LA “SAPIENZA” DEL PAPA

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Sulla faccenda del contestato invito al papa Benedetto XVI all’università “La Sapienza” di Roma con la successiva rinuncia del pontefice e le polemiche di questi giorni così si esprime Marino Badiale in un intervento tratto dal sito dei comunisti comunitari: <<La questione, di per sé, sembrerebbe abbastanza semplice. L’inaugurazione dell’anno accademico non è un pubblico dibattito nel quale si ascoltano diverse opinioni e le si dibatte. E’ un momento in cui vengono chiamate a parlare, senza possibilità di replica, alcune voci particolari, interne ed esterne all’Università. Quali sono le voci esterne all’Università che ha senso ascoltare? Poiché la realtà sociale moderna è formata da infiniti gruppi in competizione per i loro interessi particolari, mentre le istituzioni dello Stato dovrebbero rappresentare il momento dell’interesse generale, del bene comune, è chiaro che l’intervento autorevole, senza possibilità di replica, non può essere quello di chi rappresenta uno degli infiniti gruppi della “società civile”, italiana o mondiale, ma può essere solo quello di rappresentanti di altre istituzioni statali la cui sfera di azione si sovrappone in qualche modo con quella dell’Università. C’è un motivo prettamente logico per escludere il primo tipo di intervento: non esiste un criterio razionale di scelta. Perché il Papa e non, diciamo, l’ambasciatore cinese, che rappresenta un quarto o un quinto dell’umanità? Perché il Papa e non il Dalai Lama? Perché il Papa e non Bush o Putin, che rappresentano forze, anche spirituali, molto importanti al giorno d’oggi? Al contrario, la scelta di rappresentanti di altre istituzioni dello Stato ha un significato molto ovvio: conoscere opinioni e progetti dei rappresentanti di altre istituzioni statali che, sovrapponendosi la loro azione con quella dell’Università, devono necessariamente coordinarsi con essa per l’espletamento delle loro funzioni, in ogni caso indirizzate alla tutela dell’interesse collettivo, del bene comune. Se tutto questo è corretto, ne discende il carattere improprio dell’invito rivolto a Benedetto XVI e la correttezza della protesta sollevata da parte del corpo docente.>> L’argomentazione di Badiale si presenta abbastanza sensata, anche se per certi versi ci pare che venga data parecchia importanza ad aspetti di tipo formale, che comunque per chi insegna all’Università non possono essere del tutto privi di significato. Anche Asor Rosa è un professore universitario come Marino Badiale e anche lui in un articolo-lettera sul Corriere pone delle obiezioni che riguardano essenzialmente la scelta del momento dell’invito e il metodo per operare questa scelta:<<L’inaugurazione di un anno accademico è una cerimonia ufficiale, a cui hanno l’obbligo di presenziare tutti i componenti del corpo docente [ … ] . Ora , la libertà di parola [ … ] si compone di due aspetti: la libertà di dire (o non dire); e la libertà di ascoltare (o non ascoltare). Se la cerimonia è organizzata da un privato qualsiasi, nulla quaestio: ci si va o non ci si va a seconda dei casi. Ma se la cerimonia è ufficiale, e io ho non solo il diritto ma il dovere di parteciparvi in quanto membro effettivo di quella comunità, non mi si può togliere la libertà di non ascoltare, se desidero farlo – di non ascoltare a casa mia, intendo>>. Abbastanza diversa appare invece la posizione di Claudio Magris – che pure continua, lo ricordiamo, a risultare particolarmente comico e surreale nella sua difesa di Prodi contro Berlusconi – (contrabbandato ancora per “Cavaliere Nero” nonostante lo stesso innominabile Presidente Bertinotti, con le sue continue aperture al “Berlusca”, abbia cominciato a propugnare la teoria del suo “sbiancamento” perché amico “comune” dei “WVeltroni”) :<< Si è detto [ … ] che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un’altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l’università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale – a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto e sentito – poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla [ … ] l’uditorio. [ … ] Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell’insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico come Max Weber, tutto
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dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente [ … ]. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un’esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento.>> E come per rispondere direttamente a Asor Rosa, Magris continua affermando:<<So solo che – una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo – un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all’inaugurazione dell’anno accademico ( come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.>> Per passare dagli argomenti dell’opportunità “politica”, del rispetto delle regole scritte e non scritte del mondo accademico alle questioni che più propriamente concernono il contenuto, per così dire, filosofico, di ciò che in questo dialogo tra laicità e religione viene messo realmente in gioco comincerei proprio da Claudio Magris e dalla sua definizione di “laico” riportata sempre nell’ articolo sopra citato. La laicità per Magris <<è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede, di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato>>. La laicità, prosegue Magris, <<è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura – anche cattolica – se è tale è sempre laica, così come la logica – di San Tommaso o di un pensatore ateo – non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.>> A queste riflessioni si riallacciano anche i ragionamenti sulla tradizione filosofica cristiana e sulle posizioni teologico-filosofiche di Benedetto XVI che vengono espressi da E. Severino nella pagina culturale del Corriere in data 19.01.2008. Rifacendosi all’ultimo libro pubblicato dal papa, Severino scrive:<< Insieme a quella latina, cristiana e moderna, egli indica l’”eredità” greca dell’Europa: la fondazione della democrazia su ciò che Platone chiama eunomia, “buona legge”, (“buon diritto”), che è buona perché, dice il Pontefice, è la “supremazia, valida per tutti del nomos (“legge”), “di ciò che è giusto per intima essenza”. Ma questa – osservo – è la supremazia della filosofia, che ha sempre inteso indicare, in modo “valido per tutti”, la verità. Una giustizia, una virtù, un Dio che non siano veri – dice Platone – li si può e li si deve abbandonare. Solo la verità può mostrare in modo incontrovertibile l’”intima essenza” delle cose. La filosofia respinge tutto ciò che assicura di essere verità senza esserlo, innanzitutto il mito, la religione, il potere e la negazione di esso che siano privi di verità.>> Ma la posizione di Benedetto XVI, nel suo legare e legittimare assieme gli ambiti della fede e della razionalità, a parere di Severino si dimostra debole e quasi “relativistica”: <<Egli enuncia la “regola fondamentale” per evitare i contrasti tra le diverse culture: la “necessaria correlazionalità” o “complementarietà” “tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate a una reciproca chiarificazione e cura, che hanno bisogno l’una dell’altra e che lo devono riconoscere”. “I due partner principali in questa correlazionalità sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale.>> Per Benedetto XVI quindi, di fatto, <<nessuno dei due partner è in grado di proporre qualcosa “su cui tutti siano d’accordo” – anche perché sia la religione sia la ragione sono affette da pericolose “patologie”>>. Se quindi la religione e la fede, sia per Severino che per il Papa, non possono dirsi “incontrovertibili” perché esse manifestano un dono soprannaturale, la “grazia”, donataci dalla rivelazione e dalla potenza del “Verbo” incarnato, se perciò l’uomo con le sole sue forze non può attingere al “divino”, per il filosofo italiano il “vero” e l’”incontrovertibile” è invece alla portata della ragione filosofica nella sua piena autonomia. Penso che di fronte a questi ragionamenti ci si possa domandare chi dei due, tra Ratzinger e Severino, possa essere avvicinato maggiormente al “misticismo” ed effettivamente il secondo, con le sue tesi sull’eternità degli enti, nella loro singolarità, con la relativa negazione del tempo e del divenire, per molti di noi, e usando il suo
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stesso linguaggio, ci appare più vicino ad essere un philomythos (l’amante del mito) che un philosophos. Severino ad un certo punto esplicita con decisione le sue tesi affermando che << il relativismo e lo scetticismo, contro cui la Chiesa e il Pontefice continuano a combattere, consistono proprio nella tesi sostenuta dal Pontefice, cioè che la ragione, in quanto incontrovertibilità, non esiste appunto perché essa ha bisogno della religione, cioè del controvertibile – e se fossero certi scienziati a prendere la parola arriverebbero alla stessa conclusione, perché direbbero, in modo analogo, che la filosofia ha bisogno della scienza – un sapere, la scienza, che per la sua struttura concettuale ha sì la massima potenza, ma ormai esclude esso stesso di essere incontrovertibile.>> Così se Tommaso d’Aquino, sempre nell’interpretazione di Severino, riconosceva alla filosofia la capacità di giungere alla “Verità” e nel contempo considerava che la fede cattolica non poteva pretendere il riconoscimento di tutti, dato che i maomettani, i pagani e i confuciani non la accettavano (a meno di non essere costretti con la forza, aggiungo io) il papa Benedetto XVI trova che <<la “patologia” dell’ obnubilazione compete alla ragione in quanto tale, e anche alla fede; le quali, per il fatto di non esser condivise da tutti, sono come due zoppi che per camminare hanno bisogno di appoggiarsi l’uno all’altro, dando luogo comunque a una complessiva claudicazione.>>
Speriamo, invece, che San E. Severino, novello “salvatore”, con le sue magiche formule filosofiche riesca, “veramente”, a guarire da qualcuno dei suoi molti mali la nostra misera epoca !
In realtà però la questione più importante che tutta questa polemica ha richiamato all’attenzione è quella dell’interpretazione della modernità sulla quale continuano a discutere e polemizzare gli esponenti della filosofia contemporanea, la Chiesa e i cosiddetti “laici”. In questa sede preferisco non toccare il problema dell’articolata e argomentata critica alla modernità operata dalla Chiesa cattolica e espressa in particolare da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma cercherò di ricordare alcune delle riflessioni di M. Heidegger su questi temi. In un articolo apparso sul sito del PRC relativo sempre alle polemiche sul papa alla Sapienza il coordinatore del Dipartimento Università del partito (Fabio de Nardis) scrive ad un certo punto:<< …. l’indiscusso valore storico di quel processo che noi moderni chiamiamo modernità, grazie a cui gli individui, senza rinunciare alla propria spiritualità, hanno relegato la religione alla dimensione privata dell’esistenza. Si “indiano”, come avrebbe detto Dante, cioè si fanno essi stessi Dio ponendosi al centro della società come produttori materiali e culturali della propria vita sociale.>>
In Heidegger il termine metafisica non compete tanto a definire una disciplina filosofica, per tradizione la prima per importanza, o in termini estensivi l’intero ambito del pensiero filosofico, quanto piuttosto una determinata maniera degli esseri umani di porsi di fronte agli oggetti in termini pratici, teorici ed emozionali: “il filosofo nomina l’essere, il poeta evoca il sacro” e l’uomo attivo (un uomo che però secondo Heidegger vede solo gli enti perché non riesce a “disvelare” l’essere nel cui “oblio” noi viviamo) usa la sua “arte”, la techne per trasformare il mondo inteso come materiale da lavoro e fondo a disposizione (dell’esser-ci, degli uomini). La modernità costituisce un rapporto in cui il soggetto-ente acquista, attraverso la tecnologia, cioè la specifica techne che nasce dall’applicazione della scienza moderna, la capacità di manipolare indefinitamente gli oggetti-enti; questo soggetto trova nell’incessante incremento di capacità di dominio sulle cose, che possono essere anche gli altri soggetti-enti , la sua maniera di realizzare una specifica forma di “trascendenza” . E’ proprio questa “trascendenza” mistificata, all’interno dei rapporti sociali della modernità capitalistica, che diviene quell’illusione per cui l’”uomo moderno”, come denunciato da Heidegger, finisce per credersi il “padrone dell’essente” e come tale ritiene di essere in grado di “sostituire dio”. Gli esseri umani sono al contempo entità naturali e “umane” e la loro umanità consiste nel poter divenire consapevoli del proprio essere-per-la-morte; per non regredire però all’animalità e contemporaneamente non diventare tramite lo sviluppo della tecnica “prodotto dei propri prodotti” cioè macchine, in possesso di una capacità di agire “meccanica” e di una “intelligenza artificiale” , gli uomini e le donne devono tendere a qualcosa che la tradizione spiritualista chiama e interpreta con i termini di “sacro” e/o “divino”. Per un “non credente” questo
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può significare solo che l’uomo rimane uomo solo se vive proteso verso qualcosa che non può raggiungere – perché un “altro mondo”, o esseri spirituali e/o “supremi” non crediamo che esistano – ma che può dare significato alla sua esistenza, un qualcosa che ci è reso visibile e comprensibile prevalentemente tramite forme simboliche e linguistiche, sempre inadeguate, ma ineliminabili. Questa può essere ad esempio la tensione morale e politica che ci porta ad “impegnarci”. Non servirà a condurci nel paradiso dei cristiani o dei musulmani e nemmeno contribuirà alla generazione di nuovi “superuomini” o “oltreuomini”; potrà contribuire solo ad aggiungere, ricordando una espressione del compianto filosofo veneziano A. Biral, al nostro sforzo di ricerca – razionale ed emotivo – in direzione del “meglio” anche il nostro impegno per cercare di fare qualcosa di più.
Mauro Tozzato   23.01.2008
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