AI CARI ECONOMICISTI
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SABATO, 19 LUGLIO 2008
Alcuni amici economicisti – sissignore, perfino tra di essi ci sono care persone – mi hanno delicatamente telefonato perché, dicono, non è affatto vero che necessariamente, se aumenta il potere d’acquisto dei consumatori (ad es. con aumenti salariali), si accentua l’inflazione. A parte l’essere sconsolato perché di cinque cartelle piene che ho scritto in Gira e rigira, sembra si siano lette solo due righe, figuriamoci se uno come me, che crede assai poco a tassative “leggi economiche”, non è d’accordo su simile precisazione. Non si è in grado di affermare con granitica certezza che ogni aumento di potere d’acquisto genera inflazione. Tuttavia, può verificarsi pure un fenomeno del genere se produttori e distributori, soprattutto di beni di importanza primaria (quelli detti a domanda anelastica; e i cui consumi tuttavia sono diminuiti nell’ultimo anno di oltre il 3% a causa del consistente aumento del costo della vita), sono in grado di aumentare i prezzi non appena intravedano la favorevole prospettiva di sfruttare un certo innalzamento del potere d’acquisto. E affinché questo si verifichi in un certo numero di casi, non è sempre necessaria la presenza dei mono (od oligo)polisti cui si riferiscono le teorie economiche a tal proposito.
Del resto, deve anche ammettersi la non stretta necessità – in una situazione di crisi, con vera o presunta disoccupazione di “fattori produttivi” – del rilancio della produzione, e dunque dell’occupazione con l’attenuarsi della crisi stessa, in seguito ad un aumento della domanda. Sarebbe ora di riconoscere che, negli anni ’30, la crisi – “ridottasi” dopo il 1933 a sostanziale stagnazione – non fu risolta se non con l’entrata nella seconda guerra mondiale. Simile mossa, non credo vi siano dubbi nemmeno per un economicista, non fu certo compiuta per uscire dalla situazione economica poco brillante. Nemmeno però si può dire che, al di là degli scopi per cui si partecipò al conflitto bellico, l’economia si riprese – come sostennero certi “keynesiani della spesa militare” – perché vennero prodotti, generando così reddito da spendere, beni non certo immessi nel mercato ma anzi distrutti, distruggendone nel contempo altri (immobili e mobili) che così doverono a loro volta essere nuovamente prodotti (si distrussero pure vite umane, ma questo fu “puro incidente”, comunque “irrilevante” nel contesto di una discussione sui mezzi migliori da impiegare allo scopo di favorire la ripresa della produzione e del sistema economico).
In realtà, questa visione economicistica è proprio micragnosa e meschinella. Ciò che risulta essere il primo nella rinascita, non solo economica, di un dato paese (nella contingenza specifica del 1945, gli Stati Uniti) – e quindi il più rilevante motivo della sua partecipazione ad un conflitto bellico – è la conquista della primazia nell’ambito di un certo sistema di relazioni tra formazioni particolari (quasi sempre ancora dei paesi). Gli Usa la conquistarono appunto, con la seconda guerra mondiale, in tutto il campo del capitalismo “occidentale” (dei funzionari del capitale), quello decisamente più avanzato, in cui essi posero le basi per il successivo “balzo” del 1989-91. Senza dubbio, grazie alla preminenza acquisita, poterono sistemare molto convenientemente anche i loro “affari economico-produttivi” (e acquisire la netta preminenza finanziaria, con la Borsa di New York divenuta il centro mondiale al posto della vecchia City) grazie agli “aiuti” e alla “ricostruzione” (dell’Europa e del Giappone distrutti), passando così per benefattori,
sempre ringraziati da servili “classi dirigenti” (subdominanti) per questa loro “generosità”.
Di conseguenza, se ci si trova al centro di una vera crisi, non se ne esce per nulla con mere politiche della domanda: sia pure non solo di consumo ma anche di investimento. E meno che meno se ne esce se si resta in un mercato globalizzato, secondo la mania (ideologica e da subordinati) dei liberisti, sciamannati propagandisti di una virtuosa “libera competizione” con immaginari benefici per i consumatori, che vedrebbero diminuire infine i prezzi. Balle! La “libera competizione” favorisce il rafforzamento delle posizioni di chi detiene la struttura produttiva più forte e più lanciata verso i settori innovativi, quelli ormai strategici per lo sviluppo di un paese nelle condizioni create da nuove ondate di distruzione creatrice, di avanzamento della scienza e della tecnica. La globalizzazione ribadisce la dipendenza di chi produce in prevalenza beni di passate ondate delle innovazioni di prodotto e di processo; essa rafforza quindi la supremazia di chi già predominava. Il problema da me invece posto in Gira e rigira è quello di uscire dalla crisi – che nessuno riesce ad evitare se si verifica nei suoi aspetti massimamente tellurici, sintomo dello scontro tra potenze: tra chi vuol mantenere il predominio e chi tenta di metterlo in discussione – nelle condizioni meno peggiori possibili, che sono per ciò stesso le migliori in senso relativo nell’ambito del (de)sviluppo ineguale dei vari capitalismi in competizione.
Come già all’epoca della supremazia inglese nella prima metà dell’800, i liberisti sono al servizio del paese predominante, anche se imperversano in paesi altri, che avrebbero le potenzialità per cercare di intraprendere una strada diversa e propria, cioè di indipendenza e di contestazione della primazia altrui. Questo è il vero motivo per cui ho iniziato il mio ultimo libro, Finanza e poteri, con List. Non avevo alcuna intenzione di ripensare una sorta di critica dell’economia partendo da tale autore; intenzione che alcuni, con mia grande sorpresa, mi hanno attribuito (trattandomi un po’ da scemo). Ho invece utilizzato la sua critica – che fu seguita da lotte pratiche – della teoria del commercio internazionale formulata dagli economisti classici quale metafora di qualcosa che si ripete oggi, ma certo in forme assai diverse. Fra l’altro, era mia principale preoccupazione proprio quella di andare oltre (e contro) l’economicismo – che in ultima analisi era pure l’orizzonte di List – perché sostengo al contrario l’esigenza imprescindibile di conquistare una potenza atta a battersi per la supremazia (o almeno contro quella altrui), condizione fondamentale e primordiale anche per i “miglioramenti” della propria situazione economico-produttiva (e finanziaria). Per questa supremazia – o riduzione di quella altrui – sono decisive le strategie del conflitto, che sono politiche; e le più incisive, quelle che rappresentano il primo in ordine di rilevanza, non sono quelle economiche.
Solo tramite tali strategie si esce da un’eventuale crisi nelle suddette condizioni meno peggiori, e quindi relativamente migliori, rispetto a quelle esistenti all’entrata nella crisi stessa; dove il “relativamente” si riferisce, com’è logico, alla posizione occupata dalle diverse formazioni particolari – nella complessiva configurazione sistemica della formazione mondiale o globale – durante il loro temporaneo (congiunturale) (de)sviluppo ineguale. Queste politiche di potenza per migliorare (relativamente) le proprie posizioni – politiche non economiche come loro primo aspetto e impatto – hanno
poi come ricaduta economica il mutamento intersettoriale del sistema produttivo del paese che le attua; inoltre, cambia anche il rapporto tra finanza e produzione.
Seguendo le teorie e politiche liberiste della globalizzazione – al servizio del paese predominante (oggi gli Usa come ieri la Gran Bretagna) – la finanza assume la preminenza nella sfera economica dei paesi che accettano la subordinazione. Essa – pur con adattamenti e comportamenti non chiaramente decifrabili, soprattutto perché opportunamente mascherati dalle mistificatorie e involute considerazioni dei “tecnici” e sedicenti esperti – si adegua in definitiva alle politiche di quella del paese preminente (ecco perché ho fatto spesso l’esempio della Repubblica di Weimar), in cui le complessive strategie dei gruppi dominanti mirano alla supremazia globale. Così agendo, l’apparato finanziario dei paesi sub(dominanti) – anche attraverso la simbiosi con un ceto politico prono ai suoi voleri e a quelli dei (pre)dominanti centrali – contribuisce alla permanenza, spesso soltanto sopravvivenza, di una industria delle passate epoche dell’industrializzazione, che crea anch’essa ricchezza in condizioni “normali”, ribadendo tuttavia l’accettazione della supremazia dei suddetti (pre)dominanti e mettendo dunque a forte rischio il proprio paese nel caso di una crisi generalizzata.
Una reale maggiore indipendenza, con decisa contrapposizione rispetto all’egemonia del paese centrale in quella data epoca storica, esige in primo luogo una precisa attenzione a tutte le strategie della forza politica in ambito internazionale, che non si limitano a semplici politiche economiche. Tali strategie hanno senza dubbio la loro ricaduta anche nella sfera economica, dove debbono però riposizionare – con metodi decisi e talvolta drastici – gli apparati finanziati in funzione di quelli produttivi, con radicale ristrutturazione di questi ultimi in direzione della netta prevalenza dei settori detti di punta, cui va assegnata una quota decisiva delle risorse di cui si dispone. A tal proposito, ricordo quanto già detto in altra occasione: la punta è decisamente più sottile del corpo (dell’economia complessiva), ma è quella che avanza più facilmente e più in profondità, facendo poi “passare” anche il resto (come fa ad esempio un rompighiaccio o uno spazzaneve).
Immaginate di “sparare” contro un “avversario” un corpo perfettamente cilindrico; ci vuole enorme sforzo (“costo” ed “energia da spendere”) per riuscire a far penetrare il cilindro oltre la cintura di protezione (che si tratti dell’epidermide di un animale o di altro in casi diversi) dell’“avversario” in questione. Fate del cilindro un bel cono appuntito, e tutto sarà più facile e meno dispendioso di energia e di sforzo. La “punta” è dunque decisiva sia nelle fasi di avanzata, per acquisire migliori posizioni nella pretesa “globalizzazione” contestando la supremazia altrui, sia in quelle di ritirata (ad esempio di crisi) per uscirne nel modo meno peggiore (relativamente migliore) possibile.
Spero che questo sia sufficiente per i “cari economicisti”. Altrimenti, amici come prima e tanti saluti.