LA CENTRALIZZAZIONE DEI CAPITALI

Dalla lettura dell’ultimo lavoro di Gianfranco La Grassa (GLG) “Un passo in Marx e due di lato,” apparso recentemente sul sito Ripensaremarx.it, mi viene in mente Bergson, non tanto perché quest’ultimo abbia qualcosa da spartire con una ricerca siffatta, di tutt’altro indirizzo ed ispirazione, quanto perche l’insieme del lavoro di ricerca bergsoniano può rappresentare una “tipicità,” tra tutto il panorama filosofico del Novecento con una sottesa evocazione teorica di riferimento: “ogni mutamento e movimento (tra tempo e realtà sociale) è assolutamente indivisibile” ed è in controtendenza, ad una naturale fissità della nostra intelligenza nel cui raggio dell’attenzione, un tempo reale può divenire l’eterno, “con la sola differenza che i fenomeni si risolvono nell’eternità delle Leggi, anziché servire da modello all’eternità delle idee.”
Mi sono permesso questa piccola divagazione, con una trasposizione culturale, onde affermare sommessamente, che talvolta la ricerca teorica svolta in ‘solitario’ può dare risultati eccellenti con robuste implicazioni ricche di novità. Su quest’ultima digressione, il modello teorico lagrassiano mi sembra l’unico nel desolante panorama culturale-politico italiano che sia in grado di cogliere le peculiarità capitalistiche, con un metodo di ricerca il cui oggetto richiama una realtà sociale non statica e di gran lunga innovativa e accompagnata da una inusuale costanza e pervicacia dell’autore (GLG) che risale, se la memoria non mi tradisce, in un suo intervento in “Critica Marxista,” nel lontano 1972, in netta controtendenza al dibattito aperto dalla stessa rivista contro l’althusserismo, dell’allora Pci.
Il primo saggio proposto da GLG, in “La Prefazione del 1859: soltanto determinismo economicistico,?” a cui ne seguiranno altri due, sembra denso e corposo nelle numerose implicazioni propositive; per certi aspetti oltre a rappresentare un punto di arrivo e non certo conclusivo di un lungo ed appassionato lavoro su Marx, un vero e proprio programma di ricerca a tutto campo, tanti sono i riferimenti di un passato remoto nel tentativo di cogliere le tendenze di fondo dello sviluppo Capitalistico, la cui ricerca a tutt’oggi è ridotta ormai ad una sedimentazione culturale di dubbia e difficile interpretazione. Alle capacità dei grandi Economisti Classici di un tempo, nel ragionare per grandi aggregati economico-sociali, si sono sostituiti nel corso di tutto il secolo scorso dal Primo Novecento in poi, tanti neo(classici, marginalisti, keneysiani..), in un continuo venir meno dell’intelletto, e con esso la percezione di una realtà sociale ridotta ad un contenitore vuoto, entro cui simulare parvenze di economie talvolta fantasiose.
Il saggio di GLG richiama la parte teorica di Marx più controversa ( Prefazione del ‘59), in una rilettura con inusitati allargamenti in zone di confine entro cui muovere i passi in nuove direzioni: un affresco storico più esteso in un orizzonte culturale che possa comprendere alcuni punti di arrivo, e tra questi vorrei porre l’attenzione su una configurazione, tra le più dibattute di tutta la problematica marxiana, la cosiddetta “Centralizzazione dei Capitali;” un paradigma che ha saputo alimentare le interpretazioni più subdole del pensiero marxiano e che nella vulgata dell’economia politica tradizionale ha assunto la denominazione di Monopolio e/o Oligopolio; riprendere quel filo logico di pensiero può significare risalire alla “Accumulazione Originaria” del Primo Capitalismo Borghese nella sua doppia funzione inscindibile tra Proprietà e Dirigenza, e su cui si è andata ‘inviluppando’ nella tradizione marxista e liberale, l’ideologia della “Proprietà.”
In pratica, da un sostanziale svuotamento del controllo reale dei processi produttivi realizzato in apparentamento al controllo formale della Proprietà (giuridica), si trassero le conclusioni più avventate, sulla marcescenza del capitalismo, come causa ultima delle Centralizzazioni capitalistiche realizzate nella forma del Monopolio e con esso, l’approdo alla terra promessa del Comunismo. Da tale rappresentazione maturò il pensiero economico-sociale della “Proprietà:” grande simbolo di libertà da un lato e di oppressione dall’altro, tra i due mondi divisi (Liberismo e Socialismo) e paradossalmente uniti nei grandi dogmi che hanno tenuto in vita i popoli: due miti fondamentali, anche se ideologicamente contrapposti; si trattava soltanto di scegliere “in libertà” tra la “Proprietà” Individuale o Collettiva, rinforzate entrambe dalle scorciatoie ideologiche dei vari
pensieri economici, in vantaggi non sempre scientifici ma sicuramente proficui, nelle torsioni della storia a favore dei dominanti.
Le funzioni integrate (tra Proprietà e Direzione) del Primo Capitalismo, e successivamente, scisse (nel Capitalismo Borghese), hanno dato il chiaro segno che, nei passaggi tra formazioni economiche-sociali, il conflitto di strategie tra gli agenti dominanti provoca la frammentazione produttiva in forti dinamiche interattive, causa fondamentale di uno sviluppo economico con un ritmo di crescita “in squilibrio” tra gruppi sociali e aree geopolitiche. La frammentazione produttiva ha una direzione opposta alla proprietà ed ai suoi processi di centralizzazione a difesa all’esistente e sopratutto ad una sua possibile scomposizione in tanti nuovi poteri (funzioni) imprenditoriali che fioriscono nei periodi di forte innovazione di prodotto. Ben si comprende come la Centralizzazione dei Capitali possa essere soltanto un processo sociale in/tra aree, ed entro cui si svolge la competizione tra capitalisti insieme alle loro funzioni poste al presidio dei “saperi” della concorrenza. Gli impulsi dati alle nuove Centralizzazioni dei Capitali con la geniale invenzione giuridica delle “società per azioni,” hanno dato luogo alle grandi raccolte di capitali al seguito delle Rivoluzioni Industriali del secolo Diciannovesimo, i cui Proprietari (capitalistici) si sarebbero nel tempo sempre più staccati dalla direzione dei processi produttivi, affidando quest’ultimi ai dirigenti salariati; quel mutamento di forma della Proprietà (borghese), in funzioni scisse “dal suo interno,” già nel periodo di vita di Marx, rese possibile la separazione del diritto legale della proprietà dalla gestione con l’emersione (grosso modo dal 1914) di un tipo di “Capitalismo Manageriale ”che si caratterizzò fin da subito, in un nuovo rapporto tra Proprietari Controllori ( Capitalisti Manager) e grande massa di azioni dei piccoli proprietari risparmiatori; un trapasso d’epoca del Capitalismo Borghese ridotto nella sua parte proprietaria a semplice “Rentier” insieme però ad una ricomposizione delle funzioni scisse (proprietà e direzione) in quelle del Capitalista Manager.
L’inizio della scissione della funzione direttiva dalla Proprietà (borghese) rappresentò comunque il grande cambiamento di fine Ottocento ed il vero volano della “democrazia economica di massa” della società per azioni, attraverso lo sminuzzamento del sistema proprietario; la proprietà societaria venne suddivisa in una miriade di frazioni (azioni) societarie, la cui diffusione aumentò enormemente la massa raccolta dei capitali azionari, svuotando il controllo dei proprietari, in una sorta di “democratizzazione del capitale;” la perdita del controllo proprietario alimentò e sviluppò una “Oligarchia Finanziaria” in crescita esponenziale, attraverso una manipolazione delle partecipazioni azionarie, in un intrigante sistema societario in trasferimento di responsabilità, dalla società controllante (madre) alla controllata (figlia), che si accolla a sua volta in piena autonomia l’onere dei “loschi affari.” Un passato tutt’ora presente, nel cosiddetto “Equilibrio di Bilancio”(anche qui gli eufemismi non mancano anche se sono utili allo scopo) della casa madre, tra investimenti e finanziamenti che servono a programmare i rischi degli impieghi del Capitale sottoscritto dagli azionisti, in totale occultamento ai comuni azionisti abbagliati dallo splendore dell’imbroglio; l’oscuramento del rischio del capitale investito è garantito dalla catena delle partecipazioni societarie (scissioni, fusioni..), in sempre maggiori suddivisioni della parte intera del Capitale, in quote societarie di altre società (figlie), alimentando così il nascondimento dell’ingarbugliamento contabile del Bilancio sociale (della società madre), il cui ‘dominus’ ( gruppo di comando dei soci minoritari) può investire in modo esattamente contrario agli interessi della massa dei piccoli risparmi investiti. Ben si comprende a questo punto come il sistema della partecipazione accentra nelle mani di pochi il possesso delle azioni della Casa madre, e con esse l’allungamento del controllo “a cascata,” accrescendo sempre più in potenza la “Centralizzazione,” e con essa un decisionismo politico al fine di rendere più efficace l’impiego dei capitali secondo gli indirizzi posti dai gruppi strategici in conflitto tra di loro. .
Le interpretazioni sulle Centralizzazioni dei capitali sono state copiose e svariate e quelle che più di tutte hanno occupato l’indagine economica nella versione più economicistica hanno riguardato l’oggetto storico delle dimensioni dell’Impresa (Monopolio, Oligopolio..), in un campo d’analisi che andava dal modo di produzione (cioè sul complesso integrato, di forze produttive e rapporti di produzione) alla produttività dei grandi sistemi e tutte convergenti, in uno stretto nesso tra
evoluzione della tecnologia ed evoluzione dell’organizzazione: un maggior grado di organizzazione implicò l’emergere di attività produttive insieme alle attività specializzate nella produzione del sapere; anche se l’ordine sistemico dell’Impresa Industriale ‘esiste in quanto diviene,’ si ricostituisce cioè con un ritmo non dissimile alla carica auto propulsiva della “distruzione creatrice” di Schumpeter. Per riprendere queste ultime considerazioni, GLG mette in rilievo come l’indagine sulla produzione in senso stretto (modo di produzione) possa diventare una ricerca del tutto fuorviante ad una reale e “fondante” riproduzione del rapporto capitalistico;” il “Kombinat” di Marx, diventò un modello di cristallizzazione sociale di riferimento per tutto il marxismo novecentesco, non più in grado di ‘vedere,’ attraverso le lenti di una teoria, diventata nel tempo una chiesa “avventistica,” nel nuovo contesto sociale “di estraneazione dell’aristocrazia finanziaria,” che si sviluppò enormemente tra Ottocento e Novecento in/tra concentrazioni industriali e bancarie, con nuovi ed inusitati sviluppi del Capitalismo Finanziario in netta separazione (anche se in coabitazione) al Capitalismo Manageriale. Il modello proposto da Marx aveva un senso nel proprio secolo (Ottocentesco), successivamente non poteva né era in grado di misurarsi in una realtà profondamente mutata: le “concentrazioni tra funzioni direttive ed esecutive”, non poterono più essere realmente antagonistiche alla Proprietà (Controllo formale); da qui le giuste osservazioni di GLG che il cosiddetto “scontro di classe” enfatizzò le contraddizioni tra dirigenti ed esecutori “con grande gaudio dell’aristocrazia finanziaria..”, in quanto la Proprietà è diventata ormai una ideologia sospesa ad una icona sacra, non solo nel dejà vu dei marxismi ormai defunti, quanto in tutte le ideologie sopravvissute fino a tutt’oggi nei tanti neo… liberismi.
G.D. settembre ‘08
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