AI COMUNISTI
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Ho manifestato, già da alcuni anni, varie perplessità sull’uso del termine comunista; in effetti tendo semmai ad impiegare quello di anticapitalista, pur rendendomi conto della sua genericità oltre che del fatto che si tratta di indicazione soltanto in negativo. Vorrei spiegare meglio le mie perplessità che non dipendono da nessuna forma di rinnegamento, nemmeno larvata, della mia scelta politica effettuata nel 1953. Non è mia intenzione essere retorico, ma comunque sono nel complesso orgoglioso di quella scelta; e non ritengo affatto che il comunismo sia una vicenda piena di orrori. Disprezzo anzi senza mezzi termini sia i destri che, approfittando di una sconfitta, si permettono senza più alcun contraddittorio di lanciare solo fango su un processo storico ultrasecolare, che ha comunque mitigato i reali orrori del capitalismo da loro tanto decantato e osannato; sia i sinistri che, in buona parte, provengono da quell’esperienza, ma l’hanno rinnegata e addirittura, in certi casi (vedi l’evanescente Veltroni), fanno ridicolmente finta di non averne mai fatto parte.
Io rivendico la mia appartenenza, ne sono fiero, rifarei senza esitazioni quanto fatto in quegli anni; tuttavia, dopo quel che è avvenuto, mi consento di ragionarci sopra e di sviluppare una serie di critiche. In un certo senso, si potrebbe anche riprendere quella denominazione, pur riverniciandola abbondantemente. Se in genere non mi comporto così, non è certo per mascherarmi o perché mi vergogno ad affermare chi sono stato e sono, e come la penso. Altri sono i motivi della mia resistenza all’utilizzazione del nome in questione, e cercherò di spiegarli, il più succintamente possibile.
Innanzitutto, constato che coloro i quali hanno continuato a denominarsi in quel modo, hanno totalmente abbandonato la prospettiva che fu di Marx (e dei marxisti), l’unica cui riconosco sensatezza e quindi validità di intenti. Molti, fallito quello che voleva essere il “socialismo scientifico”, hanno ripreso la strada della “utopia”; in particolare quella della predica di stampo cristianeggiante, per cui il comunismo è soltanto l’essere tanto buoni e caritatevoli, “amare il prossimo”, smussare lo spirito di competizione e rinvigorire quello della mutua cooperazione e solidarietà, ecc. Comincio intanto con il dire che la mia esperienza di vita, ormai sufficientemente lunga, mi ha insegnato che i “più buoni”, salvo eccezioni, sono delle emerite carogne, soltanto ipocriti e capaci di colpirti alla schiena. Immaginiamo però che tutti siano invece in buona fede, che vogliano perseguire sinceramente il bene dell’intera umanità. Mi dispiace, ma il mondo li incattivisce presto; ci si accorge quasi subito che “di buone intenzioni è lastricata la via dell’Inferno”. Pressoché impossibile si rivela l’evitare la competizione (e ben aspra), a meno di rinunciare a “farsi strada” (come ho fatto io, per pura pigrizia, salvo che in un’occasione, in cui dovevo difendermi dall’attacco altrui).
La grandezza del comunismo, nella concezione di Marx e dei marxisti, consisteva proprio nel non presupporre la “bontà e generosità umana”, ma nel confidare in una specifica dinamica del capitalismo che avrebbe posto le basi materiali e sociali del comunismo. Tale dinamica prevista scientificamente – e pensata come oggettivamente intrinseca al modo e ai rapporti di produzione capitalistici, senza alcun appello al perseguimento del Bene e ad uno spirito cooperativo in quanto sentimenti coltivati, singolarmente, dagli individui umani – avrebbe comportato: a) un tale sviluppo delle forze produttive, una volta abbandonata la proprietà privata dei mezzi produttivi e la tendenza al profitto capitalistico, da soddisfare in pratica qualsiasi bisogno (non quindi solo di pura sopravvivenza, ma anche quelli avvertiti e urgenti in base ad un sempre più alto grado di civilizzazione e cultura) con il minimo possibile di sforzo lavorativo; b) la progressiva formazione del lavoratore collettivo o combinato, “dall’ingegnere all’ultimo manovale”, vero fondamento sociale di una proprietà (potere di controllo nell’uso) realmente collettiva dei mezzi produttivi; sarebbe proprio venuta meno, oggettivamente, la stessa possibilità di competere, e accapigliarsi, per appropriarsi privatamente dei mezzi necessari allo sfruttamento, cioè all’estrazione di pluslavoro da altri esseri umani.
Tali previsioni non erano per nulla affatto utopistiche; semplicemente esse derivavano da una realistica, ma alla fin fine dimostratasi sbagliata, interpretazione delle caratteristiche relative alla
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suddetta dinamica intrinseca all’evoluzione del sistema capitalistico. Eventi che accadono continuamente nell’ambito della scienza, in ogni campo. Una volta rivelatosi l’errore, è necessario ripensare l’interpretazione (e previsione) scientifica. I comunisti hanno invece preferito o rinnegare tutto e passare armi e bagagli dalla parte del capitalismo, al momento vincente (ma è proprio lo stesso capitalismo di cui parlava Marx? Ne dubito assai); oppure negare l’evidenza e rimanere attaccati alla vecchia visione (“tolemaica”) in attesa (inutile) che la Storia infine prenda la direzione “giusta” (quella cristallizzatasi nei loro cervelli antiscientifici e dogmatico-religiosi); o tornare a predicare – pochi in buona fede, molti per ingannare qualche “povero di spirito” e averne i voti così da godere i lauti compensi che i dominanti elargiscono ai loro servi politici – la bontà, la generosità, l’altruismo, ecc. degli uomini.
E’ evidente che chi tenta di riprendere la strada di una critica anticapitalistica, tenuto però conto dell’esperienza storica accumulatasi tra il 1848 (“Manifesto del partito comunista”) ed oggi, non può confondersi con i rinnegati del comunismo, ma nemmeno con gli altri “avanzi indigesti” dello stesso. Per questo, ho molte perplessità a mantenere quella denominazione, che rischia di creare eccessiva confusione.
Il secondo motivo è anche più importante e complesso; occorrerà qualche parola in più per spiegarlo. Ho affermato spesso che il comunismo novecentesco – sia quello al potere in Urss e poi nei paesi del “socialismo reale”; sia quello all’opposizione nel campo capitalistico – è stato in definitiva più lassalliano (da Lassalle, sostenitore del “socialismo di Stato”) che marxiano. Marx, seguito però anche da Lenin in Stato e rivoluzione e da molti altri marxisti, era decisamente antistatalista e dichiarò più volte che il comunismo voleva realizzare sostanzialmente (mediante la proprietà collettiva dei mezzi di produzione) ciò che il liberalismo poneva solo formalmente (consentendo, e difendendo con ogni mezzo, la proprietà/controllo reale di tipo privato dei suddetti mezzi, con annesso sfruttamento/estrazione del pluslavoro dai dominati). Il comunismo sarebbe quindi stato un avanzamento e perfezionamento delle condizioni di base indispensabili alla conquista della maggior libertà individuale possibile nell’ambito di una struttura di rapporti sociali (fondamentalmente interindividuali).
Il marxismo si poneva anche in antitesi all’anarchismo, ma solo perché quest’ultimo pretendeva l’abolizione dello Stato dall’oggi al domani dopo la presa del potere; mentre i marxisti (e i leninisti) affrontavano realisticamente il problema della necessità di difendere tale presa del potere dalla volontà di rivincita delle classi dominanti spodestate, e pensavano ad una estinzione graduale delle prerogative statali man mano che procedeva la marcia verso una struttura comunista dei rapporti sociali. Deve infine essere chiaro che lo Stato di cui si trattava in tutti questi dibattiti – tra comunisti e liberali, tra comunisti e anarchici, ecc. – non era un semplice organismo di “amministrazione” di alcune attività di carattere generale concernenti gli individui in quanto membri di una collettività, di una società. Lo Stato, di cui i comunisti marxisti discutevano, era lo strumento di coercizione e repressione degli sfruttati (dominati) da parte degli sfruttatori (dominanti), cioè della maggioranza da cui si estraeva il pluslavoro da parte della minoranza che di questo viveva, prosperava e si rafforzava. Lo Stato era in definitiva rappresentato dai “distaccamenti speciali di uomini in armi” (esercito, polizia, corpi speciali di vigilanza e repressione, servizi segreti, ecc.) per usare la definizione di Lenin.
La condizione sociale (quindi materiale) decisiva per l’estinzione dello Stato – e per la realizzazione sostanziale della libertà individuale “predicata” formalmente dai liberali – era rappresentata non dall’educazione (“illuministica”) degli individui al convivere “civile”, cooperativo e non conflittuale; bensì dal venir meno di quella che appariva la vera causa di ogni conflitto (per la supremazia): poter vivere del pluslavoro altrui. Solo che la condizione necessaria ad appropriarsi di questo pluslavoro sembrava essere semplicemente la proprietà dei mezzi produttivi da parte di gruppi minoritari che se ne impadronivano a titolo privato, e difendevano tale titolo (giuridico) mediante il
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controllo degli apparati statali (nella loro veste e funzione di repressione di ogni tentativo teso al sovvertimento di quest’ordinamento “legale”).
Affinché potesse venir meno la condizione della proprietà privata (dei mezzi produttivi) in quanto fondamento del vivere dei pochi sul pluslavoro dei molti, era necessario che l’uso (e quindi le direzioni d’uso) dei mezzi di produzione nei processi i cui erano impiegati tornasse sotto il controllo reale (quello formale-giuridico ne sarebbe stato soltanto la traduzione in regole organizzative particolari) di chi prestava il complesso del lavoro, sia manuale che intellettuale, esecutivo come direttivo. Il “por mano” alla produzione, da una parte, e, dall’altra, le “potenze mentali” (ivi compresa scienza e tecnica) che la strutturavano (tecnologia e organizzazione dei processi lavorativi) e orientavano (il ventaglio dei beni prodotti per soddisfare i vari bisogni) dovevano essere completamente riassorbiti, e riunificati, nell’ambito del corpo lavorativo complessivo, cioè in quel lavoratore (od operaio) collettivo (o combinato) di tipo cooperativo, di cui si è detto. Salvo che in un transitorio periodo, in cui sarebbero sussistite le cosiddette “contraddizioni all’interno del popolo” (Mao), sarebbe progressivamente venuto meno non ogni spirito competitivo, ma quella sua parte che spinge alla sopraffazione, al prevalere per vivere del pluslavoro altrui, dunque all’appropriazione privata dei mezzi produttivi.
Lo Stato, in quanto organo di coercizione e repressione, doveva sussistere solo per impedire sussulti delle classi spodestate (che mantenevano in particolare vasti legami con l’esterno della società in cui si fosse verificata la rivoluzione) e per assecondare l’esaurimento – il cui evolversi doveva però essere assicurato da meccanismi oggettivi intrinseci alla conduzione dei processi produttivi – anche delle ultima vestigia delle suddette “contraddizioni all’interno del popolo” (in definitiva, quelle tra braccio e mente, tra lavoro esecutivo e potenze mentali della produzione, ecc.). Il necessario coordinamento organizzativo generale della produzione complessiva di un dato sistema sociale (in pratica, un paese) non doveva per nulla essere imposto dall’alto, con la forza e la coercizione, da un particolare organo (pianificatore) dello Stato (inteso nell’accezione “classica” datane da Marx, Engels e Lenin, quale strumento di coercizione, repressione, ecc.). Si doveva trattare di un coordinamento effettuato da apparati adibiti ai più generali compiti organizzativi della società nel suo complesso; apparati che avrebbero significato, usando le ben note parole di Engels, “il passaggio dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo alla semplice amministrazione delle cose”. E questa “amministrazione delle cose” da parte di organismi di rappresentanza collettiva – situazione ammessa da qualsiasi marxista – non ha nulla a che vedere con lo Stato in quanto organo di repressione, di coercizione, quindi al servizio di una minoranza che punta a rimettere in sella lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
E’ solo da ricordare che l’unione tra braccio e mente caratterizzava la produzione artigianale, la quale era però subordinata ai poteri delle classi dominanti precapitalistiche; nel periodo di sua massima fioritura, dopo la dissoluzione degli ordinamenti corporativi, essa divenne piccola produzione mercantile (semplice) sottoposta alle leggi della competizione nel mercato con gli inevitabili processi di centralizzazione del capitale, cioè di espropriazione dei molti (diventati salariati) ad opera dei pochi (capitalisti). D’altra parte, la predicazione – proudhoniana e sismondiana – di difesa e di nuova espansione di detta piccola produzione mercantile era da Marx giustamente considerata reazionaria oltre che utopica, poiché avrebbe solo posto ostacoli, se avesse avuto qualche successo, a quel forte sviluppo produttivo, legato al progredire di scienza e tecnica, che era il presupposto decisivo per la realizzazione di una delle condizioni di base del comunismo: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Marx propugnava quindi un vero sviluppo della produzione – atta a soddisfare i bisogni umani, che sono per loro “seconda natura” estremamente elastici e in moltiplicazione inarrestabile – ottenuta però diminuendo al massimo il tempo e lo sforzo lavorativo dedicato a tale fine; che è pur sempre di “sopravvivenza materiale”, poiché quest’ultima non ha più molto a che vedere con quella degli altri animali, si è ormai allontanata irrimediabilmente da connotati “biologico-naturali” per assumere quelli culturali, che sono divenuti preminenti e sempre più lo diventano con accelerazione esponenziale.
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Pongo al lettore una semplice domandina (senza risposta per non entrare in polemiche spicciole): chi sono oggi gli equivalenti storici dei proudhoniani e sismondiani? Dove si situa oggi quello che Lenin, con riferimento ai populisti russi, definì romanticismo economico, di cui fece una critica serrata e, secondo me, ultragiusta, preliminare ad ogni tentativo di organizzare la rivoluzione anticapitalistica? Altrimenti, la gran massa della popolazione, ivi compresa quella dei grandi paesi del fu terzo mondo (vedi Cina e India), sceglie di fatto, magari senza nemmeno esserne ben consapevole, il capitalismo che si dimostra produttivamente molto più potente, malgrado sfruttamento, devastazioni, gravi crisi economiche, guerre, ecc.
Tornando indietro, quando il marxismo si incontrò con lo sviluppo del movimento operaio, soprattutto in Germania, apparve abbastanza evidente che non era in atto alcuna formazione dell’operaio (o lavoratore) combinato; la classe operaia, quella considerata il soggetto principale della rivoluzione proletaria mondiale (“proletari di tutto il mondo unitevi”), era fondamentalmente costituita dai lavoratori manuali. Il marxiano “ingegnere” non si univa al “manovale o giornaliero”, ma restava uno specialista borghese, un tecnico che conosceva parti sempre più sminuzzate delle “potenze mentali della produzione”, che si estraniava dalla gran massa del lavoro manuale e tendeva, pur con conflittualità varie (di tipo distributivo) nei confronti della proprietà capitalistica, ad accordarsi in definitiva con quest’ultima piuttosto che unirsi alla maggioranza del corpo lavorativo (operaio).
L’ortodossia marxista, formulata da Kautsky, dimenticò – ma bisogna riconoscere che non poteva far altro data l’endogena dinamica capitalistica così lontana da quella prevista da Marx – il lavoratore collettivo, l’operaio combinato, l’unione di braccio e mente, di esecuzione e direzione, ecc. Il soggetto della rivoluzione divenne la classe operaia, intesa come insieme di lavoratori manuali; in definitiva, le “tute blu” in fabbrica. Contrariamente alle dogmatiche aspettative dei marxisti (postMarx), via via che il capitalismo si sviluppava – pur, lo ribadisco, tra autentiche tragedie, quali lo sfruttamento bestiale (anche dei bambini), crisi devastanti, guerre varie, feroci repressioni dei “miserabili”, ecc. – andavano crescendo gli emolumenti salariali. Tale processo si innescò innanzitutto nel primo paese a sviluppo capitalistico – l’Inghilterra, proprio quel paese che aveva fornito a Marx gli elementi decisivi della sua analisi del capitalismo, con la previsione relativa alla formazione del soggetto collettivo della rivoluzione e della trasformazione del modo di produzione capitalistico in quello comunistico – ma poi, nel lungo periodo, si estese via via ad ogni altra area ad alto sviluppo capitalistico.
Ciò malgrado, i comunisti “occidentali” – che, per ondate successive, “tradirono” e diventarono socialisti “riformisti” (alla fine senza nemmeno più riforme) – continuarono (e i loro residui continuano tuttora) a enfatizzare il (e a puntare sul) conflitto tra classe capitalistica e classe operaia (lo ripeto: quest’ultima nulla ha a che vedere con l’operaio combinato), che gradualmente venne più modestamente e realisticamente denominato conflitto capitale/lavoro, mettendo così in mostra senza più veli il predominio della mentalità sindacale (della lotta per la semplice distribuzione della “torta” prodotta) su quella politica e rivoluzionaria. Solo il “revisionista” Lenin comprese che ormai la “Classe” (per antonomasia) si riduceva a chiedere maggiori salari ai “padroni” (che larghi settori di dominati cominciarono perfino a denominare “datori di lavoro”), rivolgendosi pure allo Stato di questi ultimi affinché attuasse politiche “sociali”, in grado cioè di preservare in buone condizioni il “parco buoi”, che – se troppo esaurito e sfruttato – non avrebbe più prodotto pluslavoro a sufficienza.
Da tale fondamentale constatazione nacquero le grandi intuizioni leniniane relative: all’alleanza tra operai e masse (generalmente contadine) dei paesi non ancora capitalisticamente sviluppati; all’utilizzazione strategica delle contraddizioni acute tra dominanti (in specie quelle geopolitiche tra paesi imperialistici tesi alla spartizione delle sfere di influenza nel mondo); allo sviluppo ineguale dei vari paesi capitalistici; all’anello debole (area in cui entravano in sfacelo le classi semifeudali mentre non erano ancora in grado di assumere la supremazia quelle capitalistiche scarsamente svi-
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luppate), in cui doveva inserirsi l’urto di una classe operaia, pur debole, alleata con grandi masse contadine in terribili condizioni di miseria (ma solo se esisteva la guida per orientare l’insieme); ecc.
Nello scontro violento in atto laddove il capitalismo era ben poco avanzato – e non si trattava solo di basso livello di sviluppo delle forze produttive né di sola esiguità della classe operaia esistente – non si poteva effettivamente procedere in direzione della “costruzione del socialismo”. Se ci si adattava alla struttura largamente precapitalistica del paese in cui “ufficialmente” il comunismo aveva preso il potere in nome del “proletariato”, si doveva “escogitare” la Nep di Lenin, o lanciare l’“arricchitevi” di Bucharin. In ogni caso, si ridava fiato alla “reazionaria” fioritura della piccola produzione mercantile (al “sismondismo”, al “romanticismo economico”) che avrebbe riproposto la centralizzazione dei capitali, ma non certo la nascita dell’operaio combinato, l’ormai solo mitica figura che avrebbe dovuto costituire, secondo l’originaria analisi (e previsione) marxiana, la condizione sociale di base della transizione alla proprietà (controllo e uso) realmente collettiva dei mezzi di produzione, carattere decisivo di un modo e di rapporti comunisti di produzione (e, lo ricordo, anche della realizzazione, non più solo formale, della libertà individuale predicata a parole dai liberali; con la “naturale” estinzione dell’organo di coercizione e repressione).
Se invece si forzava, come infine si fece, in direzione di un forte sviluppo industriale – sperando così nella larga formazione del soggetto pensato come rivoluzionario, la classe operaia, che lo sviluppo capitalistico aveva già dimostrato essere solo capace di lotte distributive, nient’affatto “comuniste” – non ci si poteva esimere dall’ampia utilizzazione di schiere di “specialisti borghesi” (che si formano assai numerosi anche dalle file dei “già operai”), con crescente potere di uno strato di “saintsimoniani” capitalisti-manager. Processo che in effetti si verificò e che fu causa non ultima delle “purghe” staliniane così come degli eccessi della “grande rivoluzione culturale proletaria” cinese, condotta da coloro che rilevarono – indubbiamente con ragione – che la “borghesia” rinasceva dentro le fabbriche e da qui si impadroniva dei vertici del partito. Notazione giusta, ma la risposta – “la classe operaia deve dirigere tutto” – fu disastrosa, perché tale classe non è il marxiano lavoratore collettivo, non è in grado di riunificare, nel corpo lavorativo complessivo, braccio e mente, esecuzione e direzione; non è in grado di esercitare alcuna egemonia ideologico-culturale. Per cui l’alternativa è solo: anarchia completa, in cui gruppetti di fanatici approfittano della situazione di caos precipitando il paese nella dissoluzione totale; ripresa in forze di una oligarchia che afferma dittatorialmente un ordine ed una ripresa organizzativa, orientandoli ai suoi interessi.
In entrambi i casi – “sismondismo” o “saintsimonismo”, che possono alternarsi pendolarmente – alla fine non resta che ricadere nella credenza, così odiata da Marx (e dal Lenin di Stato e rivoluzione), secondo cui gli interessi collettivi debbono essere affidati alla “tutela” dello Stato. Questo viene inizialmente pensato quale semplice “braccio armato” degli operai (o, meglio, della loro alleanza con i contadini degli strati poveri), atto a tenere sotto controllo – facendoli lavorare per fini, in ultima analisi, “comunistici” – sia i piccoli produttori mercantili sia i manager (specialisti) borghesi. E’ inutile che mi ripeta troppo in esteso: poiché la Classe ha i caratteri più volte ricordati, tali fini non vengono conseguiti; semplicemente si affida allo Stato il compito di essere il tutore della “società nel suo complesso”, ignorando bellamente gli interessi degli individui e conculcando le loro libertà. Si comincia a vaneggiare allora di “Stato di tutto il popolo”, autentica contraddizione in termini. Lo Stato – proprio quello costituito dai “distaccamenti speciali di uomini in armi”, ecc. – non si estingue, anzi si dilata e si rafforza. E poiché tale Stato non è una entità mistica, ma solo il condensato, la precipitazione, di flussi conflittuali tra gruppi dominanti per la supremazia complessiva, ne risulta rafforzato proprio quel compito statale che il marxismo pensava dovesse esaurirsi man mano che il lavoratore combinato avesse assunto i compiti decisivi della produzione sociale. Allora, ecco che i comunisti già marxisti diventano dei bei propagandisti del lassalliano “socialismo di Stato”, diventano cioè i “pasdaran” di una nuova oligarchia impadronitasi del potere, che essa esercita con coercizione e repressione e, in genere, con scarsa capacità di egemonia culturale. Tale
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oligarchia si dimostra quindi ancor peggiore della peggiore classe dominante capitalistica, che esprime al suo interno gruppi spesso in grado di esercitare anche tale egemonia.
E’ ovvio che il discorso dovrebbe continuare, anzi prendere più ampio sviluppo proprio a partire da quanto fin qui in fondo solo premesso (e che riguarda il marxismo in se stesso considerato, con le sue varie contraddizioni che lo hanno infine reso inefficace). Lo farò, penso in un lungo saggio sullo Stato. Adesso volevo solo spiegare i motivi della mia determinazione a non usare, se possibile, la denominazione di comunista, pur non rinnegando affatto quella lotta e quelle speranze, anzi essendone, nel complesso, orgoglioso. E’ però necessario ripensare veramente tutto. Non solo quindi “ripensare Marx”, ma anche “ripensare il comunismo”. Senza però ripetere questo termine con modalità solo taumaturgiche, sperando in una sua ripresa, facile e immediata, che non passi per la radicale riorganizzazione – implicante anche una larga distruzione – di tutto il “materiale” accumulato nell’esperienza storica di oltre un secolo e mezzo e, in particolare, in quella del XX secolo. Comunque, non intendo coltivare idiosincrasie inutili. Se qualcuno vuol ancora rilanciare la denominazione in oggetto, non rifiuto affatto contatti con lui. Rifiuto soltanto i dogmatici, i religiosi, quelli che non ammettono che c’è veramente da ripensare pressoché tutto. Chiedo solo questo atteggiamento di vera “libertà”.
E si deve tornare alla scienza, non più predicare i “buoni sentimenti”. Basta con i “veltronismi”, anche se “in salsa radicale”, di “rivoluzione globale”. Che i “buoni” si tolgano di mezzo al più presto; abbiamo bisogno di larghe schiere di “cattivi”. Lenin è il vero paradigma, lo spartiacque tra chi si autodefinisce soltanto nominalmente comunista e chi preferisce, al limite, soprassedere su tale termine, ma resta anticapitalista. Comunque, per quanto mi concerne, parlerò sempre volentieri con i leninisti autentici; gli altri mi saranno sostanzialmente indifferenti, pur se in certi casi non avversari, anzi talvolta perfino “compagni di strada” purché non siano troppo “buoni”, non si riducano ad amare “i bambini africani” e le “vecchiette sole”. E ovviamente, è appena il caso di ricordarlo, non mi parlino di Democrazia e Costituzione Repubblicana, di Verità ed Essere Umano, di Sofferenza del Pianeta Terra, di “frugalità agricolo-pastorale”, e compagnia cantando. Non ho nulla a che spartire con sentimenti del genere; per me, la bontà e generosità effettive, l’amicizia, sono ben altra cosa, e non c’entrano con la lotta per il comunismo in questo mondo.
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