente bolscevico non pensava, come Kautsky o Hilferding, che si sarebbe giunti all’unico trust mondiale; non contestava però l’esistenza reale di tale tendenza univoca (anche lui non vedeva altro che questa), era semplicemente convinto che essa si stesse affermando tra scontri mondiali intercapitalistici (interdominanti) acutissimi che avrebbero condotto alla generale rivoluzione proletaria (di cui quella russa fu pensata come semplice inizio, come detonatore, come innesco). La rivoluzione proletaria mondiale non c’è stata; laddove si era prodotto qualcosa che ad essa poteva assomigliare (ma che alla fine si dimostrò essere ben diverso), il processo è completamente rifluito; l’aumento delle dimensioni d’impresa è proseguito imperterrito senza arrivare ad alcun ultimo o supremo stadio monopolistico. Tuttavia i marxisti sclerotici d’oggidì continuano, essi pure imperterriti, a parlare di massima centralizzazione capitalistica, della lineare e continua crescita della dominanza e parassitismo del capitale finanziario, ecc.
In realtà, il gigantismo delle imprese va messo in rapporto con l’ampliamento e l’infittimento del reticolo mercantile e con le periodiche grandi epoche di innovazioni di processo e di prodotto che riarticolano i rapporti tra i vari settori produttivi del sistema economico, creandone molti di nuovi dove i vari capitali si precipitano riaccendendo la loro reciproca conflittualità, ecc. Non esiste ultimo stadio, “massima” centralizzazione monopolistica e tutte le altre belle previsioni (sballate) del marxismo d’antan. Quindi né dal punto di vista geopolitico della lotta tra potenze, né da quello dello “stadio monopolistico” (in quanto “fase ultima o suprema”) del capitalismo, sussistono quelle condizioni considerate da Lenin e raggruppate sotto la denominazione di “imperialismo”.
Anche per quanto riguarda la finanza, l’analisi andrà condotta al di fuori dei vecchi schemi. Esistono periodi, congiunture, in cui la finanza denota fenomeni di grande speculazione e di parassitismo (a spese del sistema produttivo), ma altri in cui essa ha funzioni strategiche propulsive, sia in tema di innovazioni sia per quanto riguarda la politica di espansione delle sfere di influenza. Anzi, bisognerà pur considerare non le sole congiunture, che si alternano le une alle altre, bensì anche la differenziazione della funzione finanziaria in paesi diversi nella medesima epoca (in specie mono-
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centrica come quella attuale). E sarà necessario analizzare, oltre ai parassitismi della finanza, quelli dell’industria che spesso indico come “decotta”, pur sempre in fasi diverse, e nei vari paesi, della configurazione della formazione sociale capitalistica mondiale.
Non ha quindi senso ostinarsi a denominare nello stesso modo fenomeni fra loro assai differenti, in mutati contesti storici. Ripeto: usiamo la vecchia dizione per certi scopi di politica immediata, ma cambiamo definizioni in merito alla geopolitica e alla struttura capitalistica secondo quanto possiamo capire d’essa attualmente. Altrimenti facciamo solo dei gran pasticci e ripetiamo poi, pari pari, le analisi leniniane, che oggi ritengo nettamente superate e non più utili ai nostri scopi. Se mi dico leninista, lo sono in tutt’altro senso che vedremo fra un po’.
Preve si pone assieme a Latouche, a De Benoist (e a Bontempelli-Badiale) – più certamente molti altri – a predicare la decrescita. De Benoist, dice, si rende conto dell’antinomia tra geopolitica – il fatto che gli USA sono molto potenti e che l’antiamericanismo non può vincerli a chiacchiere – e questa decrescita, ma, essendo “dialettico”, la risolve …. non ho affatto capito in che modo, poiché a mio avviso Preve non lo dice. Tra geopolitica e “inviluppo” delle forze produttive c’è in effetti contraddizione lacerante e tensione acuta; il definirla antinomia e fare appello alla dialettica non la risolve in alcun senso. La contraddizione resta e sarà meglio, quando però ce ne saranno le forze, affrontarla nell’agone della lotta (con la ben nota “analisi concreta della situazione concreta”), se questa riprenderà in direzione della trasformazione dei rapporti capitalistici. Con le belle paroline, Preve e il suo amico De Benoist non risolveranno la contraddizione in oggetto. Per adesso è semplicemente necessario rendersene conto e non indurre la “gente” a credere illusoriamente che sia possibile risolverla puntando tutte le forze sulla trasformazione sociale, anzi di più ancora: sul fiorire (o non so come definirlo; lascio a Preve di trovare la parola) del “genere umano”.
Tuttavia, le considerazioni geopolitiche vengono dopo, perché la decrescita è un controsenso perfino prima di fare appello all’antiamericanismo, e dunque all’esistenza di questa unica superpotenza mondiale che dobbiamo pur combattere. Prendiamola larga. Nel 1889 esce i “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome, grande umorista inglese. Vi sono alcune pagine gustosissime, in cui l’autore si lancia in una sequela di invettive contro coloro che hanno irreparabilmente inquinato le acque del Tamigi, facendovi morire ogni specie di fauna ittica. Inoltre, le rive del fiume sono state disboscate e rese spoglie da proprietari che hanno occupato ogni lembo di terra, talché è ormai impossibile trovare un pezzo di sponda da cui tuffarsi per fare il bagno (del resto, in acque inquinate). Non vi sembra di sentire affermazioni del tutto attuali? Forse Jerome esagera per quei tempi, non ha capito bene come stavano le cose? Oppure è un profeta che già anticipa quello che è accaduto cent’anni dopo? Un po’ come Marx che, per certi cretini, è soltanto un profeta che ha anticipato la globalizzazione odierna?
Queste sono evidenti asinerie. Jerome vedeva quel che andava visto, non si inventava nulla; il degrado ambientale è iniziato come minimo con la fase industriale del capitalismo. Su questo non ho molti dubbi e non sono affatto in grado di rispondere al quesito: ne valeva la pena? Debbo però anche considerare altri aspetti della questione. Sono passati 120 anni dal libro di Jerome (e molti di più dalla “rivoluzione industriale”, che ha avuto anche, per un ben lungo periodo, effetti disastrosi, terrificanti, in sede sociale e non solo ambientale). Mi sembra innegabile “l’ombra” rappresentata dal degrado sopra accennato, in costante aumento, nonché da quello culturale negli ultimi decenni (almeno in occidente); questa è la mia impressione. Tuttavia, consideriamo anche le “luci”. La popolazione (dalla fine dell’ 800) è enormemente aumentata (triplicata, quadruplicata? Non ho i dati e non li vado a cercare); la percentuale di quella che muore di fame è chiaramente diminuita, la vita media si è allungata di non so quanto. Le condizioni di alimentazione, di igiene e sanità, pur ancora tra contrasti e chiaroscuri, sono decisamente migliorate. Si muore pur sempre di qualcosa, ma molte malattie, e soprattutto le spaventose epidemie, sono state – non dappertutto ma in gran parte del mondo – debellate o mitigate. Terremoti, inondazioni e quant’altro hanno effetti terribili dove ancora manca lo sviluppo e assai meno devastanti dove quest’ultimo si è verificato. Sono migliorate le
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comunicazioni, ci si sposta in un battibaleno, con mezzi molto più sicuri. Le popolazioni si sono mescolate fra loro, certo con fenomeni ancora troppo dolorosi di emigrazione, ecc. (ma era migliore la situazione di un tempo?). Brutte le città, affannoso il viverci; era meglio la dispersione in campagna? Oggi forse si, quando si hanno soldi per viverci comodamente, con buoni mezzi di collegamento per arrivare nei centri urbani.
Insomma, non voglio fare l’elenco dei miglioramenti, ma essi non riguardano solo piccole enclaves ma buona parte della popolazione mondiale, pur se con differenze enormi tra le varie stratificazioni sociali e i diversi paesi. Comunque, ad esempio, non dimentichiamo che circa la metà della popolazione cinese vive oggi come da noi un vent’anni fa o poco più (ma anche da noi, appunto, le differenziazioni tra i diversi strati sociali erano più che sensibili e nette). Mentre invece in URSS, tra il 1964 e l’89, quando vi fu “semplice” stagnazione (nemmeno vera decrescita), la vita media è diminuita di 10 anni, negli Ospedali scarseggiavano siringhe e bende, gli strumenti chirurgici e le apparecchiature diagnostiche, ecc. I livelli di vita erano bassi, la maggior parte del tempo di quasi tutta la popolazione (salvo esigue minoranze di dominanti privilegiati) andava spesa per procurarsi i mezzi di sopravvivenza; le possibilità in tema di cultura erano in forte calo.
Il propugnare una decrescita non significa certo il “tornare ai tempi in cui Berta filava”. Questo è un modo pittoresco e contratto di esprimersi, tanto per sbrigarsi (e ciò talvolta è lecito e incisivo). Tuttavia, è ovvio, il problema è assai più complesso. Intanto, diciamo che la situazione sarebbe, in caso di decrescita, relativamente ben peggiore di quella dei “bei tempi andati”. Quando Berta filava con il suo telaio a mano, la società si trovava in una sorta di equilibrio tra forme (strutture) sociali e avanzamento tecnologico; la differenza tra i vari gruppi sociali stratificati non era probabilmente minore di quella di oggi, il servilismo dei dominati e il paternalismo dei dominanti anzi maggiore, con comunque una certa coesione sociale. Insomma, ci si trovava in condizioni che hanno permesso i successivi sviluppi, il mutamento delle forme del dominio sociale (e non credo in peggio) e il passaggio dal telaio a mano a quello meccanico e a più complesse attrezzature ancora; è nettamente diminuita l’importanza del tessile nel sistema complessivo, dov’è andata crescendo la rilevanza dell’industria pesante produttrice dei mezzi di produzione e di nuove fonti di energia; le successive ondate di innovazioni hanno poi via via condotto fino alla civilizzazione moderna fondata sui nuovi settori d’avanguardia odierni.
Se adesso pensassimo di introdurre meccanismi di de-sviluppo nei nostri paesi, la situazione si deteriorerebbe rapidamente. Tralascio di considerare quel che accadrebbe nei paesi a nuovo sviluppo (fra cui i due colossi mondiali Cina e India), e come verrebbe accettata dai loro popoli una simile proposta. Parliamo pure solo di quelli che oggi sono considerati “opulenti”. La popolazione accetterebbe e verrebbe convinta a diminuire i suoi standard di vita per favorire, di fatto, lo sviluppo di “quelli che stanno dietro”? Intanto, spero che nessuno mi venga a raccontare che pensa di trasformare radicalmente le attuali strutture sociali (o addirittura i vari esemplari del genere Uomo abitanti nei nostri paesi) nei prossimi 20-30 o anche 50 anni. Se si sostenesse questo, si sarebbe semplicemente dei pazzi da camicia di forza. Il calo del Pil – che dovrebbe veder immediatamente bloccato ogni aumento di produttività altrimenti si creerebbe una disoccupazione pazzesca, non certo sanata dall’impiego in lavori utili volontari o in società di cooperazione senza scopi di lucro (questa grande bugia dei sinistri odierni) – provocherebbe una carenza di risorse; non solo incapaci di reggere investimenti netti, ma nemmeno i semplici ammortamenti, anzi nemmeno la semplice manutenzione.
Degraderebbero rapidamente le infrastrutture civili, le reti di comunicazione viaria, i trasporti merci e passeggeri (per strada e ferrovia), i porti e aeroporti (e navi e aerei), l’acquisizione di energia (anche per quella “pulita”, che piace agli ecologisti, quella del vento e del Sole, occorrono cospicui investimenti per non parlare della manutenzione piuttosto costosa). I centri urbani si impoverirebbero, le periferie prenderebbero la “via di Napoli”; e non si pensi di mandare la gente in campagna (come in Cambogia?) a fare chissà che cosa (a coltivare orticelli?). Sinceramente, non so immaginare che cosa si potrebbe fare in una situazione di generale impoverimento e di carenza di
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mezzi per alimentare una vita sociale complessa (anzi complicata) come quella odierna, ma che non può certo essere semplificata come si potesse tornare a strutture sociali di altri tempi.
Quando Marx scriveva: “Il mulino a vento vi dà la società feudale, quello meccanico la società capitalistica”, non è necessario interpretarlo nel senso, da me già abbandonato, che lo sviluppo delle forze produttive (e della tecnologia) strappa la rete dei rapporti sociali esistente e spinge alla creazione di una nuova, la cui specifica configurazione è proprio quella richiesta dallo sviluppo in questione. L’affermazione di Marx potrebbe anche voler significare che nuove forme di società si dotano comunque di nuove strutture di tipo tecnico, di una più complessa strumentazione che diventa “scheletro e apparato nervoso” di quella data società. Se non ci sono più i mezzi per mantenere in buona salute né l’uno né l’altro, si creano le condizioni per una sorta di semplificazione e arretramento, che si realizzerebbero con lo stesso “buon ordine” delle famose “ritirate strategiche” del nostro esercito sui fronti africano, greco, ecc. La società si scollerebbe, i gruppi sociali diventerebbero l’un l’altro nemici, la disorganizzazione regnerebbe sovrana, la vita sociale si incattivirebbe e “ognuno farebbe per sé”. Non sono uno scrittore, e non ho voglia di perdere tempo a descrivere minuziosamente che cosa accadrebbe in una situazione di regresso (della ricchezza, pur se so bene che essa, nelle nostre società, è assai maldistribuita tra i vari gruppi sociali); a me sembra del tutto intuitivo immaginare il disordine e l’insicurezza del vivere sociale che ne seguirebbero.
Voglio piuttosto spendere due parole su un altro “piccolo” problema. Più volte ho ricordato, e su questo so che Preve è d’accordo, come non sia mai stata in atto la dinamica prevista da Marx in merito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Non si è andati, nemmeno tendenzialmente, verso la formazione di una piramide sociale con al vertice un piccolo gruppo di rentier e alla base una vasta massa di lavoratori salariati, del braccio e della mente, costituenti un corpo lavorativo collettivo (e cooperativo); e con in mezzo una serie di gruppi addetti alla fornitura di servizi privati (ad es. le “professioni liberali”) o pubblici (ad es. quelli dell’amministrazione statale), gruppi mantenuti dal plusvalore creato dalla base lavorativa e che, al massimo, avrebbero costituito un cuscinetto in grado di “assorbire” parzialmente lo scontro (di classe) tra quest’ultima e il vertice proprietario (e finanziario), senza però impedire, alla fin fine, la realizzazione della trasformazione rivoluzionaria dei rapporti capitalistici.
La dinamica della nostra società ha invece prodotto nel seno di quest’ultima un’accentuata differenziazione in svariati raggruppamenti sociali (che non sono certo le “classi” in senso marxista), da immaginarsi come “segmenti”, sul piano orizzontale, e “strati” su quello verticale. Ogni segmento è diversificato in strati che possiamo schematizzare in alti, medi, bassi; gli strati dello stesso livello, appartenenti però a segmenti diversi, non sono investiti da processi di omogeneizzazione fra loro, restano sempre “esteriori” gli uni agli altri, in semplice interazione, con la possibilità di reciproci conflitti più o meno acuti. Certamente si verificano anche avvicinamenti e cooperazione tra diversi strati e/o segmenti in periodi di accentuazione dello scontro nei confronti di altri strati e/o segmenti. Si tratta di un discorso che tengo sul generico, proprio perché una (mancante) nuova teoria dovrebbe sforzarsi di delineare con nettezza le posizioni a partire dalle quali i “contendenti” potrebbero, in date congiunture, lanciarsi in un confronto-scontro tanto violento da mirare al sovvertimento dell’intera organizzazione sociale. Tutte le lotte che sono avvenute, nel corso di più di un secolo, nell’ambito dei capitalismi avanzati – anche le più dure, e dai comunisti marxisti sempre gioiosamente accolte come l’inizio del definitivo scontro “di classe” – sono invece sempre state interne alla riproduzione (spesso “normalmente” conflittuale) della struttura capitalistica dei rapporti sociali.
Ciò che qui mi interessa rilevare è però un altro aspetto della questione. Esclusa, anche tendenzialmente, l’omogeneizzazione tra i vari segmenti e strati in semplice interazione “esteriore” (per “contatto”, in un certo senso), la coesione sociale è assicurata dal moltiplicarsi dell’associazionismo di tipo sportivo e ludico (quello del “tempo libero”), degli apparati “culturali”, quelli della cosiddetta cultura di massa. Si tratta di fenomeni tutt’altro che positivi, che non hanno certo creato un innalzamento del “grado di civiltà” delle nostre società? Penso che in effetti sia così, ma se ne deve co-
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munque tener conto. Si stanno oggi mettendo in moto processi che si tende invece a considerare positivi quali il volontariato, l’associarsi per scopi ecologici e animalisti, per “attività no-profit”, ecc.; su queste ultime ho il massimo dei dubbi, mentre sulla positività del resto si può solo in parte concordare, dato che contribuisce al forte calo dell’attenzione (e della cultura) della “gente” in merito alla politica, cosicché essa è stata ridotta ad una sorta di prolungamento del “tifo” sportivo.
In ogni caso, questa è la situazione cui ci troviamo di fronte. E tutti gli associazionismi e le attività di cui appena detto si mantengono in piedi perché siamo in una società opulenta dove esiste il cosiddetto superfluo. Mancando l’alimentazione di quella parte del reddito prodotto che può essere stornata per questi scopi – e lo può essere appunto in condizioni di rapido sviluppo e di crescita del reddito – ben poco resterebbe in piedi di quel “fervore” (sia pure di basso livello culturale e, ancor più, politico). Senza soldi non si fa un bel nulla; e la coesione sociale ne verrebbe lesa, tenderebbe a sfilacciarsi. Senza poi considerare il numero di individui nient’affatto infimo impiegato in quel tipo di organizzazioni che esercitano le predette funzioni; anche la disoccupazione crescerebbe con ulteriori effetti negativi e con conflitti “intergruppi” in via di acutizzazione.
No, francamente non penso che le tesi della decrescita siano realistiche; apprezzo le buone intenzioni, ma non intendo prenderle in considerazione. Resto favorevole allo sviluppo. Il mio favore si accentua senz’altro ulteriormente quando intervengono pure le motivazioni legate ai problemi geopolitici inerenti all’attuale fase ancora per l’essenziale monocentrica. Tuttavia lo ripeto: prima e indipendentemente dalla variabile geopolitica, ritengo indispensabile lo sviluppo e l’accelerazione del “progresso” scientifico-tecnico (e perciò della ricerca a tal fine orientata, e delle risorse finanziarie ad essa assegnate). Il problema è semmai di non chiudere gli occhi di fronte alla necessità di favorire un certo tipo di sviluppo e non un altro, un certo tipo di ricerca scientifico-tecnica e non un altro. Questo problema certo resta ed è essenziale; ma non si risolve mettendo i lacci allo sviluppo e alla crescita del prodotto; è esattamente necessario il contrario. La sua soluzione dipende dalle scelte politiche; qui sta la difficoltà, i nostri tremendi ritardi. Non bendiamoci gli occhi e non tentiamo di sopperire a questi ultimi propugnando il ritardo o l’inversione della crescita. E’ come se, per risolvere eventuali problemi di eccesso di natalità, decidessimo di andare alla radice del problema…..recidendo i “piselli” o con “opportune” operazioni chirurgiche sull’organo femminile.
In ogni caso, rispetto le buone intenzioni di certuni, sempre però ricordando che di queste ultime “è lastricata la via che porta all’Inferno”. Per quanto mi riguarda, scelgo al presente la crescita e il “progresso” tecnico-scientifico (sia pure con il ben noto grano salis) e, detto con molta franchezza, non intendo d’ora in poi leggere né scrivere un rigo in più su quelle “buone intenzioni”.
Pochissime righe sulla questione dell’antiamericanismo. Il mio, lo ribadisco, non è di principio, è semplicemente legato all’attuale epoca ancora fondamentalmente monocentrica. Inoltre, se con una pistola alla tempia mi dicessero di scegliere, per la mia residenza, tra USA e Iran, tra USA e Cina, tra USA e Russia, in tutti e tre i casi opterei per il primo paese. Naturalmente, sono convinto che ci vivrei malissimo e ne soffrirei molto; ma credo proprio che negli altri paesi starei ancora peggio.
E veniamo al tema della terza forza. Anche in tal caso non sarò troppo lungo perché credo di aver già ampiamente discusso e risposto nei miei due scritti sull’argomento.
Intanto, mi pare ovvio che si tratta di una finzione teorica. Non vedo attualmente possibilità di costruirla nei prossimi anni; e, quando superiamo i 10, mi sembra assurdo tentare di fare previsioni in merito a simile possibilità. La finzione teorica consente però di indicare alcuni problemi di fondo. In un mio scritto nel blog ho detto apertamente che destra e sinistra europee (e quelle italiane sono le peggiori) sono “storicamente finite”, pur se continueranno a produrre effetti alla guisa degli zombies (i “morti viventi”). L’Europa, e ancor più l’Italia, sono in una situazione che ho spesso definita – ma solo come analogia di larghissima massima – “Repubblica di Weimar”. Dominio incontrastato delle grandi concentrazioni finanziarie, assolutamente non propulsive e invece sempre più “sangui-
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sughe”, strettamente intrecciate – in posizione di netto predominio; questa situazione è evidentissima nell’Italia del dopo “mani pulite” – con gli organismi politici. Sotto la finanza si situa l’industria “decotta”; qualche grande impresa è ancora in condizioni economiche relativamente floride ma senza vere prospettive strategiche; in genere, tale industria si arrabatta con sostegni finanziari “pubblici”, concessi soprattutto da forze politiche stataliste (tipica la “sinistra”), con l’aiuto della finanza dominante che controlla e orienta il (sotto)sistema politico e si prende, per questa (apparente) intermediazione, una bella fetta di risorse (sempre “pubbliche”). Infine, questa finanza europea (e italiana in particolare) è fondamentalmente “guidata” dalle varie concentrazioni di potere finanziario e politico del paese ancor oggi centrale (fra loro in conflitto, com’è “normale” in un sistema capitalistico).
L’Europa (e l’Italia ancora una volta in particolare evidenza) non ha vera autonomia nella lotta che comincia a verificarsi in campo mondiale in quella che giudico una fase di incipiente (e incerto) avviamento ad un’epoca policentrica. Per questo sono molto freddo di fronte alle tesi dell’esistenza di un imperialismo europeo (e in specie italiano); anche su questo punto si constata il grande obnubilamento che provoca la vecchia terminologia marxista-leninista relativa allo “stadio monopolistico del capitalismo”. Il fatto che noi mandiamo le truppe in Irak o Afghanistan, e oggi in Libano – sotto l’egida dell’ONU, nettamente influenzata dall’atmosfera tipica di un’epoca ancora ampiamente monocentrica (e in cui è tuttora alto il peso dell’alleanza “atlantica”) – non implica per nulla che sussista un imperialismo italiano, bensì solo una compartecipazione, subordinata e marginale, agli utili delle imprese egemoniche degli USA e della loro “arma letale” in Medio Oriente (Israele).
Noi comunque siamo situati in Italia, e dunque in Europa, e dobbiamo agire come se fosse possibile battere le forze subordinate al predominio del complesso finanziario-politico statunitense onde riprendere autonomia nella tendenzialmente (nel giro di pochi decenni) policentrica fase che si ipotizza in via di apertura. Se questa autonomia dovesse effettivamente realizzarsi – non credo nell’intera Europa ma in alcuni paesi, fra cui, secondo i nostri intendimenti, in Italia – destra e sinistra da “morti viventi” si trasformerebbero in morti tout court; a quel punto, pur se ovviamente non posso esserne sicuro, nascerebbero una terza e una quarta forza: quelle che ho genericamente definito (per i motivi già addotti sopra) “rivoluzionarie” contro e dentro il capitale. La “finzione teorica”, da me indicata quale terza, è appunto quella che vorrebbe essere contro. Immagino che noi dovremmo porci fin da oggi, pur senza certezze e scontando in ogni caso i “tempi lunghi”, dentro la prospettiva della costruzione della terza forza. Ed è qui che “evoco” il leninismo. Propongo di contrastare decisamente ogni forma di movimentismo, che lascia sussistere la sinistra così com’essa è, con quella abietta e ignobile finzione della sua divisione in “riformista” e “radicale” che serve mirabilmente a rinchiudere le possibili forze antagoniste in una prospettiva di pieno appoggio alla finanza, dominante in Italia e subordinata agli USA; prospettiva che ha oggi i suoi principali puntelli politici nel centrosinistra, con addirittura la sinistra detta estrema quale forza di completo appoggio all’attuale Premier, il rappresentante della concentrazione finanziaria facente capo alla SanIntesa (e alla statunitense Goldman Sachs), la peggiore fra le peggiori. Ovviamente, non propongo certo di stare dalla parte di qualcuna delle cosche in cui sono divisi questi banditi della GFeID (grande finanza e industria decotta), e nemmeno dalla parte di qualcuna delle frazioni dei loro servi politici.
In un frangente del genere, non mi illudo che si possa essere leninisti sino in fondo, mettendo capo a qualche organizzazione che anticipi quella che ho genericamente, e temporaneamente, denominato terza forza. Ognuno resti pure dov’è attualmente e “lavori” politicamente come può. E’ però necessario cominciare a riunire quei pochi che si rendono conto della degenerazione sempre più accelerata di questo sistema finanziario e politico (per di più non autonomo rispetto alla potenza centrale); ed è indispensabile attaccare a fondo, smascherare senza reticenze e senza sosta, sia la destra che la sinistra. Schematizzando potrei dire: contro la politica estera della destra, contro quella interna (e quella economica in particolare) della sinistra. So bene che non contano solo le indicazioni di principio e strategiche, quelle più generali. So che esiste una tattica. Date però le nostre scarse forze e i tempi lunghi che ci attendono, non mi fisserei ossessivamente sui problemi tattici. In ogni
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caso, su questi ultimi non mi atterrei allora a schemi fissi, non indicherei sempre lo stesso schieramento politico come il “meno peggio”. Nella presenta congiuntura, dal punto di vista della tattica, il peggio, il nemico più insidioso, è proprio questo Governo, il cui Premier – con le truppe cammellate della sinistra “estrema” (in particolare Rifondazione nella sua maggioranza bertinottiana) e della CGIL (in specie la maggioranza di Epifani) – funge da “maggiordomo” della finanza “cattolica” (non vaticana) del tipo della Intesa & C. ecc. nel suo assalto alle Generali; operazione che, se riuscisse, farebbe correre i rischi di una chiusura dei già angusti spazi di movimento per tutti noi critici anticapitalistici (e anti-USA).
Dice Preve che, nella mia teorizzazione, manca una considerazione adeguata dei dominati. Non l’ho mai negato; già la dizione di dominati (che mi piace poco per la sua genericità e anche perché non siamo in un regime servile di tipo feudale o peggio) è un arretramento rispetto alla classe operaia di cui parlava Marx e il marxismo. Eppure, abbiamo dovuto accettare questo arretramento. Desidero citare alcuni lunghi passi di Marx in cui egli sintetizza con eccezionale chiarezza il suo punto di vista.
Prendiamo “Il Capitolo VI inedito” (nell’edizione de “La Nuova Italia”) e leggiamo a p. 74: “Poiché, con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzione specificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza-lavoro sempre più socialmente combinata, e le diverse forze-lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti – chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecnico, ecc., e chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto –, un numero crescente di funzioni della forza-lavoro si raggruppa nel concetto immediato di lavoro produttivo, e un numero crescente di persone che lo eseguiscono nel concetto di lavoratori produttivi, direttamente sfruttati dal capitale e sottomessi al suo processo di produzione e valorizzazione. Se si considera quel lavoratore collettivo che è la fabbrica, la sua attività combinata si realizza materialmente e in modo diretto in un prodotto totale, che è nello stesso tempo una massa totale di merci – dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio” (tutti i corsivi sono nel testo).
Leggiamo anche “Il Capitale”, libro III (edizioni Einaudi, pp. 606-7) dove, parlando delle società per azioni e delle loro caratteristiche e conseguenze, si dice: “Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari [si tratta appunto dei rentier; nota mia]. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni, il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero. Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto
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associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è il momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione E’ produzione privata senza il controllo della produzione privata”. [tutti i corsivi sono miei].
Non credo che, per chi sa leggere, ci sia bisogno di commenti. Questi passi (e mi risparmio di citare l’ultimo paragrafo del cap. XXIV, sulla “accumulazione originaria del capitale”, del I libro de “Il Capitale”) dimostrano ad abundantiam la concezione di Marx in merito alla dinamica fondamentalmente dicotomica del capitale: in alto si sarebbe dovuto formare il ristretto gruppo dei rentier, in basso il “lavoratore collettivo” (“dall’ingegnere all’ultimo giornaliero” o manovale). In queste condizioni, la rivoluzione, in quanto aperta ed esplicita riappropriazione di quanto sarebbe già dovuto divenire sociale (nel processo lavorativo, cioè in quello “produttivo immediato”) ad opera dello sviluppo dello stesso modo di produzione capitalistico, sarebbe stata il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”; oppure, con felice metafora, la “levatrice di un parto ormai maturo nel grembo stesso del capitalismo”; ecc. ecc. Tutti sanno che ho ampiamente criticato questa concezione e messo in luce come il movimento, intrinseco a questa società, sia tutt’affatto diverso e conduca ad una dirigenza pienamente, integralmente, capitalistica e non meramente proprietaria di capitali monetari – suddivisa in gruppi di portatori di strategie di conflitto per la supremazia: sia nell’ambito della formazione sociale capitalistica in generale che in quello della società mondiale, frazionata in tante formazioni particolari, che sono prevalentemente paesi, nazioni – e ad un corpo lavorativo frammentato, disperso in orizzontale e in verticale, cioè segmentato e stratificato.
E’ quindi per me evidente la necessità, mantenendo il punto di vista strutturale di Marx (e non solo quello culturale o, peggio, personalistico), di avviarsi verso una nuova teoria che tenga conto dell’effettivo movimento di questa nostra società, così come esso è andato manifestandosi nel circa un secolo e mezzo che ci separa dall’analisi marxiana. In una situazione di piena sconfitta dei dominati (o non decisori come ho proposto di chiamarli per uscire da una caratterizzazione sostanzialmente “servile” che non si addice alla formazione sociale capitalistica), ho cominciato l’opera “ricostruttiva” concentrando l’attenzione sui dominanti, riprendendo anche qui le intuizioni leniniane (e maoiste) circa la conflittualità intercapitalistica, che si manifesta sia sul piano mondiale (in senso pieno nelle fasi policentriche o imperialistiche) sia all’interno di ogni singola formazione sociale nazionale; una conflittualità molteplice che investe la finanza e la produzione, la proprietà e la funzione strategica, gli agenti dominanti economici come quelli politici e ideologico-culturali; una conflittualità che distingue tra i predominanti e i subdominanti (ad es. gli USA, da una parte, e l’Europa e l’Italia, dall’altra), ecc. Tutto questo, ricordando appunto le sensate e pratiche indicazioni di Lenin e Mao in merito all’indubbio fatto che “la rivoluzione non vince dov’è più forte, ma dov’è più debole la reazione”, dove il conflitto tra dominanti, resosi acuto, provoca la disgregazione delle istituzioni politiche di questi ultimi, il dissolversi della loro egemonia ideologica e culturale nell’intera società.
Per quanto concerne una teoria dei dominati, ricordo che si è dovuto già accettare un arretramento dalla classe operaia (quel “lavoratore collettivo cooperativo” mai formatosi in realtà) al generico concetto di dominati (o non decisori). Per quanto chi mi conosca sa quanto sono critico nei confronti della regressione dal modo di produzione a quello di distribuzione, è necessario compiere un ulteriore arretramento in direzione della (iniziale) presa d’atto della segmentazione e stratificazione delle varie forze-lavoro (sia che prestino la loro attività più con la mano o invece più con il cervello). Ho rigettato, non a caso, il concetto di “ceto medio” che sembra implicare soltanto strati sociali che stanno “in mezzo” tra dominanti e dominati. Per quanto non soddisfacente, gli ho preferito intanto la grossolana segmentazione del lavoro in “dipendente” (il classico lavoro salariato) e “autonomo” (che, in realtà, spesso non lo è affatto, ma che comunque non è retribuito nella forma del sa-
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lario). Questa segmentazione, di cui si servono i dominanti per imporre divisione, conflittualità, scontro, tra i dominati, tende a nascondere una stratificazione per cui, sul piano del modo di distribuzione, vi sono livelli alti, medi e bassi di remunerazione sia nel lavoro dipendente che in quello autonomo.
Si tratta ancora di analisi grezza, con la carenza di una vera teoria (dei dominati appunto), ma che può servire ad una prima sgrossatura del problema; e soprattutto ad una prima azione politica mirante a contrastare il divide et impera dei gruppi di agenti strategici (pre e sub) dominanti. Da qualche parte dobbiamo cominciare, una volta preso atto – mentre i comunisti e marxisti (quelli che si autodefiniscono tali) ancor oggi presenti si rifiutano di farlo – che la dinamica del capitalismo non è mai stata quella pensata da Marx e ripetuta passivamente dai suoi successori, salvo le intuizioni di Lenin (e Mao), mai seguite dall’aperta ammissione dell’errata previsione e quindi della fallacia teorica. Si accetti infine l’esistenza degli operai ma non della loro classe; e soprattutto si prenda atto di una loro diminuzione di peso e di relativa (percentuale) consistenza man mano che il capitalismo si è sviluppato verso gradini elevati in successive aree (paesi) del mondo. E del resto, abbiamo appena visto qual era al proposito l’idea di Marx: l’operaio era il “lavoratore collettivo”, “dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”, non la classe delle tute blu inventata da un marxismo degradato; depauperato da Kautsky – sull’onda della crescita del movimento socialdemocratico in Germania, che si ingrossava elettoralmente soprattutto con i voti degli operai in senso stretto – mai contrastato su questo punto da nessun marxista, nemmeno da Lenin.
Da queste difficoltà deriva in effetti la carenza di una teoria dei dominati, di cui sono consapevole, ma che evidentemente non sono in grado di sanare. Se una teoria è carente, dobbiamo forse riprendere quella che ha già provocato un fallimento storico di proporzioni gigantesche ed ormai definitivo? So che Preve è d’accordo nel non accettare questa stupida reazione difensiva dei rimasugli comunisti e marxisti odierni. E quindi dobbiamo, se possibile tutti insieme su questo punto, riflettere intorno alla società capitalistica odierna, senza le scorciatoie della decrescita, dell’unione di “tutti gli uomini di buona volontà” (fra cui ci sono quelli della Trilateral o Soros, ecc.) per salvare la Natura, e altre cosette varie. Non uniamoci a certi “volponi” dei gruppi dominanti; dividiamoci, invece, da loro in termini di lotta sociale; la mera “difesa dell’ambiente” è soltanto la famosa “notte in cui tutte le vacche (certi gruppi di imperialisti, sfruttatori, oppressori, assieme ai gruppi sociali sottoposti alle loro angherie e soprusi) sono nere”.
Negli scritti sulla terza forza, ho sottolineato quella che Preve chiamerebbe un’antinomia, cioè la contraddizione netta, e non facilmente risolvibile, tra il problema della potenza e quello della trasformazione sociale; contraddizione che consegue necessariamente all’assenza del presunto soggetto intrinsecamente rivoluzionario, cioè della classe operaia – in quanto “lavoratore collettivo”, ecc. – che avrebbe dovuto rappresentare semplicemente la soggettivazione di una dinamica oggettiva tesa alla transizione dal capitalismo al comunismo, come sostenuto nei due lunghi passi di Marx più sopra citati. Poiché, oltre a tutto, la trasformazione diventa possibile soprattutto nei momenti di più acuto scontro tra i dominanti, tra gli agenti strategici capitalistici (economico-finanziari, politico-statali, ideologico-culturali), non vi è dubbio che la possibile terza forza non sarebbe in grado di agire rivoluzionariamente contro il capitale senza porsi il problema della potenza atta ad inserirsi nelle congiunture di conflitto intercapitalistico. E oltre alla potenza, come già rilevato, non si deve dimenticare il problema dello sviluppo delle forze produttive come necessario corollario di qualsiasi tentato rovesciamento e trasformazione dei rapporti inerenti al predominio capitalistico.
Ovviamente, si è già detto che la terza forza è al momento una finzione teorica, non si intravedono le condizioni adeguate alla sua costruzione; tanto meno quindi quelle in cui essa potrebbe inserirsi – al potere oppure no in dati comparti (paesi) della formazione capitalistica mondiale – nelle lotte tra dominanti capitalistici per indebolirli e scardinare le loro difese. La finzione teorica non è però senza conseguenze per l’oggi. In assenza dell’oggettivo “soggetto rivoluzionario”, in presenza delle fesserie (o peggio) circa i “movimenti” o le “moltitudini” – non a caso ampiamente propagan-
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date dalla stampa ed editoria dei dominanti, alimentate e sostenute dalle loro organizzazioni economico-finanziarie; a partire dalla stampa-editoria e dagli organismi finanziari del paese centralmente preminente – è indispensabile, pur nella pochezza delle attuali forze, porsi il problema della conflittualità intercapitalistica, interdominanti.
In quest’ambito soltanto, ha senso l’atteggiamento antiamericano e antisionista che pur tengono piccoli gruppi nei nostri paesi “occidentali” (e in Italia in particolare). E’ altrettanto doveroso, a mio avviso, seguire con attenzione gli scontri tra imprese e settori economico-produttivi, in cui alcuni di questi agissero eventualmente, più che altro oggettivamente (non credo con consapevole volontà), in modo da allargare le maglie, attraverso le quali potrebbero infilarsi forze interessate ad una maggior autonomia dell’Europa o quanto meno di alcuni suoi importanti paesi, fra cui l’Italia. Non sono per nulla sicuro che ciò sia possibile, che ciò si verificherà – forse la battaglia per l’Europa è già persa, e quest’area rimarrà schiacciata nel conflitto tra USA e nuove potenze ad est – ma noi qui ci troviamo, qui impieghiamo le nostre misere forze a ripensare la trasformazione anticapitalistica; e, poiché quest’ultima non sarà il portato di alcun spontaneo movimento (come sostengono alcuni sciocchi o peggio), ma dovrà invece essere orientata da chi sa approfittare del conflitto interdominanti, siamo per ciò stesso obbligati a seguire, con la nostra attività di dura critica, l’evolversi della lotta nel campo nemico. Questa lotta si svolge in genere tra i vari gruppi di (sub)dominanti europei (e italiani) allo scopo di meglio sistemarsi nell’ambito della mera partecipazione agli utili dell’attività egemonica dei (pre)dominanti statunitensi. Eppure, alcuni gruppi di “nostri” dominanti, non per scelta soggettiva ma per “pressione dei fatti”, potrebbero forse crescere e cercare di farsi largo secondo modalità tali che, oggettivamente, aprirebbero situazioni di crisi più acuta con gli autentici subdominanti rassegnati alla loro subordinazione nei confronti dei predominanti.
Quando, ad es., seguo le attività dell’ENI o della Finmeccanica (o anche dell’Airbus in sede europea), non lo faccio certo né perché io pensi ad un loro schieramento per una trasformazione sociale contro il capitale (sarei matto) né perché credo che le dirigenze di tali imprese abbiano un effettivo intento antiamericano (ho più volte ricordato come Scaroni, dell’ENI, sia molto probabilmente un membro del gruppo Bilderberg, e ciò basta ed avanza). Tuttavia, tali imprese agiscono nei settori di punta dell’ultima “rivoluzione” industriale, quelli di cui i dominanti USA non vorrebbero lo sviluppo e il rafforzamento né da noi né in Cina né in Russia, ecc. Ebbene, se le imprese in questione intendessero invece crescere e rafforzarsi, si tratterebbe pur sempre di una contraddizione acuta interna al nemico; non dico che da questa scaturirebbe deterministicamente l’antitesi politica agli attuali schieramenti (destra e sinistra) europei e italiani, docili strumenti dei gruppi (sub)dominanti maggiormente proni ai voleri degli Stati Uniti; ma si aprirebbero possibilità in tale direzione. So bene che queste ultime sarebbero innanzitutto relative alla crescita di quelle forze indicate come rivoluzionarie dentro il capitale. Sono però più che convinto che non sussistano concrete e robuste prospettive di crescita e di successo per quelli che lottano contro, se non nell’ambito di un acutizzarsi dell’antagonismo di quelli dentro, diretto a colpire duramente l’attuale assetto politico che garantisce, nella nostra area, la prevalenza dei (sub)dominanti servili verso gli Stati Uniti.
Per questo ritengo errato, e persino cervellotico, parlare in questo momento di imperialismo italiano; sono critico verso quel pacifismo sciocco e imbelle che inorridisce se si rafforza, ad es., un’impresa come Finmeccanica perché produce armi. Sarò apertamente provocatorio: magari si sviluppasse nel prossimo futuro un “imperialismo” italiano, così come si vanno potenziando quelli russo e cinese. Sono però tranquillo su un fatto: che non mi schiererò a favore di questo imperialismo. Sarei lieto se esso si manifestasse, soltanto perché acuirebbe i contrasti, accelererebbe l’entrata nell’epoca policentrica, accrescerebbe le possibilità d’azione di quelli che sono contro il capitalismo. Certo, non sono ingenuo: l’affermarsi del policentrismo (il contrasto imperialistico tra potenze in sede geopolitica) accentuerebbe i pericoli di gravi disordini, a partire da probabili “grandi crisi” economico-finanziarie (sono sempre più convinto che queste sono l’eruzione “in superficie” degli squassanti contrasti policentrici) per arrivare a scontri politico-militari di cui non saprei al momento
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indicare i caratteri; non credo al ripetersi di guerre mondiali di tipo novecentesco, ma non si tratterebbe certo di “piacevoli passeggiate”.
Tuttavia, chi predica ancora il mero, e semplice, confronto-scontro per linee solo verticali – cioè tra capitale e lavoro, tra borghesia e proletariato (comunque tra “classe” e “classe”), o anche tra Impero e Moltitudine o tra Stato e cittadini, o qualsiasi altro scontro del tutto elementare, che dovrebbe concludersi con il puro rovesciamento di un ordine per sostituirvene, immediatamente, un altro – è un individuo pericoloso da ascoltare e da frequentare. Il primo conflitto, in senso logico più ancora che cronologico, si svolge per linee orizzontali, è quello tra dominanti – a livello mondiale (geopolitico) come all’interno delle varie società particolari, nazionali – che provoca le larghe fratture, i profondi crepacci, gli scollamenti e sfilacciamenti, nella struttura dei rapporti sociali (economici, politici e culturali), aprendo la strada a nuove forze pronte a sotterrare le vecchie; ma tale processo si svolgerà sempre nell’ambito di uno scontro tra “rivoluzionari” dentro e contro il capitale. Vince chi è più “abile” nel comprendere le esigenze della netta maggioranza della popolazione, che vuole sopravvivere, ricostruire e rimettersi in marcia.
E’ perfettamente inutile voler risolvere a priori, in base a principi generalissimi, la contraddizione tra le esigenze di potenza e quelle della trasformazione sociale; così come non sarà sempre facile – in periodi che, se si aprissero finalmente, sarebbero di grande confusione culturale e ideologica – decidere chi è contro e chi è dentro il capitale nel processo “rivoluzionario”. L’importante è non cominciare a fare confusione – come la si fece negli anni ’30 – tra “rivoluzione” e “reazione”; quest’ultima è rappresentata comunque da coloro che si attestano in difesa della subdominanza della loro formazione sociale nei confronti di un’altra preminente (l’idealtipo è rappresentato dalla “Repubblica di Weimar”). Chiunque voglia cambiare questa situazione è “rivoluzionario”; ma appunto, si tratta di vedere chi si batte solo al fine “che tutto cambi affinché rimanga lo stesso” (sul piano della divisione tra dominanti e dominati) e chi intende davvero trasformare la società. Se non è facile – se non per gli sciocchi (o peggio?) ancora rimasti alla vecchia ideologia del semplificato conflitto di “classe” contro “classe” – decidere chi è rivoluzionario contro e chi dentro il capitale, ciò è appunto dovuto alla “primarietà” (“logica”) del conflitto per linee orizzontali, e dunque alla necessità che la volontà della trasformazione anticapitalistica si combini con l’esigenza di una politica di potenza; una contraddizione che permarrà a lungo, che ci si dovrà sforzare di tenere “in equilibrio”, ma che conoscerà svolte e sbilanciamenti non sempre nel senso giusto e positivo (così com’è avvenuto, ad es., in URSS e nel campo “socialista”).
Con questo ho finito. Ho trattato delle varie questioni da un punto di vista non filosofico. Non per disprezzo o sottovalutazione di quest’ultimo, ma solo per le mie preferenze. Mi rendo conto che l’essere umano non è fatto di sola contingenza, ma non riesco a pensare ai destini dell’Uomo in una prospettiva di lunghezza eccessiva; e, quando ci penso in separata sede, non so decidere se essere ottimista o pessimista, salvo credere che l’uomo sia una “brutta bestia” (ma che ha anche dei momenti di sublime grandezza). Mi sono concentrato sull’epoca presente e su quella possibile (non certa) entro al massimo 20-30 anni. Certamente, se si esce dalla cosiddetta analisi di fase per elaborare una – pur ancora frammentaria – teoria della società capitalistica, si va verso una maggiore generalità; mai scevra però di temporalità. Solo apparentemente il generale è atemporale. In realtà, ogni teoria serve per una data epoca più o meno lunga, ma mai troppo lunga. Sono i dottrinari, i “fedeli” (come certi rimasugli marxisti d’oggidì), a voler mantenere intatta e perenne una data teoria; ma solo perché ciò è necessario all’integrità della loro personalità, del loro equilibrio mentale. Chi ha un cervello rigido come il vetro, ovviamente lo manda in frantumi se appena si mette a pensare il nuovo. Molto resta da dire, ma sia chiaro che non tornerò più su alcuni problemi qui trattati; su altri, è palese che la discussione non è chiusa. E adesso al lavoro in una prospettiva non secolare.
fine dicembre 2006
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