Caro Sasha (Alessandro),
quello che dici mi può andare benissimo, naturalmente sottolineando alcune “cosette” che, comunque, mi sembra siano in parte contenute nelle tue argomentazioni.
Intanto, esistono svariate correnti di pensiero, ognuna delle quali pensa di “rappresentare” il mondo meglio delle altre. Anzi, alcuni non accettano nemmeno questo termine perché convinti di “riprodurre” la realtà del mondo, altri di coglierne l’“intima essenza” (a volte definita Verità), ecc. Personalmente, appartengo alla corrente che si limita a parlare di “rappresentazione” del mondo (e anzi sempre di suoi parziali comparti, e secondo certe angolazioni, mentre per alcuni è invece possibile una “visione complessiva” o di una Totalità, ecc.).
Mi permetto di suddividere, certo schematicamente, le correnti di pensiero in filosofiche, scientifiche, artistiche. Ognuna delle tre si divide in numerose varianti; e ognuna, ripeto, ha la ferma convinzione di fornire la migliore rappresentazione (o riproduzione o coglimento dell’intima essenza) del mondo (nella sua Totalità o secondo visioni parziali). In linea di principio, quasi tutti gli autori ammettono, con grande apertura mentale e tolleranza, che nessuno ha il monopolio del giusto (o presunto tale) rapportarsi alla realtà (o a quello che siamo convinti essa sia). Tuttavia, poi, ognuno si batte accanitamente per la propria visione. Spesso, durante la propria esistenza, uno studioso passa da una corrente di pensiero ad un’altra (e poi magari a un’altra ancora) e polemizza allora, non sempre tanto gentilmente, contro quella(e) che era(no) la(e) sua(e) precedente(i).
Facciamo un esempio concreto, quello che conosco meglio. Da tempo ormai, polemizzo contro le correnti neoliberiste e neokeynesiane (e altre) da certe posizioni mutuate dal marxismo; e argomento le mie convinzioni, pensando di “vedere le cose” in modo più corretto. Tuttavia, volendo essere sinceri, non posso portare prove dirimenti che le altre correnti sono in errore, mentre la corrente da me seguita rappresenta il mondo (sociale) correttamente. Come vedi, mi tengo sempre vigile nel restare lontano da un linguaggio “di Verità” (o anche soltanto verità); quindi confesso subito l’appartenenza ad una certa corrente.
Oggi tuttavia, com’è ben risaputo (e tu lo affermi esplicitamente), mi sono allontanato dalla concezione marxista, ne sono largamente fuoriuscito (ma da lì comunque provengo e dunque esco, non da una concezione diversa); se lo faccio – senza essere pagato da nessuno – vuol dire che mi sono convinto, certamente pensando sul pensiero precedente, di poter apprestare (diciamo meglio: suggerire) una via di rappresentazione migliore, cercando di preparare il campo per qualcuno che abbia l’intenzione di seguirla. Naturalmente, predispongo la mia strumentazione – a mio avviso strategica, proprio perché nel pensiero è sempre in corso la battaglia tra varie correnti – per argomentare la mia scelta. E questa si basa su due mosse.
Innanzitutto, sostengo che Marx è un punto di arrivo rispetto alle teorie a lui precedenti (riprese dai dominanti ancora oggi) in quanto svela la diseguaglianza reale celata dalla (ideologia) dell’eguaglianza nello scambio mercantile (che tuttavia è una realtà, se ci si rappresenta quest’ultima ad “un certo livello”). Inoltre, mostro (non uso mai il termine dimostrare, che mi sembra eccessivo) che anche in Marx esiste una visuale (ideologicamente) distorta proprio a causa della sua intenzione, prevalente su ogni altra, di svelare lo “sfruttamento” (estrazione di pluslavoro come plusvalore). Nel far questo, egli enfatizzò inevitabilmente la competizione intercapitalistica fondata sulla razionalità del minimo mezzo, ecc. avente come scopo il conseguimento del massimo profitto; con tutto ciò che ne derivò dal punto di vista della centralizzazione dei capitali, della formazione del lavoratore (operaio) combinato in quanto base sociale per la trasformazione della società capitalistica (nient’affatto utopistica, invece quasi “naturale” e necessitata, se Marx avesse effettivamente, come credeva, semplicemente “riprodotto il reale nel cammino del pensiero”).
Quindi anch’io pretendo di svelare che, “sotto” la realtà (perché tale è, ad un certo livello) dello sfruttamento e della razionalità impiegata nella competizione per ottenere il massimo profitto (che discende, in ultima analisi, dal massimo sfruttamento, ecc.), sta un’altra realtà – non antitetica, ma nemmeno puramente complementare, anzi predominante e talvolta certo in contrasto con quella in questione – che rappresento come campo di un conflitto strategico per la supremazia, con diverse diramazioni nella varie sfere sociali, ecc. ecc. Non mi dilungo perché queste cose le sai, e poi fanno parte di una ricerca nient’affatto conclusa, anzi in pieno svolgimento.
Sarebbe lecito che io sostenessi di avere finalmente raggiunto il fondo della questione (realtà)? Che credessi di avere infine racchiuso il mondo in un’esaustiva sua riproduzione (“nel cammino del pensiero”) o di averne colto l’intima essenza in quanto Totalità? Mi dispiace, ma avverto un istintivo rifiuto e una stellare distanza rispetto a modi di pensare simili. Sono solo convinto di aver pensato su altri pensieri e di aver dato il là alla possibile costruzione di qualcosa di diverso (sempre posto nel cervello, intanto) che, nella mia dichiarazione di intenti, svela ciò che la sola dimostrazione dello sfruttamento (ricordo: estrazione di pluslavoro/plusvalore rispettando la forma dell’eguaglianza mercantile) nascondeva; o quanto meno distorceva in modo tale da non poterne trarre tutte le debite conseguenze.
Ho fatto tutto questo per amore disinteressato della conoscenza? Ho voluto ritrarmi da un mondo infido, pieno di disillusione e amarezza, di decadenza culturale, di volgarità urlata, di stupidità crescente? No, per opporsi a questo occorrerebbero altri mezzi; l’argomentazione razionale, il pensare sedendo in silenziosa riflessione, ecc. non servono a nulla. Ben altro bisogna utilizzare. Torniamo però a noi. Ho pensato sul pensiero (del marxismo, non semplicemente su quello di Marx; con il condimento, come sempre accade, di altre correnti teoriche) per uscire dall’impasse storica in cui, ormai è evidentissimo, è caduta la teoria marxista e la prassi comunista. Alcuni (pochi) non si rassegnano; altri (non tanti, ma ancora troppi) credono di rappezzare alla bell’e meglio i fallimenti passati e di riuscire, magari con qualche capriola o eclettismo deteriore, a ripristinare vecchie prassi ormai esaurite assieme alla loro teoria di riferimento. Ho compiuto una preliminare scelta in modo definitivo, senza la certezza che sia perfettamente giusta o anche solo corretta; la ritengo obbligatoria, come intanto mettersi a letto e bere molti liquidi quando si prende l’influenza. Ho cioè affermato senza più mezzi termini: il comunismo è finito, la Rivoluzione d’Ottobre ha cambiato certo il mondo, ma non nel senso che i comunisti volevano e perseguivano. Esattamente come ogni altra grande rivoluzione o mutamento storico.
Quello che pensava Marx non si è verificato, diamolo per scontato. Significa che non esiste lo sfruttamento? Questa la conclusione di chi ha ripreso il dominio del mondo, anche nel pensiero. Io non l’ho accettata e mi sono ingegnato a mantenere in piedi questa “scoperta” di Marx, malgrado il fallimento successivo delle sue previsioni. Ho tuttavia (ri)pensato il suo pensiero guidato da un’ammissione pratica: il mondo è mutato in modo diverso da quello da lui teorizzato (una teoria che ha orientato un vasto movimento sociale per più di un secolo). Secondo me, questa è l’unica conclusione sicura, certa. Tutto il resto – cioè dove si pongono i passi falsi, gli sbagli, la realtà “non disvelata” (terminologia impropria, t’avverto subito, ma che debbo usare altrimenti non scrivo più, mi paralizzo come il “millepiedi ideale” quando si mette a pensare a come riesce a muovere le sue innumerevoli zampette) – è incerto, nebuloso, mobile, cangiante. Devo avanzare delle ipotesi. Tuttavia con la netta sensazione (oserei spendere il termine consapevolezza) che siamo in una fase di transizione a un’epoca della società non ancora ben delineatasi e quindi non ben “strutturata” (il che significa più semplicemente e realisticamente: non ben strutturabile con ipotesi più definite e sistematiche).
Tu dirai: hai essenzialmente parlato da scienziato. La scienza ha questo livello di consapevolezza (limitato). La filosofia sa invece Tutto, illumina il mondo fin nelle sue più intime fibre, non lascia zone d’ombra; e non solo per l’oggi, ma per tutte le epoche dall’inizio dell’Uomo (o addirittura dal big bang) e per tutto il futuro possibile e anche dopo. Chiacchiererò a briglia sciolta.
Se uno legge i drammi di Cecov, vi avverte il senso di tragedia incombente, il cui clima non è tuttavia reso attraverso il prisma della società, bensì illustrando il malessere, il disagio, la vanità e boria, la meschinità, ecc. di vari personaggi; e facendo sgorgare dall’interno stesso della vicenda rappresentata la loro continua aspirazione a qualcosa di confuso, di assolutamente imprecisato, che
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dovrà arrivare (non si sa come né da dove) per ridare un po’ di speranza alle generazioni future. Tutto è però affidato all’immaginazione, alla fantasticheria, all’infantile velleitarismo, poiché non c’è mai una volontà tesa a qualcosa di concreto, bensì sempre alle meraviglie che stanno lontano in un tempo imprecisato, dove tuttavia verrà riscattata la miseria del presente. Con il senno di poi, possiamo oggi capire che vi era il vago, impreciso, presentimento della bufera che prese le concrete forme della guerra, del crollo dell’impalcatura sociale della Russia zarista e della grande Rivoluzione. Cecov, che non faceva “di professione” il profeta, ma “solo” l’artista, non indicava le modalità e i tempi precisi del terremoto, lo avvertiva e intuiva nel progressivo sfacelo dell’organizzazione sociale, colto indirettamente mediante l’approfondimento di quello delle coscienze (con tanti tipi di personaggi, che ne illustravano i poliedrici svolgimenti).
Oggi, per fortuna (cioè già da qualche anno, ma non molti) ricominciano ad apparire dei film (mi dispiace, ma i più incisivi sono, ancora una volta, quelli americani), che nella loro agghiacciante (ma non gratuita) violenza – sto parlando di pochi film, non della paccottiglia con mille effetti speciali “catastrofici” – ma soprattutto nel più totale deserto dei sentimenti, nell’appiattimento e lavaggio di ogni sensibilità, del senso del futuro, delle conseguenze delle proprie azioni, ecc. dimostrano che siamo di nuovo ad un qualche tornante; pochi anni o pochi decenni? Inutile fare profezie; ma qualcosa, di nuovamente tragico, è in marcia.
Perché dico questo? Perché gli artisti colgono qualcosa di insito nei moti della società, e magari tendono in qualche caso a presentarlo anche come una specie di ormai irreversibile “mutazione genetica”, qualche altra volta indicano, di solito abbastanza approssimativamente, in che direzione procederà il cambiamento; non spiegano però tutto, raramente (in genere solo nei “polpettoni” verbosi e moralistici) fanno prediche sul da farsi per premunirsi e salvarsi, non stilano ricette per la guarigione e, nei migliori esempi, non ostentano ottimismi o pessimismi di facciata; si mantengono sull’orlo dell’abisso, lo segnalano ai ciechi, mettono un cartello d’avviso che è prossimo un incrocio pericoloso. Credo che anche certi filosofi abbiano un atteggiamento non troppo dissimile, pur se procedono con diverso stile di argomentazione, di linguaggio; il che è ovvio. Non amo invece sentire annunci di Verità (o anche solo verità), fare prediche, essere pessimisti o ottimisti “cosmici”, sentirmi indicare sentieri sicuri di salvezza (e nemmeno di perdizione). Non stimola in me l’attenzione chi mi parla di “cose eterne”. A volte ho la sensazione che alcuni vogliano dirmi con assoluta (e dunque arrogante e presuntuosa) certezza come eravamo, come siamo, come saremo. Non mi interessa chi si crede “simile a Dio”.
Vorrei non mi si fraintendesse. Non mi piace che uno sia incerto o eclettico circa l’impostazione (la corrente di pensiero) che sta seguendo in quel dato periodo della sua vita di pensatore. E’ giusto abbia una convinzione decisa; può cambiare idea in fasi diverse della sua vita, ma mai usare, a spizzico, pezzi di impostazioni diverse: contemporaneamente o con andirivieni tra le due (perfino magari opposte) a seconda delle convenienze del momento. Quindi, la coerenza mi va benissimo; salvo che, come ho già sopra rilevato, mi capita poi di polemizzare con chi – secondo un mio personale giudizio (non può essere diversamente) – sceglie la visuale (per me sempre, in definitiva, una ideologia) che ritengo errata o poco produttiva; o addirittura, talvolta, piuttosto mistificatoria in merito alla presunta realtà (anche quella del pensiero di un autore) che mi presenta, oppure pericolosa perché indebolisce un certo tipo di battaglia ideale. E via dicendo.
Cerchiamo di chiudere, pur con un certo qual salto, per non farla troppo lunga. A me sembra che, in qualsivoglia tipo di corrente di pensiero, quando si formulano certe tesi, si elaborano certe concezioni, ecc. ci si debba, in qualche modo, rimettere al controllo della pratica. Non quella dell’esperimento (non abbiamo laboratori, e nemmeno fenomeni da osservare in molteplice e rapida successione), ma comunque della riflessione su ampi periodi storici, con la rilevazione – sempre tramite il pensiero (che “struttura” ipotesi) – dei mutamenti intervenuti nel corso di quelli che sono pur sempre i precipitati (per quanto casuali e magari non voluti da nessuno) di processi sociali e culturali, ecc. Non apprezzo – e questa è la mia “coerenza” – chi fa supposizioni su come era l’Uomo (cioè
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in definitiva una data formazione sociale) migliaia di anni fa o solo qualche secolo fa oppure oggi o magari, con grande immaginazione, in futuro, ogni volta attribuendo alle sue simpatie e preferenze per quest’Uomo (cioè per le differenti formazioni sociali, e dunque anche culturali e di pensiero) un carattere eterno di Verità (o anche solo verità).
Con ciò non escludo la discussione su alcuni caratteri che presumiamo abbastanza generali da essere permanenti (almeno assai a lungo) nel tempo dell’evoluzione e trasformazione sociali. Preferisco però sempre l’approccio di Marx al proposito: il permanente non ha la priorità su quelle che sono le sue “modulazioni” temporali (nel tempo delle formazioni sociali, sia chiaro). Il permanente (meglio detto: il generale), com’egli scrisse, è utile perché, fissandolo, ci risparmia la ripetizione e ci consente di pensare, “in contrappunto”, le specifiche trasformazioni temporali. Tuttavia, per carità, consento a chiunque lo desideri di parlare del permanente, anche dell’eterno. A questo punto, dichiaro però una certa preferenza per chi direttamente passa alla religiosità, che è pur sempre un grande fenomeno umano (non mi sogno mica di negarlo; personalmente, mi commuovo in modo identico a vedere la fantozziana “boiata pazzesca” così come i grandi film di Bresson o La ricotta e Accattone di Pasolini, ecc.). Non ho nulla contro i grandi sentimenti dell’uomo, con tutti i meravigliosi fenomeni, soprattutto artistici, cui hanno dato origine.
Sono al contrario poco disponibile – anche “per raggiunti limiti d’età” – a intrattenermi in discussioni intorno all’Uomo, e ai suoi destini in generale, per i secoli dei secoli, traendo troppo direttamente, im-mediatamente, dai sentimenti umani le argomentazioni intorno ad un futuro così generico. Mi dispiace ma le ritengo chiacchiere; intelligenti e colte se fatte da persone intelligenti e colte, sceme e superficiali se fatte da sciocchi e banaloni. In ogni caso, per quanto mi riguarda, sono del tutto superflue e non forniscono il minimo lume sulle possibili scelte da compiere nella battaglia delle idee; e non solo con mero riferimento a quelle più specificamente politiche e sociali.
Questo è ciò che penso e, poiché il mio tempo è limitato, passo ad altro. Con molta stima comunque per il tuo intervento
Giellegi
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