ALCUNI MOTIVI (ANCHE STORICI) DELL’IMPASSE DELLA POLITICA (e spunti per nuove scelte)
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(9/2/10)
1. Dai sondaggi, letti anche su quotidiani che fanno riferimento alla maggioranza, le prossime elezioni regionali potrebbero finire con un vantaggio dell’opposizione (non dico come voti, ma come regioni prese) o almeno con un sostanziale pareggio (7 a 6 o per l’uno o per l’altro). Si parte certo da una situazione tale (11 a 2) per cui il centrodestra potrà comunque sostenere di aver conquistato qualche regione, tuttavia non si possono non trarre alcune ben precise conclusioni da un simile fatto. E’ vero che bisognerebbe aspettare il dato reale, ma mi sembra già significativo il semplice sondaggio, per le deduzioni che consente. Intanto, stando solo alle risultanze d’esso, si dovrebbe pensare che l’opposizione è abbastanza in buona salute. Eppure, è impossibile non accorgersi che il Pd è un non partito, un’accozzaglia delle più svariate cordate, un vero ammucchiarsi di cosiddetti dirigenti senza idee né progetti né capacità di dirigere. L’Idv è un insieme di accaniti forcaioli, solo uniti da quell’infezione devastante provocata dal virus anti-Berlusconi. Nessun barlume di intelligenza si segnala nemmeno dalla parte degli “insigni” intellettuali che vi hanno aderito e che per troppo tempo sono stati rispettati e resi “grandi” anche dai subalterni (culturalmente) del sedicente centro-destra (posso almeno dirmi soddisfatto di averli sempre considerati dei tromboni montati? Una vera corporazione “mafiosa”, di quelle i cui membri si incensano l’un l’altro pur quando si pugnalano fra loro). Sulla sinistra detta “radicale” o “estrema” risparmio parole, tanto dovrebbe essere chiaro che putridume è. Gli unici da rispettare, secondo la mia opinione, sono quelli, estremamente minoritari, de Le ragioni del socialismo; non perché sia d’accordo con la loro impostazione politica – soprattutto critico l’insistenza con cui si pretende di stare a “sinistra”, mentre andrebbe velocemente abbandonata l’ormai archeologica distinzione tra destra e sinistra – ma perché almeno parlano di politica, ragionano, inducono nel lettore la sensazione di onestà e coerenza.
Se questo è il quadro dell’opposizione (detta “la sinistra”), il fatto che non venga spazzata via alle elezioni significa che anche la sedicente “destra” non è in migliori condizioni. Infatti, non esiste come schieramento dotato di una sua coesione e unitarietà; pur essa è un confuso ammasso delle più diverse ….non idee, ma soltanto simpatie e antipatie. Come nella “sinistra” l’unico collante (e l’unico progetto) è l’anti-Berlusconi, nella “destra” è Berlusconi stesso. Non però perché lo schieramento sia compatto dietro a lui. Sappiamo bene quante idiosincrasie si manifestino nei suoi confronti anche a “destra”; tuttavia, nessuno dei destri può veramente farne a meno. Certuni si preparano alla successione, guardandosi in cagnesco fra loro, ma alla fin fine, per il momento, devono “abbozzare”, altrimenti le prendono sode pur da una “sinistra” sfatta e cotta. Ho già detto, nel mio precedente intervento, che tale quadro ormai squinternato e sfilacciato è la conseguenza di una transizione non mai compiuta per l’inettitudine dell’intero ceto politico succeduto alla devastazione compiuta da “mani pulite”.
Non si è potuta inscenare all’epoca una vera battaglia politica, nemmeno si è verificato un autentico colpo di Stato condotto da un gruppo dotato di preciso programma di direzione del paese; di conseguenza – tenuto conto che la maggioranza dell’elettorato non avrebbe mai votato i pur ormai ex “comunisti” (che tutto avevano rinnegato) e che è stato precisamente tale fatto a consentire l’intervento in extremis di Berlusconi, anche lui privo di coerente linea progettuale (gli ultimi avvenimenti lo dimostrano) – si è originata questa scadente (e pesante per il paese) recita di pessimi attori, che si ammassano alla rinfusa sul palcoscenico, urlando e spintonandosi per farsi largo, senza nemmeno un suggeritore in buca a sussurrar loro una qualche battuta di minimo buon senso. La controprova del pressapochismo di questo ceto che si finge politico è la presenza di uno sfrangiamento opportunistico dei due schieramenti, situatosi in un presunto “centro”. Un sedicente partito di patetici imitatori della vecchia Dc, i vari “capi” della quale, pur in costante attrito fra loro e adusi al trasformismo e al linguaggio ambiguo, possedevano comunque una loro consistenza “popolare” e un discreto fiuto delle varie congiunture.
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Se il teatro della cosiddetta politica è ormai ridotto ad un “carro di Tespi” fuori tempo, è evidente che i motivi di fondo risiedono in altri “luoghi” della società italiana. Azzardo qualche ipotesi, solo per cenni poiché il loro sviluppo esige riflessioni attente e lavori piuttosto lunghi, non certo da blog. Si tratta solo di alcune indicazioni; poi si spera che una nuova leva di storici e sociologi, non più condizionati dalle vecchie ideologie ormai sbrecciate, riescano a fornire quadri nuovi e più credibili. Intanto, sarà da studiare meglio l’involuzione (e poi crollo con abiura generale) del “comunismo”. Tale processo di sgretolamento ha infine condotto, in una parte del mondo, a formazioni sociali quali la Russia e la Cina, che nulla hanno a che vedere con le vecchie speranze comuniste, ma tuttavia non rappresentano una totale débacle e soprattutto una fine miseranda con putrefazione accelerata. In Italia, invece, si è prodotto proprio quest’ultimo processo; e il principale “merito” spetta a mio avviso alla svolta “moralistica” del Pci, poiché si è trattato di pura ipocrisia, della maschera indispensabile a coprire l’orrido volto ormai deturpato dalla corruzione e dal tradimento. Una svolta attuata dal “cattocomunista” Berlinguer. Dallo studio di quest’ultima dovranno risultare più chiare alcune cause rilevanti dell’odierno degrado della politica.
Intanto, il “cattocomunismo” non è né cattolicesimo né comunismo; è solo l’unione del peggio delle due ideologie, della viltà e miseria dei suoi moralisti privi di vera etica, solo “sepolcri imbiancati” che spargono “nero di seppia” per oscurare le menti degli adepti onde condurli alla più completa sprovvedutezza in politica, cosicché ne vengano facilitate le mene di dirigenti cinici, senza ideali né valori, adusi al raggiro, alle “manovre di corridoio”, ai complotti e “avvelenamenti”. In secondo luogo, secondo la mia opinione non va certo considerata positiva la funzione di Togliatti che, pur tenendo conto dei “Patti di Yalta” e della situazione mondiale da essi creata, ha comunque agito opportunisticamente preparando la degenerazione piciista; tuttavia, deve essere ben chiaro che, nel 1972 con Berlinguer, si è verificata una effettiva svolta radicale; momentaneamente ritardata con la successiva, debole e ambigua, segreteria di Natta, ma poi accelerata fino alla totale abiura e passaggio di campo con quella di Occhetto.
L’appena nominato passaggio di campo fu in ogni caso preparato da Berlinguer, di cui vanno ricordate le considerazioni svolte intorno al colpo di Stato in Cile; invece di porre un forte accento accusatorio sull’intervento americano (un’autentica aggressione sia pure per “linee interne”), il segretario piciista faceva quasi pensare ad un “avventurismo” di Allende, che avrebbe osato troppo, mentre fu proprio il contrario a perderlo; soprattutto l’incapacità (e forse non volontà) di affrontare il nodo essenziale – per qualsiasi Stato aspirante all’autonomia dai predominanti statunitensi adusi alla violenza – dei propri “corpi speciali in armi” (su questo punto, mutatis mutandis per carità, senza cioè alcun paragone tra l’onesto e coraggioso Allende e il premier italiano, si potrebbe comunque istituire qualche parallelo con il comportamento berlusconiano odierno, traendone insegnamenti decisivi per le possibilità di autonomia italiana1).
I veri eredi di Togliatti sono in definitiva stati i cosiddetti “amendoliani” (o “miglioristi” o come li si voglia chiamare) considerati l’“ala destra” del partito. Berlingueriani e cosiddetti “ingraiani” (una parte dei quali fu espulsa e, senza adesso seguire tutta la vicenda, confluì o fu comunque contigua al grande marasma e fangosità del sessantottismo e settantasettismo) non vanno messi insieme; tra loro vi fu indubbiamente polemica, ma nell’ambito di una corrente di fondo che è sfociata nella “sinistra” attuale, passando per l’abiura e la svendita a Confindustria e americani subito dopo il “crollo del socialismo”. Gli “amendoliani”, nell’insieme, hanno fatto una fine tutto sommato dignitosa da socialdemocratici; gli altri2 hanno creato la putredine odierna, l’appoggio ai settori capitali-
1 Sia chiaro che non è una sorpresa il discorso tenuto da Berlusconi in Israele. Senz’altro bisogna tenere conto che non esiste in Italia nessuna forza economica con centri strategici politici in grado almeno di pensare, anche solo pensare, una politica di indipendenza. Il premier è il rappresentante di classi dirigenti (si fa per dire) la cui pochezza risulta sempre più evidente. Torneremo sull’argomento.
2 E’ bene ricordare che fui radicalmente contrario alla “destra” del Pci, considerata neorevisionista (neokautskiana), ma per nulla schierato con gli “ingraiani” o i “manifestaioli”. Partecipai alle carnevalate dei vari gruppetti m-l (“filocinesi”), ma fui sempre scettico (o anche peggio) verso il ’68 e movimenti degenerativi successivi, che tuttavia di fatto appoggiai per ragioni tattiche, avendo sbagliato analisi circa il significato di quell’epoca di presunta nuova lotta
stici più reazionari e succubi di predominanti con tendenze “imperiali”, mentre le sempre più rare e inconsistenti critiche al capitalismo sono divenute puro reazionarismo antimodernista, umanesimo contrario alla scienza e tecnica in qualsiasi veste esse si presentino, velleitarismo comuni(tari)stico di stampo religioso, “medioevale”. Un discorso, comunque, già fatto altrove.
Altra questione, assai rilevante, su cui si è costretti a troppo rapidi cenni è quella dell’estensione del ceto medio, un vero concetto-ripostiglio com’è stato detto più volte e giustamente. Intanto, vi sono almeno sei milioni di cosiddette partite Iva, di lavoratori indicati come “autonomi” (quando l’autonomia è il più delle volte fittizia, ma comunque definisce uno status sociale, una condizione, una mentalità diversa da quella del lavoro dipendente). Tuttavia, si parla di ceto medio, ma esso è composto di innumerevoli strati a diverso livello di reddito e quindi di tenore di vita e di abitudini sociali. Di volta in volta, la presenza di questi ceti (assai differenziati tra loro, lo ripeto) – e l’alto numero di piccoli imprenditori – è stata presentata come un punto di forza o invece di debolezza della società italiana, del suo “sistema” economico-produttivo. Ricordo il famoso detto “il piccolo è bello” di altra stagione, in cui fior di tecnici e specialisti hanno imperversato con gli studi sulle reti di imprese, sui distretti industriali, ecc. Oggi, certe “mode” sembrano in ribasso (speriamo), ma non hanno depositato un’adeguata conoscenza dei rapporti sociali in Italia; mentre certamente simili settori sono molto importanti per capire la solidità o meno della nostra società, come si articoleranno i conflitti (di chi contro chi), le possibili convergenze tra ceti vari e diversificati. In che senso, ad esempio, si può ancora parlare di blocchi sociali, di possibili alleanze per trasformazioni progressive, ecc.?
2. Indubbiamente la consistenza dei suddetti ceti medi, costituiti di piccoli imprenditori e lavoratori “autonomi”, caratterizza in modo particolare l’Italia rispetto ad altri paesi a capitalismo avanzato; ed in ciò molti hanno voluto vedere la causa della maggiore arretratezza produttiva italiana, segnalata anche da ritmi di crescita (aumento del Pil) sempre inferiori a quelli di molti altri (e della stessa media europea). Il periodo che ci aspetta, prospettandosi con molta probabilità quale sostanziale stagnazione (con deboli impennate e bassi ritmi di crescita), dovrebbe sfoltire quest’insieme di strati sociali eliminando ovviamente i più deboli e sbriciolati, vero “terriccio da riporto”. Nell’insieme, tuttavia, credo che tale parte della società italiana non sia il suo vero punto debole: né economicamente (in quanto non è certo la causa della bassa crescita) né socialmente. Il principale fattore di debolezza e pericolo di disgregazione sociale sta nel cosiddetto settore “pubblico”, nella sua completa inefficienza, nel suo essere una palla di piombo al piede. Poiché buona parte di tale settore è alimentato dal Sud, esso costituisce pure un fattore di pericolosa disunione nazionale, che mina gravemente la società complessiva.
Credo assai poco alla facile polemica sui “fannulloni”, un diversivo pericoloso. Più grave mi sembra l’assenza di precisi poteri disciplinari attribuiti ai vertici delle burocrazie pubbliche (statali, regionali, ecc.), che dovrebbero però essere responsabilizzate, punite e sostituite qualora poi dimostrino incapacità direzionali (la conduzione di certi servizi essenziali sembra molto più che carente; si pensi alle ferrovie quale semplice esempio). Su punti come questi è certamente rilevante la conoscenza specifica dei vari settori, la scelta di tecnici capaci e, dunque, l’individuazione dei criteri di scelta e di valutazione del lavoro svolto. Tuttavia, vi è un fattore più decisamente politico, che non può essere disgiunto da più essenziali considerazioni sociali. La sfera del pubblico è indubbiamente pletorica; se poi vi si aggiungono tutti i settori (e strati sociali) che “pescano” nell’attività di tale sfera, credo si possa dire che la quota di società che di essa vive è enorme (non so adesso quantificare, ma credo si tratti di almeno un terzo e forse più).
Si è detto che tale processo è servito da ammortizzatore sociale, essendo data la debolezza strutturale dell’economia italiana che ha richiesto fattori d’intervento pubblico per sostenere l’occupazione (e dunque poi, per gli ideologi keynesiani di sinistra, i consumi, pensati quale fattore decisivo
neoleninista (e antirevisionista) – giacché il maoismo aveva per me questo senso – mentre si trattava in realtà degli “ultimi bagliori (poco luminosi) del crepuscolo” di un “comunismo” ormai finito e consunto totalmente.
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per l’economia), soprattutto con riferimento al Mezzogiorno. La vecchia “questione meridionale”, che oggi fa acqua da tutte le parti (salvo che a portare acqua alla suddetta disunione nazionale), è servita da ideologia di supporto a questa “scusa” per l’eccessivo accrescimento dell’impiego pubblico e per l’inefficienza dell’intero apparato. Il fattore appena richiamato è stato un effetto e non una causa dell’incredibile distorsione del sistema sociale, più che economico, italiano. La reale causa – che richiede però analisi ancora più a monte – è stata la motivazione politica dell’allargamento abnorme della sfera pubblica. Allargamento che è pure causa del veloce accrescimento della spesa dello Stato, costituita per la maggior parte dagli stipendi per il personale; assai meno, pochissimo, per i veri servizi resi, per investimenti “infrastrutturali”, per innovazione e ammodernamento dell’apparato onde rendere migliori e più efficienti i servizi, ecc. La spesa pubblica si è impennata contestualmente all’impennarsi del debito pubblico (dimostrazione che, in ultima analisi, questo dipende da quella), su cui tutti strepitano, ma che continua ad aumentare; nel mentre si sono accettati restrittivi parametri “europei” per il tristemente famoso rapporto deficit/Pil, ma anche da questo lato non mi sembra si riesca a risolvere in radice la questione, salvo danneggiare pesantemente l’economia e indebolire il tessuto sociale a causa della pesante pressione fiscale, di cui si promette sempre l’alleggerimento senza mai mantenere le intenzioni perché incapaci, fra gli altri motivi di inconsistenza decisionale, di resistere alle pressioni europee sul Debito Pubblico1.
Debbo purtroppo correre, per la schiavitù dello spazio e la sempre più scarsa abitudine della “gente” a leggere. Comunque, la crescita della spesa (e del debito, ecc.) è stata motivata solo secondariamente dalla reale necessità degli ammortizzatori sociali (malgrado l’enfatizzazione della Cassa integrazione, ecc.). Tale crescita ha, per l’essenziale, seguito il corso del famoso “consociativismo”, quando Dc e Pci hanno dato vita al “compromesso storico”. Ma il consociativismo, guarda un po’, è susseguente alla svolta moralista (“cattocomunista”) del Pci di Berlinguer; quel moralismo che è stata la mascheratura dell’abiura di tale partito, del suo lento distacco dall’est e del suo avvicinamento …. non all’“occidente democratico” come si favoleggia ideologicamente (ideologia stupidamente sostenuta dagli anticomunisti viscerali della “destra”, che così si castrano da soli) bensì alla predominanza americana, preparandosi adeguatamente alla svolta e alla svendita del “dopo crollo del socialismo”, avvenute però, appunto, non per via politica ma servendosi di un apparato dell’abnorme sfera statale, in cui la sinistra, grazie al suddetto “compromesso” con la Dc, aveva piazzato una quantità spropositata di suoi adepti.
Man mano che il Pci preparava il suo rinnegamento e si avvicinava agli Usa, sempre più la Dc doveva cedere spazio a questo partito. Ci si è stonata la testa con i tentativi di colpo di Stato di una destra tipo “colonnelli greci” o “generali argentini o cileni”. Mentre così si distraeva la nostra attenzione, si è approntato – tramite una torbida stagione di misteri e di inganni fuorvianti (con stragi e assassinii, ecc.) – il futuro colpo di mano. Se avevo capito io, fin dagli inizi degli anni ‘70 (e non mi feci “rimbambire” dal presunto rinnovamento gorbacioviano!), l’ormai probabile involuzione e fine del “socialismo”, tanto più lo comprendevano gli americani, che predisponevano le loro pedine, fra le quali decisiva fu quella del Pci. Chiediamoci che cosa, fra l’altro, ha caratterizzato il compromesso storico: la suddivisione della sfera pubblica tra i vari partiti (ivi compresa quella occupata dai media; è del 1979 la nascita della terza rete TV). Ciò avvenne sotto la regia (subordinata a quella degli Usa) della nostra Confindustria, quella guidata dai settori più parassitari (e sempre assistiti dallo Stato pur figurando tra i privati) del nostro capitalismo, Fiat in testa.
Si badi bene: a parte la “ristrutturazione parziale” di questo campo industriale (privato) dopo la seconda guerra mondiale (sparirono di fatto i Volpi di Misurata, i Pesenti, certo prima ancora i Marinotti e via dicendo), erano rimasti pezzi importanti (appunto Fiat in primo luogo) di quelli che avevano “voltato gabbana” il 25 luglio 1943, alimentando un falso antifascismo che, proprio in con-
1 La lotta ai fannulloni è un vero diversivo, fumo negli occhi gettato per nascondere questa “strutturale” incapacità della “destra”, malgrado tutte le polemiche contro la “sinistra” per il suo (effettivo e condannabile) lassismo, che è però almeno motivato da meschine convenienze elettoralistiche, poiché i “pubblici” votano in gran parte per essa e forniscono ampie quote di esagitati per le sue manifestazioni.
comitanza con la svolta berlingueriana del Pci, prese sempre più il sopravvento su quello che lo era stato veramente, quello dell’autentica Resistenza, quello – incredibile a dirsi oggi, ma finalmente l’abbiamo capito – cui erano rimasti tutto sommato più fedeli i “destri” del Pci, gli “amendoliani”, i filosovietici. Mentre i peggiori opportunisti si annidavano tra gli “estremisti”, i filo-tutto: filo-Mao, filo-Dubcek, filo-Walesa, filo-Gorbaciov. Una gran massa di cialtroni e pasticcioni, truppe di riserva che hanno sempre rifornito le fila del Pci trasformato dal berlinguerismo, passato infine apertamente con gli Usa e la Confindustria dopo il “crollo del muro” via colpo di mano “giustizialista”; e con pieno recupero, in posizione dominante, di certi settori di finto “azionismo” (gli Scalfari, i Ciampi, ecc.), che furono all’origine dello smantellamento dell’industria pubblica e che sono ancor oggi contro Eni, Finmeccanica, ecc. già indebolite quanto a presenza della mano pubblica. Avete capito di chi parlava pochi anni fa Guido Rossi quando, in uno sfogo di rabbia, parlò dell’imprenditoria italiana come di “Chicago degli anni ‘20”? E anche Bernabé – per 24 ore, dopo essere stato tradito nelle sue aspettative di difesa della Telecom da parte del potere politico (e della Direzione del Tesoro) contro i “dalemiani capitani coraggiosi” – ebbe uno scatto di ribellione, ma poi tacque “provvidenzialmente” (non per noi).
3. Ebbene, proprio il consociativismo gonfiò a dismisura i settori pubblici, li rese pletorici, inefficienti; perché erano in effetti carrozzoni elettorali in cui gran parte del ceto politico – al servizio del capitalismo arretrato italiano, rimasto privato – entrò in sempre più accentuata dipendenza dagli Stati Uniti (via Nato), che già si preparavano alla sconfitta del “socialismo” accentuando la presa sul nostro paese. In parte, il fatto fu colto da Craxi che – proprio come oggi Berlusconi – non era affatto “nazionalista”, non fece il bel gesto di Sigonella per orgoglio italiano; reagiva soprattutto allo schiacciamento da parte dei settori filoamericani della Dc e del Pci. Adesso, si capisce meglio perché tentò di tutto per salvare Moro, mentre Dc e Pci facevano finta di voler preservare la dignità dello Stato contro ogni trattativa con i “terroristi”. Craxi sapeva qualcosa in più di noi su quella faccenda; e, immagino, anche su come Moro avesse tentato addirittura, alla fine degli anni ’60, la penetrazione del nostro capitale in alcuni paesi sudamericani, basandosi sull’amicizia con il cileno Frei, che poi però – dopo essere stato sconfitto da Allende nel 1970 – passò apertamente con gli Usa e fu connivente e complice del colpo di Stato militare. Moro probabilmente stava tentando altre strade.
Adesso capiamo pure meglio perché gli “amendoliani” fossero i meno anticraxiani fra i piciisti. Dopo una breve parentesi (con Natta, che direi fosse un “centrista”, brava persona d’ottima intelligenza e cultura ma forse poco incisivo politicamente), dovuta ad una “casualità” storica, l’ictus di Berlinguer, il Pci fu saldamente nelle mani delle “nuove generazioni” – quelle della sua più veloce trasformazione – con Occhetto. Se non ricordo male, passava per “sinistro” o quasi; verso di lui erano in effetti assai blandi i vari settori “manifestaioli” e simili. Anche oggi questa torbida “sinistra”, cui aderiscono tutti i più meschini e presuntuosi intellettuali già ultrarivoluzionari, è il covo delle “vipere”; l’antiberlusconismo sfegatato, quale unico “programma”, si accompagna allo “spirito” antifascista dei voltagabbana (non certo quello della Resistenza).
Torniamo a noi (ma quanto bisognerà ripensare quel periodo degenerativo della storia della sinistra italiana, e delle classi “dirigenti” cui essa si vendette e collegò); la pletorica inefficienza degli apparati pubblici è legata appunto al compromesso tra Dc e Pci, soprattutto favorito e promosso dai settori capitalistici meno attivi, sempre aiutati dallo Stato (oggi finalmente si comincia a sostenerlo più scopertamente per quanto riguarda la più parassita delle aziende italiane: la Fiat!), sempre proni di fronte allo straniero (Usa) e pronti al compromesso con i sindacati (vedi accordo sulla scala mobile del 1975), i cui vantaggi sociali non erano certo l’obiettivo principale, poiché quest’ultimo fu invece l’accordo tra “padroni privati” e certi settori del lavoro salariato sindacalizzato, in contrasto con la piccola imprenditoria e con l’industria “pubblica”.
Si trovarono pure, ben remunerandoli (non solo e non tanto in denaro), molti “specialisti” e intellettuali di “sinistra” (anche finto-radicale) che predicarono certe “alleanze”. Si pensi ai piciisti
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della “scuola di Modena”, i neoricardiani o sraffiani (entrati in gran parte nei sindacati, ormai apparati di uno Stato prevalentemente assistenziale infarciti di inetti maneggioni); oppure agli “operaisti” che propagandarono la “qualità totale”, il famoso (per l’espace d’un matin) “toyotismo”, di una Fiat sempre ben sorretta dall’aiuto statale, quello dell’ormai consolidato compromesso storico. Per alcuni anni, i risultati “attivi” di simile impresa dipesero dagli alti rendimenti dei Bot e altri titoli di Stato posseduti, che coprivano le perdite della vera gestione aziendale; ad un certo punto venne estromesso Ghidella, industrialmente molto preparato, e prevalse il “finanziere” Romiti (su decisione di Gianni Agnelli; a dimostrazione del fatto che questa famiglia di “capitani d’industria” è stata quasi sempre assistita dallo Stato). La scusa fu la diversificazione dell’attività del gruppo, la realtà era l’“ammanicamento” con il ceto politico del compromesso storico.
Craxi si agitò per sfuggire alla tenaglia tra Dc (in specie una parte) e il Pci. Tuttavia, a mio avviso (ma ribadisco che occorreranno ricostruzioni storiche diversamente orientate), non è stato molto lucido strategicamente. Sia chiaro, non l’ho mai considerato un ladrone, e mi sono infuriato allora – come m’infurio oggi per il modo disonesto (direi quasi criminale) di far politica degli antiberlusconiani – con i beceri moralisti (senza morale) del periodo consociativista. Il leader del Psi, nel momento finale della sua carriera politica, lanciò la sfida in Parlamento, chiedendo si alzasse chi aveva il coraggio di negare che tutti i partiti prendevano “tangenti”; e nessuno si alzò. Del resto, queste tangenti vanno per lo più assimilate a delle intermediazioni commerciali. Provo avversione profonda – o disprezzo per gli imbecilli che seguono sempre i moralisti imbroglioni – quando al posto della polemica e critica politica si mette la condanna morale, l’attacco personale per sedicente corruzione, ecc. Negli anni ’60 – ben prima del consociativismo – sapevo “alcune cosette” anche di dirigenti “non bassi” (politici e “amministrativi”)1 del Pci. Mai ho polemizzato con essi (io m-l e loro “revisionisti”) su questioni che non fossero politiche; e mai ho pensato che fossero corrotti, poiché non lo erano, alcuni di essi essendo semplicemente dei bravissimi e concreti amministratori.
So l’obiezione: alcuni dirigenti di partito hanno intascato personalmente i soldi, si sono fatti il “tesoretto”. Mi arrabbio ancora di più e ancor più provo disgusto per i dirigenti piciisti (moralisti senza morale) e disprezzo per la massa di mentecatti costituente il “popolo di sinistra” (quel ceto medio semicolto, abituato ai ritmi e “ninne-nanne” della sfera pubblica o assistita comunque dallo Stato, “piccolo-borghesi” rimbecilliti e spesso inutili, solo capaci di blaterare senza dare un gran contributo alla società). Qualsiasi capo politico di un livello elevato deve mettere da parte il famigerato “tesoretto” – meglio se riesce ad aggiungervi una documentazione adeguata a ricattare, se del caso, chi lo può distruggere; ciò al fine di almeno mitigare, ove possibile, la sua “aggressione” – perché può andare incontro a sconfitte definitive, che in quell’ambito si pagano duramente. Capita di essere assassinati (come Kennedy, mettiamo); allora non servono né denaro né documenti. In altre evenienze, ci si deve rifugiare all’estero o essere sottomessi a processi (Craxi e Andreotti, ad esempio). In tal caso, denaro (e documenti; e anche relazioni personali, amicizie utili e magari potenti, che continui a mantenere nel paese d’origine e presso Stati stranieri) servono, non bastano mai. Se ripari in uno Stato “amico”, l’amicizia dura finché hai da dare; e i suoi apparati e servizi segreti ti proteggono finché hai da dare. Imbroglioni (dirigenti) e sciocchi (seguaci “piccolo-borghesi”) sono quelli, di “sinistra” (i piciisti post-1972), che non lo capiscono e anzi fanno finta di non capire.
4. Ribadisco invece che Craxi mi è sembrato limitato strategicamente. Si è difeso, soprattutto dall’attacco piciista, ma non ha capito le manovre di spostamento di campo di tale partito. Quando è
1 Del resto ero sempre in contatto con l’azienda industriale di mio padre; e non ho per nulla trovato disdicevole tentare di condurre in porto un paio di “affaretti” per essa, utilizzando le amicizie politiche di quei tempi. Andarono male entrambi per la maggior forza della “concorrenza” (anche in termini politici). Tuttavia, la corruzione non c’entrava proprio per nulla. Le mediazioni sono necessarie come in qualsiasi affare; e chiamarle “tangenti”, e starnazzare al proposito, non cambia la sostanza del problema, se non quando dietro vi sono date forze “oscure” che manovrano per compiere un colpo di Stato soltanto mascherato, usando un apparato pubblico forgiato in un dato modo durante un lungo periodo precedente di preparazione in attesa dell’eventuale occasione, offerta dagli eventi del 1989-91.
“caduto il muro”, si è esaltato, ha creduto che ormai il socialismo riformista avesse vinto sul “comunismo”. Non ha afferrato che non di comunisti si trattava, ma di gentaglia ormai preparata da circa un ventennio all’abiura e al tradimento, quindi a divenire i migliori referenti – in quanto rinnegati, sempre ricattabili – degli Stati Uniti e della Confindustria agnelliana. E Craxi non fu attaccato per Sigonella o per qualche contrasto, certo vivace, tra lui e Agnelli. Vi era tutta una politica, che settori di Psi e di Dc avevano sviluppato – non moltissimo, ma anche quel poco dava fastidio (come ha dato fastidio Berlusconi almeno dal 2003 fino al recentissimo viaggio in Israele; adesso si vedrà) – verso est e verso i paesi arabi (e perfino, come sopra ricordato, in direzione del “giardino di casa” degli Stati Uniti). Andreotti capì assai meglio di Craxi che la sua funzione era finita; era di “umor nero”, dopo il 1989, e si permetteva di rimpiangere apertamente il mondo bipolare, in cui l’Italia aveva un ruolo tale da permetterle qualche sgarbo verso i predominanti statunitensi.
Il Psi del periodo craxiano difese in qualche caso l’industria “pubblica”; si pensi a quando fece saltare la svendita della Sme a De Benedetti (presidente dell’Iri in quel periodo: Romano Prodi). Tuttavia, ho l’impressione che spese maggiori energie nell’aiutare la crescita di una fascia di imprenditorialità privata (di cui fece parte anche Berlusconi), nel tentativo di ridimensionare quella più “antica”, quella più implicata nel “rodere” il “formaggio” dell’aiuto statale e che, con tutti i media (e venduti intellettuali “di sinistra”, anche “estrema”) a sua disposizione, riuscì a far credere che fosse l’industria “pubblica”, soggetta alla politica, a costituire la palla di piombo al piede della “sana” imprenditorialità “privata” italiana1. Il povero Cagliari, nominato presidente dell’Eni nel 1989 su indicazione socialista, fu fatto fuori quattro anni dopo con la solita accusa di “tangenti” pagate per acquisire commesse alla Nuovo Pignone (azienda del gruppo); pur se non era certo la carica presidenziale a fare di lui il reale dirigente – e dunque responsabile – delle politiche dell’azienda. Ma eravamo ormai alla resa dei conti (dopo il “crollo del muro”), che vide fra l’altro l’ormai ben nota riunione (“privatistica”) sul panfilo Britannia.
In effetti, forse fu per impossibilità oggettiva (la tenaglia rappresentata da parte della Dc e dai piciisti del “cambio di campo”): in ogni caso, solo la difesa e l’uso ben più spregiudicato e risolutivo dell’industria pubblica avrebbe potuto scompaginare il campo “privato” (e “antifascista laico”, di cui ho già detto più volte), da sempre – dalla seconda guerra mondiale (ma anche da prima, se si pensa alla costituzione dell’IRI, e a ciò che seguì quando un anno dopo furono invitati a farsi avanti “i privati”, che rifiutarono) – i veri roditori del “formaggio” italiano. I nuovi settori privati, il cui sviluppo fu coadiuvato con decisione dai socialisti craxiani, sono diventati una realtà rilevante, e tuttavia – sempre secondo la mia opinione – di carattere non gran che strategico. L’errore di calcolo dei mandanti di “mani pulite” (gli stranieri dominanti e gli italiani che li servono per loro esclusiva utilità), commesso in relazione all’evidente impossibilità che una gran parte della popolazione votasse forze politiche egemonizzate dal piciismo “salvato”, ha per fortuna condotto al fallimento il progetto di una completa subordinazione del paese. Tuttavia, ha solo favorito settori non strategici e con un seguito di avvenimenti che hanno portato in primo piano un personaggio non interessato realmente, a quanto sembra, alla nostra indipendenza.
Ne è seguito il quasi ventennio di “bagnomaria” (in acque marce e maleodoranti), con la vittoria (semplicemente elettorale) ora degli uni ora degli altri, senza aver mai preso con decisione un vero
1 Come semplice esempio, rilevo che già a quei tempi si riuscì a far passare l’Eni come Ente di Stato, in perdita perché solo dedito al foraggiamento della politica (e semplice carrozzone buono per assunzioni comandate da quest’ultima), salvato dal “genio” di Bernabè (amministratore delegato dal 1992 al 1998) tramite un’ampia “privatizzazione” operata negli anni seguenti alla “riunione sul panfilo Britannia”, per fortuna non ancora portata al compimento. Qui si vedono i guasti dell’ideologia del liberismo mercatista che crede di giudicare tutto in base ai risultati economici di una gestione. Così ragionando, nell’ottocento Germania e Usa sarebbero rimasti succubi del predominio industriale inglese. Certe operazioni, in perdita economica per un periodo non brevissimo, sono fondamentali per l’affermazione strategica di un certo “sistema” complessivo. Invece, si fece passare la perdita per dissesto tout court dovuto al predominio degli ambienti politici “predoni”, mentre i veri parassiti tipo Fiat – o le imprese pubbliche smembrate e svendute ai privati – sarebbero state la via maestra della rinascita italiana, che non si è vista; anzi l’economia si è afflosciata viepiù. E tutto questo fu fatto credere con l’aiuto della propaganda battente della sinistra, anche di quella “radicale” (in specie di estrazione “operaista”, meglio se “torinese”, con gli “antifascisti bobbiani” in primo piano).
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indirizzo accompagnato dalla convinzione di poter svolgere una funzione “regionale” (d’area) di una certa importanza. Nel 2003 – per motivi su cui si possono solo azzardare ipotesi non verificabili – ci fu una piccola svolta verso est, che adesso sembra in buona parte esaurita. Il tutto però con lo sgretolamento delle nostre prospettive industriali – i cosiddetti “poteri forti” si sono divisi e indeboliti, ma cercano di trascinare tutti nel loro sostanziale fallimento, legandosi sempre più strettamente ai predominanti Usa – cui è correlativa una putrefazione completa della politica, ormai veramente assente dall’infausta epoca del colpo di mano giustizialista. Si è consentito il più totale inganno della popolazione da parte di vecchie e consunte dicotomie: fascismo (berlusconiano) e antifascismo (dei peggiori traditori della storia italiana), comunismo (ormai finito da tempo e reinventato da scadenti maneggioni e venduti) e anticomunismo viscerale (e maschera di un autentico reazionarismo e razzismo vecchia maniera).
Questa situazione di stallo e marciume è frutto velenoso dell’operazione del 1992-93; ma, secondo me, va ascritta all’assenza di reale strategia sia dei furbastri e “galleggianti” democristiani sia di un Psi cooptato al potere (con Nenni e immediati successori), che conobbe l’impennata craxiana cambiando marcia, ma credo con corto respiro strategico. Questa corrente politica non sviluppò una sufficiente difesa (lo ripeto, forse per impossibilità oggettiva, dovuta alla tenaglia Dc-Pci) del settore economico “pubblico”, sotto attacco da parte dei voltagabbana dell’antifascismo sedicente azionista (in realtà solo opportunista) postosi da lungo tempo al servizio degli Usa e dei “privati” parassiti tipo Fiat (non si deve enfatizzare il ruolo di un De Benedetti). Grave fu poi la totale incomprensione della svolta e (mascherato con lenti spostamenti fino al “crollo del muro”) cambiamento di campo dei suoi peggiori nemici: i piciisti, che iniziarono la loro “vile marcia” con la segreteria Berlinguer.
Va comunque ammesso che nessuno – tanto meno noi “antirevisionisti” piuttosto patetici e fuori tempo – capì quel che stava accadendo; e difficilmente lo si coglierà nel suo effettivo significato poiché non credo si sveleranno mai i segreti intorno agli eventi drammatici degli anni ’70 e di parte degli ’80. Se c’è stata “mani pulite” – ed oggi, pur con mascheramenti e travisamenti vari, trapela la sua origine, si intuiscono i suoi mandanti e la giravolta a 180° di una certa parte politica – si comprende almeno una cosa: la trama di quegli eventi “misteriosi” non ebbe un carattere troppo diverso, trattandosi degli anticipatori del colpo di mano giudiziario. Certamente ci furono diversità poiché eravamo nel mondo bipolare, con la sorda lotta tra i due campi, di cui uno era ormai in forte perdita di velocità e con sotterranee nette divisioni al suo interno che lo disgregavano; tuttavia, lo ripeto, le differenze non furono eccessive. Mani pulite – non per l’opera dei magistrati, per carità, per i mandanti stranieri e italiani già più volte indicati – è stata la veloce precipitazione, in “salsa italiana”, di quanto avvenne, con eguale rapidità, nel “socialismo reale”. Non ci furono fucilazioni alla “romena”, ma altre “liquidazioni” alla tedesco-orientale e dintorni; e con opportunisti, e autentici traditori, come nelle sedicenti “repubbliche popolari”.
5. Tiriamo le fila di questo discorso non ordinato né esauriente; solo per spunti nella speranza che altri sappiano, ma soprattutto vogliano, riprenderlo e approfondirlo, magari con maggiore coerenza. Gli eventi storici italiani, per la loro configurazione specifica, non hanno condotto allo sfascio totale che ha contraddistinto certi paesi del campo detto socialista, ma nemmeno hanno consentito la vera uscita da una ormai troppo lunga stagione di incipiente trapasso, che mai si è realizzato. La debolezza strutturale del nostro paese si è instaurata per il ripetuto aborto di molte prospettive che avrebbero potuto realizzarsi solo in presenza della capacità di conquistare una nostra indipendenza, almeno in una certa misura.
La pretesa di trasformazione sociale – che fu della vera Resistenza (comunista), non certo di quella del tradimento – è fallita perché il mondo è stato diviso secondo confini tracciati ad Yalta. Del resto, è doveroso dire che essa sarebbe stata indirizzata male a causa degli errori legati ad una ideologia già fortemente invecchiata all’epoca della seconda guerra mondiale, che è sopravvissuta grazie alla potenza dell’Urss e ha conosciuto ulteriori sussulti positivi solo durante le guerre di libe-
razione nazionale, e di abbattimento della colonizzazione di vecchio tipo, per tre decenni susseguenti alla guerra1.
In secondo luogo, non si è stati capaci di difendere adeguatamente una forte industria pubblica, formatasi nel corso della nostra particolare storia. Ricordo che il problema non è – come pensano le ideologie della “destra” e della “sinistra” che oscurano tutto – quello della proprietà statale o privata; non c’entra il regime giuridico. Importante è il settore specifico, di carattere strategico, in cui – per eventi storici sempre caratterizzati da alti gradi di casualità, poi però rafforzati o invece indeboliti dall’azione di forze (e perfino di individui) dotate di dati progetti e indirizzi – si era installata in Italia una parte non indifferente dell’attività economica. Tale settore era quello a regime pubblico, che lo rendeva utilizzabile da parte di forze interessate all’indipendenza, purtroppo non del tutto abili nell’indirizzarlo, una volta morto Mattei. Mentre il regime giuridico privato ha interessato imprese ad alto livello di dipendenza dallo straniero, e incapaci di reggere motu proprio, sempre invece dipendenti da aiuti politici (non però di centri strategici, mancanti in Italia, bensì delle varie lobbies tipiche della sedicente democrazia “occidentale”).
Mentre l’industria pubblica languiva progressivamente, venendo poi in buona parte smantellata, perdurava e si accentuava l’anomalia causata dal compromesso storico; pur se questo era ormai finito, la già segnalata situazione di stallo e di equilibrio tra schieramenti privi di un effettivo programma politico prolungava la “malattia” tipicamente italiana: quella di un abnorme gonfiamento dell’impiego pubblico, unito all’assistenzialismo per una parte non indifferente delle attività economiche, soprattutto grande-imprenditoriali private. Non ci si scordi però nemmeno dell’innaffiamento continuo di attività inutili (spesso dette culturali), di fondazioni e istituti di tutti i generi, anche di ricerca del tutto cervellotica e demenziale. E così pure gran parte dei fondi di ricerca dati alle varie Università (e la stessa disseminazione “a cascata” delle stesse, la moltiplicazione delle sedi come degli insegnamenti, ecc.) ha seguito i criteri della divisione tra i diversi “magna-magna”, cui ha dato così forte impulso il compromesso Dc-Pci. In tal modo, il pubblico, che una volta significava anche la presenza di settori strategicamente importanti, divenne sinonimo di solo parassitismo ed inefficienza: lo Stato detto erroneamente “sociale” fu principalmente “assistenziale”. I cosiddetti ammortizzatori sociali furono il mezzo del compromesso e di mediazioni al ribasso, riservandosi pur sempre rispettive quote di partecipazione al saccheggio (via statale) della ricchezza prodotta da strati non certo maggioritari della popolazione. E tutto ciò perdura oggi senza sosta.
La lotta ai “fannulloni” è certo un diversivo e assai negativo; pone su un piede del tutto sbagliato quella che invece dovrebbe essere la lotta al gonfiarsi dei settori (impiegatizi) pubblici, al crescente assorbimento di risorse per pura spesa stipendiale (con la difficoltà di investimenti e ammodernamenti degli apparati). Si impedisce la tanto conclamata, da sempre, riduzione del Debito Pubblico (cui si “addebitano” una serie di negatività che stanno altrove, nelle cause e non certo negli effetti), l’abbassamento del rapporto deficit/Pil (idem come appena affermato). La spesa pubblica non può
1 Credo sia sostanzialmente una coincidenza, ma certo pur sempre indicativa. L’ultimo di questi sussulti positivi, guidati da movimenti ufficialmente definitisi comunisti, è stato quello del Vietnam, che si concluse realmente nel 1975 (pur se la sua sorte era già decisa dal 1973). Nel settembre 1976 morì Mao e, un mese dopo, si verificò la svolta radicale che mise definitivamente termine ai tentativi maoisti di spazzare via il “revisionismo” e iniziare una nuova fase rivoluzionaria nella presunta transizione (al socialismo e comunismo). Nel 1972 si verifica la svolta (berlingueriana) che accelera il processo di completo tradimento e rinnegamento del suo passato da parte del Pci, che si sposta sempre più verso “occidente” (cioè gli Stati Uniti), contestualmente all’annacquamento del rivoluzionario pensiero di Gramsci (operato da vergognosi e intrallazzatori intellettuali della sinistra radicale, tuttavia coadiuvati da una falsa interpretazione, solo culturale, da parte di alcuni intellettuali di destra). Un processo certo mascherato a lungo, che si accelera solo con il crollo del muro e il lancio di “mani pulite”, avendo le spalle ben protette dagli ambienti americani – che manovravano il “pentito” Buscetta e la mafia, sempre stata un’organizzazione legata agli Usa (vedi sbarco in Sicilia, vedi uccisione di Mattei, vedi azioni “convincenti” per favorire l’installazione della base militare a Comiso, ecc.), e che sempre viene utilizzata per delegittimare chi è inviso ai suddetti ambienti – e dai loro “segugi” posti nella Confindustria. In quegli anni si gioca la vera svolta strategica che prepara la vittoria del campo capitalistico (subordinato agli Usa) e un giogo più duro per il nostro paese (e sono i cosiddetti “anni di piombo”, passati alla storia come periodo denso di atti criminali compiuti dai “rossi” e, in subordine, dai “neri”; quante prese in giro!).
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diminuire finché almeno un terzo della società vive d’essa, e difende con i denti le sue posizioni, appoggiata e da sinistra (prevalentemente) e da destra (la parte ex An e dintorni, magari quella che si definisce sociale, ma pensa solo ai suoi adepti infilati nell’Amministrazione pubblica). Non a caso, è alla sinistra e a questa parte di destra che va la stragrande maggioranza dei voti degli addetti alla sfera pubblica; e ci va per conservare lo status quo.
Inutile, più che dannoso, prendersela con la presunta poca voglia di lavorare, per di più sempre attribuita specialmente alle popolazioni meridionali. Si alimenta la disunione nazionale oltre che accentuare la polemica tesa a conservare l’esistente, succhiatore della ricchezza prodotta. Il sovrannumero – unito certo alla scelta dei dirigenti (assai pochi i capaci) con i criteri della spartizione tra schieramenti (criteri quale retaggio del consociativismo) – crea disorganizzazione e scarsa distinzione di ruoli e compiti, ostacola e paralizza qualsiasi tentativo di valutare meriti e apporti. A questo punto, il rendimento (la “produttività”) degli addetti cala assai più rapidamente dell’accrescimento del loro numero; e allora si grida alla carenza degli organici, soprattutto dove i compiti sono più gravosi e richiederebbero criteri di selezione più duri e più differenziate retribuzioni.
Allo stato attuale cui siamo giunti, è innanzitutto evidente che tale sfera è quella dell’impiego pubblico, non certo dell’industria pubblica, sottoposta a martellamento e poi smantellamento da parte di forsennati liberisti, avanguardia dei pirati e avvoltoi di quella privata. Dall’altra parte, i sedicenti keynesiani – puri statalisti (e di sinistra, ex piciisti) per la triste “memoria inconscia” del socialismo identificato come proprietà statale dei mezzi produttivi – una volta rinnegato il passato difendono semplicemente lo Stato detto sociale, che ha avuto tanti meriti e va difeso nei suoi servizi alla popolazione, ma non certo per l’assurda spesa sostenuta ai fini del mantenimento di uno stuolo “infinito” di impiegati, per pagare tutto sommato profumatamente dirigenti quasi sempre poco capaci, per finanziare strati sociali improduttivi e imprese private sempre “in questua” (paradigma la Fiat, malgrado adesso reciti la parte virtuosa dei “piani industriali” e non dei semplici incentivi, per potersi liberare di una serie di stabilimenti e ridurre il personale).
6. Quindi, niente lotta ai fannulloni, soltanto motivo di irritazione e incitazione alla difesa di posizioni conservatrici e di inefficienza spendereccia. Ridurre all’osso gli incentivi, l’assistenzialismo, introdurre la meritocrazia e i poteri disciplinari di competenza dei dirigenti, che vanno però allontanati qualora si dimostrino incapaci di svolgere i loro compiti. Tuttavia, dopo decenni di totale gonfiamento, consociativista, di tale settore, si è di fatto costituito un “blocco sociale” che deve essere neutralizzato ai fini dell’avanzamento del paese. E non lo si neutralizza con gli escamotages, con decisioni ad effetto “pubblicitario”, che aiutano le resistenze al cambiamento radicate da decenni e decenni, e che hanno quindi creato una mentalità, un costume, perfino la convinzione di diritti ormai acquisiti per sempre. L’impiego pubblico è inoltre il principale bacino di voti di una sinistra allo sbando completo, solo capace di agitazione moralistica e giustizialista (e diretta contro singole persone), di gossip e infamie varie nel mentre nemmeno pensa ad una qualsiasi linea politica (salvo essere sempre per quella scelta di campo “occidentale”, cioè filo-americana, iniziata nel 1972 e attuata rapidamente nel 1991-92, in questo seguita da una parte consistente della destra, ben oltre la componente aenneina); risulta allora evidente la grande difficoltà di mettere ordine in tale settore sociale.
Lapalissiana mi sembra l’esigenza di individuare una politica in grado di costituire un blocco sociale ben diverso; e che tuttavia non scateni pregiudiziali crociate (tipo appunto la “trovatina” dei fannulloni), non implichi un antimeridionalismo preconcetto e lesivo degli interessi di fondo (strategici) del paese, che deve essere invece unito in una fase storica come questa. Non c’è altra scelta che iniziare un lavoro, difficoltoso e lungo, per raggruppare in alleanza ampi strati (diciamo inferiori e medi, di gran lunga i più numerosi) dei lavoratori dipendenti (salariati) e “autonomi” (e piccoli, minimi, imprenditori). Operazione, pure questa, estremamente difficoltosa poiché per troppo tempo si è alimentato un reciproco astio tra le due grosse parti del lavoro produttivo, per motivi fin troppo noti e su cui quindi non mi dilungo. Il divide et impera è finora riuscito. La sinistra, ed in specie i
sindacati – sempre in difesa del lavoro salariato e pronti a facili campagne di denigrazione contro gli evasori fiscali, mettendo in un unico calderone proprio i lavoratori “autonomi” – vi hanno contribuito come pochi altri.
Sinistra e sindacati (anche quelli detti “di base”) hanno cercato semmai di collegare le diverse parti dell’impiego pubblico – base essenziale del mantenimento di queste reazionarie organizzazioni – alle più vecchie generazioni del lavoro salariato per attaccare appunto il lavoro “autonomo” (non ci si scordi che i dipendenti pensionati rappresentano più della metà dei sindacalizzati nella Cgil e Cisl e una grossa quota nella Uil). La “destra” (quella non An) ha risposto in modo puramente antitetico, enfatizzando la presunta “libera iniziativa” degli autonomi, facendo sempre promesse in tema di riduzione della pressione fiscale, mai mantenute in un modo o nell’altro: adesso vi è la scusa della crisi, superata o invece ancora pericolosa a seconda delle convenienze legate ad una politica improvvisata e contraddittoria a causa della frammentazione e sconnessione di quell’ammucchiata, che vorrebbe far credere d’essere una compatta forza di governo. E’ evidente che sinistra e destra (la parte di quest’ultima che innalza la bandiera liberista, senza nemmeno sventolarla troppo) si dedicano ad un gioco assai dannoso, quello che ho definito il gioco degli specchi, accentuando appunto il dissidio tra gli strati subordinati della popolazione in modo da mantenere, ognuna, il controllo di una parte d’essi. Controllo ottenuto in assenza di una qualsiasi seria politica, eccitando appunto la reciproca animosità di ceti che si pensano avversi fra loro quando invece sono egualmente “bastonati” e “sfruttati”.
Proprio per questi motivi, che hanno una lunga e perversa storia alle spalle, sarebbe necessario agire per “vie traverse”; non si può riuscire, nel più immediato futuro, a riunire lavoro autonomo e salariato (i loro strati inferiori e medi), disgregando invece il blocco del cosiddetto impiego pubblico, in modo da recuperare anche i gradini bassi di quest’ultimo ad un’alleanza con gli altri due. Sarebbe necessaria la presenza di centri politico-strategici oggi inesistenti, possibilmente “infiltrati” anche nei “corpi speciali”, onde spostare i rapporti di forza in senso sfavorevole ai gruppi dominanti. Chi ancora pensa in termini di subitanea contrapposizione tra dominanti e dominati o è un illuso o appartiene invece a quei gruppetti di politicanti truffaldini (alcuni di loro si pretendono addirittura comunisti) in cerca di un minimo seguito elettorale per procurarsi nuovamente posizioni ben remunerate mettendo a sacco la ricchezza prodotta. Bisogna allora inserirsi nel conflitto, che sempre sussiste tra i gruppi dominanti per affermarsi quali principali protagonisti; un conflitto che si sviluppa certo principalmente sul piano internazionale – tra varie formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.) – ma che trova ripercussioni di varia natura e grado d’acutezza sul piano interno di tali formazioni.
A causa degli eventi seguiti alle trame del capitalismo privato (quello che ha alimentato sempre la politica dei sedicenti antifascisti non resistenziali) – riunione sul “Britannia”, “mani pulite”, svendita dei settori economici “pubblici” ai “privati – ci troviamo in una situazione di estrema debolezza. Ci si ricordi che anche l’azienda italiana di punta, per ciò che concerne una possibile strategia d’autonomia, cioè l’Eni, è stata ampiamente privatizzata e indebolita dal Governo Prodi. Oggi solo il 30% spetta al “pubblico” (Cdp). Inoltre, pur avendo Berlusconi sostituito Mincato con Scaroni dopo l’incontro con Putin in Sardegna nel 2003 (evento “misterioso”, checché se ne dica), è ovvio che tale azienda, del tutto decisiva, non ha un gruppo dirigente come quello di Mattei, capace di identificarsi fortemente con i destini d’essa e con una sua politica di piena indipendenza.
Da quell’estate 2003, e fino all’“oggettino” scagliato in faccia a Berlusconi, la politica di una parte della destra – in tutta evidenza avversata dalla sinistra del “tradimento” filoamericano ma anche da una sua parte consistente, direi maggioritaria – ha avuto aspetti tali per i quali “noi” l’abbiamo apprezzata. Oggi sembra esserci, anzi c’è di sicuro, una drastica svolta. Teniamo comunque presente, se non vogliamo essere ingenui, che – nell’epoca sempre più chiaramente multipolare in cui tutto ci dice stiamo entrando – assisteremo spessissimo a brusche giravolte dei diversi protagonisti, senza spesso capirne i motivi reali. Superficiale, e rozzo, l’atteggiamento dei “contestatori a tutto campo”, per cui i dominanti sono pur sempre d’accordo fra loro. Non voglio qui riportare le sprezzanti frasi lenininiane contro l’estremismo infantile, poiché la situazione odierna e assai diversa da
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quella – purtroppo letta attraverso lenti pesantemente deformate dall’ideologia sedicente comunista – dell’epoca in cui visse e agì il comunque genio della rivoluzione (non proletaria, ma comunque profondissima e vastissima, con effetti, nient’affatto compresi, che giungono fino all’attuale fase storica).
Semplicemente, parto dal fatto che non esiste la “lotta di classe” (tra classi antagoniste, e sempre due soltanto essendo quelle decisive), non esiste nemmeno quella delle generiche “masse lavoratrici” contro il capitale (versione di ripiego della precedente), non esiste quella delle “masse diseredate” (dei “miseri e scalzi”) contro le nazioni potenti del mondo, altro mito di autentici “pezzenti” incapaci di un retto ragionare senza “miti e magie”, senza religiosità elevata a Dio o invece, in pochi casi, calata nella miseria (morale e intellettuale) dell’Uomo, questo Dio in sedicesimo di tutti gli utopisti, che andrebbero condannati allo spernacchiamento continuo.
7. Della lunga catena, e della fitta rete, di rapporti che avvolge il globo – e partendo dal “punto d’osservazione” in cui è situato chi sta pensando e/o agendo in un certo modo – si deve afferrare l’anello più debole, la porzione d’ordito che sembra la più lacerabile. Spesso si può fare molto poco, comunque ci si illude grandemente; tuttavia, o stiamo a “contemplare” oppure ci agitiamo il meno scompostamente possibile, non come l’individuo afferrato dal terrore perché caduto nelle sabbie mobili. Malgrado tutti i dubbi che noi stessi nutriamo, qui in Italia dobbiamo partire in ogni caso da alcune considerazioni preliminari e, credo, essenziali. Dall’inizio degli anni ’90 – dopo il crollo del “socialismo”, tutte le mene dei traditori filo-confindustriali al seguito di ambienti americani, le operazioni di “colpo di Stato” mascherate da Giustizia e da lotta alla corruzione, la svendita dell’economia pubblica, ecc. – si è prodotta, per i motivi adombrati più volte, una situazione di stallo, di bagnomaria, di putrefazione, in cui la vera politica è scomparsa.
Dopo una prima fase, in cui sembrava trionfare la vocazione “imperiale” dell’unica superpotenza rimasta, si è entrati in una timida, ma via via meno debole, corrente multipolare. In questo contesto, si è prodotta nel 2003 una – anch’essa timida e debole – svolta nella politica estera condotta da alcuni settori della “destra”, che noi abbiamo valorizzato contro i rinnegati e traditori della sinistra. Pur non essendo minimamente nazionalisti, né per “Dio, Patria e Famiglia”, abbiamo capito che bisognava portare il nostro piccolissimo sostegno a quei segnali di conflitto tra dominanti, una parte dei quali (debole ancora) agiva comunque, oggettivamente, per gli interessi della formazione particolare italiana. Pur conoscendo benissimo, da lunga data, l’ideologia sottesa alla distinzione “pubblico-privato”, ci siamo schierati per il “pubblico”, da considerarsi quello strategico ai fini della nostra autonomia per ragioni storiche specifiche relative al nostro paese. Abbiamo però criticato quel “pubblico” costituito dall’insieme degli impiegati del settore, fattore di crescita di una spesa pubblica che assorbe buona parte della ricchezza prodotta invece di utilizzarla per investimenti produttivi e, soprattutto, per potenziare le nostre capacità di autonomia nel mondo; mentre abbiamo visto con favore il “pubblico” rappresentato dai settori economici di valenza strategica, in lotta con quelli di un’industria “privata” (non tutta ovviamente, ci rendiamo conto della necessità di operare opportune distinzioni) che rappresenta la classica palla di piombo al piede, ma è, soprattutto, la “quinta colonna” del nemico “imperiale”.
Solo pochi gruppi politici però – fra l’altro quasi sempre visibili tramite un’unica personalità – hanno condotto per 6 anni circa una politica di cauta autonomia, con moltissime contraddizioni da noi denunciate perché dimostrazione dell’inesistenza di una reale strategia pensata e perseguita con prudenza ma anche decisione. Oggi, lo ripeto, sembra essersi esaurita quella fase, quella capacità. D’altra parte, quest’ultima, nell’ambito di un conflitto tra gruppi dominanti, esige la formazione di una rete di precisi rapporti di forza all’interno dei “corpi speciali in armi”; e i pochi gruppi politici suddetti, visibili tramite un solo individuo, non hanno mai saputo (o anche voluto?) affrontare seriamente il problema1. Attualmente, lo ripeto, sembra che quella politica sia arrivata alla fine, con la
1 E’ ovvio che, specialmente se si intende agire con forte determinazione, non ci si può affidare a “corpi speciali” di al-
tri paesi, soprattutto con minore influenza nel nostro di quella che hanno gli Usa o Israele; detto fuori dai denti, non si è
giravolta compiuta in Israele e l’atteggiamento di aperta rottura verso l’Iran2.
Saremo critici e anche duri, ma mai ci sposteremo nuovamente verso la criminale “sinistra”, che per prima è passata di campo (e abbiamo visto con quali graduali spostamenti, poi acceleratisi una volta caduto il “socialismo”). Intendiamoci bene: con singoli individui si può parlare, trattare, concordare; ma non con lo schieramento di sinistra. Esso però è senza dubbio duplicato da gran parte di quello di destra (il gioco degli specchi); ecco il perché della situazione di stallo e di totale imputridimento del paese. D’altra parte, Berlusconi è uomo senza principi, che bada “al sodo” (cioè agli interessi), privo di visione strategica, oscillante e incerto. Sembra, in certi atteggiamenti, un ostinato, uno che non si arrende mai; in realtà è un novello “italo Amleto”, non ha alcun coraggio à la De Gaulle, personaggio in possesso di una visione netta di lungo periodo (del resto oggi abbandonata dai dirigenti francesi di ogni parte politica). Comunque non ci interessa un singolo individuo, ma certamente l’atmosfera mefitica di questo “occidente” di puri servi.
Chi tale non si sente, cominci – e senza più destra e sinistra, altrimenti resti ancora a meditare – a coagulare e sedimentare delle forze, che devono compiere un serio lavoro di analisi della fase storica in cui siamo. Diciamo senza remora alcuna: chi ha voglia di utopia, di grandi pensieri per il lontanissimo futuro di una generica Umanità tutta Buona e Migliore, resti lontano da noi. Chi vuol semplicemente salvare il pianeta dalle devastazioni dell’uomo (in minuscolo), stia alla larga. Noi esigiamo la politica, le scelte; partendo però dal primo anello da tirare. Quindi, iniziamo con il difendere, nel conflitto tra dominanti, la parte oggettivamente “antimperiale”; e, sul piano interno, coloro che potenziano settori strategici o quanto meno non li indeboliscono, non scendendo a meschini e cincischiati compromessi con il capitalismo più arretrato, più succhiatore di risorse produttive senza rendimento adeguato: non semplicemente economico. Non ci faremo irretire dai discorsi sui vantaggi del “libero mercato” per tutti gli individui (possessori di azioni, in realtà per quelli che sono i reali capitalisti), sulle perdite di gestione, che certo non dipendano da pura incapacità, bensì da scelte coraggiose lanciate in avanti “nel mondo”, ecc.
Non siamo ingenui. Nessun potente è “progressista” (nel senso dell’appoggio a trasformazioni sociali che incidano sul suo potere di dominio e di decisione); non lo è nella sua lotta contro i suoi “simili”, né sul piano interno di una data formazione particolare né su quello mondiale. Tale ovvia constatazione non ci interessa più che tanto nell’attuale contingenza, che vede – dopo la fine del mondo bipolare e dei miti della Classe e della Lotta di Classe o delle Masse – ripresentarsi una fase storica avviata, sembra abbastanza stabilmente, in direzione del multipolarismo (ancora non policentrismo). Assisteremo alle più incredibili giravolte e passaggi di campo, tipiche della lotta tra gruppi dominanti. Tuttavia, in ogni paese, ci saranno settori di questi ultimi (e spesso veri blocchi sociali reazionari, “vandeani” o “bianchi”) che agiranno da “quinte colonne” del predominio della potenza ancor oggi in vantaggio; settori assimilabili, lo ripeterò ancora molte volte, agli junker prussiani e ai proprietari cotonieri del sud degli Usa, per i loro interessi servi della predominanza inglese
in grado di usufruire dei servigi russi (a buon intenditor poche parole).
2 A questo proposito, lasciando poi i commenti più vivaci a G.P., segnalo il nuovo verminoso manifesto pro-filoamericani iraniani, ancora una volta firmato da “prestigiosi” intellettuali di un lerciume raramente visto. Questa volta, si sono smascherati anche quelli che i “movimenti no-global”, i “moltitudinari”, ecc. hanno per idoli e che essi seguono come tanti ebeti (ma perché sono giovinastri marci, già corrotti fin da giovanissimi). Dico con la massima nettezza che nemmeno apprezzo moltissimo i critici alla Vattimo o alla Losurdo. Il primo continua a stare con un “agitatore” filoamericano da sempre qual è il “capo” dell’Idv; il secondo insiste sull’ormai putrefatta distinzione destra/sinistra, ormai chiaro strumento dell’antifascismo traditore di cui ho detto più volte. Se restano su simili posizioni, fra un po’ di tempo rischiano di ritrovarsi quali firmatari di un qualche manifesto pro-“occidentali” (cioè egemonizzati dagli Usa). Mi dispiace, ma ho poca comprensione per individui che insistono su questa strada; temo possano costituire le riserve dei prossimi tradimenti, poiché certamente il tradimento (e rinnegamento di ogni principio) non è scelta puramente soggettiva, dovuta a nequizia d’animo, ma è la logica conclusione di un percorso caratterizzato dall’errata valutazione della nuova epoca, dalla cieca ostinazione a non rompere definitivamente con la pura maschera di ciò che un tempo lontano fu corrente politica e ideale valida e nell’insieme positiva. Se si insiste nel non comprendere che il mondo è cambiato, non si può non fare la fine del personaggio interpretato da Mastroianni nel film Allonsanfan. E’ un percorso obbligato; solo l’intelligenza del mutamento storico radicale, della fine di tutti i miti del XX secolo, può salvare dal tradimento.
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nella prima metà ‘800. E ci saranno invece i dominanti interessati alla “industria nascente”, ci saranno i “gloria, gloria alleluja” che dovranno – in ciò risiede la nostra speranza attuale, di fase – schiacciare alla fine i “dixie”. Tutto lì. Per noi difendere l’Eni (e simili), pur sapendo quanto sarà difficile e forse inutile, è stare con l’“Unione” contro i “Confederati” della Fiat o delle banche, della Confindustria e Abi in genere. E non siamo gli sciocchi cui si inumidiscono gli occhi sentendo nominare Lincoln, credendo che volesse liberare gli schiavi! Noi leggiamo e rileggiamo la grande lezione di Sersmith, il dentista (Antologia di Spoon River, Einaudi, p. 70).
Precisa linea strategica e precisa linea tattica; di questo vi è bisogno. Senza illusioni di sorta. Non vi è al momento alcuna forza economica, alcuna forza politica che ci sostenga; soprattutto, non esiste alcun reale centro di potere strategico (dotato di energia e contatti anche internazionali) cui far riferimento. E’ dunque necessaria un’attenta analisi della fase, che infatti è già iniziata da tempo, dalla creazione del blog (prima, lo ricordo, era Ripensaremarx). Da tale analisi si è andata via via formando in noi la convinzione che la prima mossa da compiere, il primo anello da tirare, è l’autonomia nazionale, senza alcuna enfasi per la Nazione, per i Nostri Ineluttabili Destini e altre “manie” varie. Più semplicemente: di necessità, virtù.
Non abbiamo però scordato la necessità di difendere lavoro dipendente e “autonomo” in vista della formazione di un nuovo blocco sociale maggioritario, che dovrà essere del tutto diverso da quello dell’impiego pubblico; poiché quest’ultimo, pur se non in toto (ma non ci si deve fare soverchie illusioni nel breve periodo), è purtroppo divenuto, oggettivamente e quasi organicamente, la base di scelte comportanti il degrado del paese, il suo indebolimento internazionale e l’asservimento agli Usa. Non si tratta di demeriti individuali (se non in minima parte, e soprattutto per quanto concerne il vertice dirigenziale); è il retaggio del processo storico che abbiamo sunteggiato per cenni. Quest’ultimo ha portato alla sinistra che conosciamo oggi, quella del tradimento, della genuflessione di fronte al paese “in fregola” di dominio imperiale (pur con varie tattiche). Questa sinistra, e di fatto anche la destra (oggi al gran completo, se si conferma la “svolta israeliana”), sono reazionarie, compiono mosse tese ad indebolire gli avversari di tale nefasto paese.
Tuttavia, la possibile creazione del blocco tra strati (medio-inferiori) del lavoro dipendente ed autonomo è processo di lunga lena. Sarebbe irresponsabile, per perseguire un obiettivo del genere, trascurare quel po’ di politica internazionale, che potrebbe condurre ad una diversa posizione del nostro paese nello scacchiere mondiale. Per questo, si deve formare un’aggregazione di difesa – in modi che vanno studiati – di nostre imprese strategiche, in primo luogo l’Eni (già tanto indebolita proprio dalla sinistra che insiste tuttora nel voler completare l’opera iniziata dal governo Prodi, seguendo le indicazioni del “fondo Knight Vinke”, puro vessillifero degli Usa tesi a colpire la Russia). Quindi bando alle chiacchiere: la sinistra, tra le forze politiche, resta il nemico fondamentale. Sul fronte economico, i nemici principali stanno annidati in Confindustria e banche “weimariane” (non è affatto un caso che sinistra e destra finiana guardino a Draghi o Montezemolo al posto di Berlusconi). Fin quando l’attuale premier insisterà nel suo voltafaccia, sarà anch’esso dello stesso stampo. Ne terremo conto, sapendo però sempre distinguere tra ciò che è principale e ciò che è secondario (pur sempre rilevante).
E adesso, al lavoro. Senza grandi speranze (perché siamo dei moscerini nemmeno tanto fastidiosi), ma non c’è altro da fare; a meno di non volersi vendere, a ondate successive, come quei pezzenti e miserabili di intellettuali, che vediamo agire da semplici invertebrati. Per non incorrere in questo laido destino, la prima mossa è: peste e corna alla criminale sinistra (e ai suoi intellettuali sicari), politica estera rivolta ad est (e sud, nel senso del mondo arabo), politica interna di difesa dei brandelli rimasti di industria “pubblica”; chiarendo però che cosa significa per noi il pubblico e il privato nella fase storica presente (niente concessioni al liberismo mercatista né allo statalismo quale pura illusione ideologica, reazionaria quanto il primo).