Appendice a “Fuori dal marxismo come religione”
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1. Sintetizzo solo alcuni punti essenziali, affinché il lettore se li rinfreschi. Il passaggio al capitalismo – avvenuto, almeno inizialmente, dalla società feudale europea (con buon anticipo in Inghilterra) – è stato caratterizzato, pur se non lo si è riconosciuto, dal trasferimento del conflitto (tra strategie applicate da gruppi di dominanti) dalla sfera politica (e da quella ideologico-culturale) alla sfera economica. E’ stato tale conflitto la causa decisiva – anche su questo punto negletta – della rottura di ogni ordinamento precedente (corporativo in campo artigianale) con formazione di tante unità produttive in lotta in quello che è stato denominato mercato. Quest’ultimo è quindi un prodotto del conflitto e si è via via ampliato a causa d’esso; il mercato non è affatto lo spazio, regolato solo successivamente mediante mera azione giuridico-formale (da parte delle istituzioni), in cui si sviluppa la “libera” competizione. Fin dall’inizio, non vi è stata alcuna “mano invisibile”, non si è sviluppata l’appena nominata “libera” competizione, come cianciano ancor oggi gli ideologi dei dominanti. Si è sempre avuto il pugno chiuso degli agenti strategici in combattimento fra loro; è stato tale pugno – a volte foderato di “guanto”, a volte con le sue “dure nocche” – a forgiare il cosiddetto mercato. In esso, ovviamente, il prodotto ha assunto la forma di merce che ha contemporaneamente conosciuto la sua duplicazione nella forma del denaro, con le sue varie figure monetarie.
Il conflitto strategico tra dominanti in società precapitalistiche (nelle già indicate sfere politica e ideologico-culturale) andava incontro spesso a strozzature per mancanza di mezzi; i suoi “costi” (trascurando qui quelli in uomini) potevano divenire insostenibili, conducendo quindi alla sconfitta qualcuno dei contendenti oppure all’esaurimento del conflitto per carenza pressoché generale dei mezzi in questione. Nel capitalismo, essendo il conflitto entrato nella sfera economica (duplicatasi in quella produttiva e in quella monetario-finanziaria), il dinamismo da essa così assunto – con innovazioni in crescita esponenziale, grazie all’accelerazione impressa anche alla scienza e alla tecnica, ecc. – ha reso l’alimentazione della lotta in ogni sfera sociale assai più abbondante con situazioni di strozzatura molto più difficili e rare. Duttile è in particolare la (sotto)sfera finanziaria, ma è evidente che, da sola, questa non fornisce i mezzi reali del combattimento nelle sue forme più decisive, quelle della politica in senso proprio (con la sua rilevante “appendice” bellica). D’altronde, la duplicazione dell’economico in produttivo (di merci) e finanziario (“produzione” di denaro nelle sue varie figurazioni monetarie) ha provocato la netta scissione delle due sottosfere con tutti gli svariati squilibri, e accelerazione degli stessi (crisi), su cui non mi soffermo in questa sede, dato che si tratta dei fenomeni (quasi i soli) ben noti e studiati; pur se generalmente poco conosciuti in quanto sia gli ideologi dei dominanti, sia i “critici radicali”, sono di una superficialità sconcertante e si lasciano solo abbagliare dai fenomeni finanziari (e di borsa, ecc.), che vedono come l’essenza o dell’efficienza capitalistica o dei mali incurabili che affliggono la moderna società.
Importante è invece sottolineare che tale duttilità dell’economia, nel rifornire di mezzi il conflitto, l’ha posta al centro dell’attenzione; in pratica essa è stata pensata come sfera ormai dominante nella nuova formazione sociale, in grado di asservire a sé le altre. Di conseguenza, il passaggio dal precapitalismo al capitalismo è divenuto nelle varie teorie il passaggio dalla dominanza del politico-ideologico alla dominanza dell’economico. In molti casi, si è anzi teorizzata direttamente la dominanza della sottosfera finanziaria, che presenta fenomenicamente la massima flessibilità. Non sto adesso a diffondermi su tutte le svariate deformazioni ideologiche cui ha dato origine una simile concezione, molto in voga presso le più “brillanti” elaborazioni marxiste, ad esempio quella di Hilferding, ma pure in moltissime altre di ben diverso orientamento. I marxisti sono stati infatti abbondantemente seguiti in questo dagli ideologi dei dominanti; anche oggi, del resto, si continua con questa sviante ideologia, perfino con l’aggravante di insopportabili sermoni sull’etica dei finanzieri, ecc. Non parliamo di tutte le sciocchezze ammanniteci dai “geniali” scopritori del signoraggio, la più sciatta delle imbecillità di finti critici anticapitalistici (tromboni paludati di “quattro cognizioni” da imbonitori).
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Comunque, pur se non certo con simile sciatteria, la dominanza dell’economico in quanto base, e la subordinazione ad esso della politica e dell’ideologia quali sovrastrutture, è stata sostenuta dallo stesso Marx. Sempre ricordando che egli, a netta differenza degli ideologi “borghesi” e di quelli “critici critici”, non ha mai trattato la questione in termini di mere quantità economiche (produttive e finanziarie), ma sempre invece nella forma della riproduzione dei rapporti sociali, con riguardo preferenziale però a quelli della sfera in questione. Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo1.
E’ evidente in Marx la centralità dei rapporti, ma anche della sfera economica – non certo quella finanziaria bensì quella produttiva – che “sottomette” a sé gli ambiti della politica (lo Stato in primo luogo) e delle ideologie. Cruciale è quindi nel marxismo, come già considerato più volte, la proprietà dei mezzi produttivi e il principio della razionalità economica, il principio del minimo mezzo, che sarebbe dovuto essere il lascito “benevolo” del capitalismo alla futura società già in crescita nel suo ventre. Ricordiamoci che per Marx la rivoluzione sarebbe stata la levatrice di un parto ormai maturo; nessuna utopia comunitaria e nemmeno alcuna velleità di “ingegneria sociale” alla Fourier, Owen, ecc., bensì una realistica considerazione di dinamiche capitalistiche in atto, che tuttavia non hanno preso la direzione da lui prevista, con tutte le conseguenze oggi note ma non ancora conosciute.
La trasformazione storica – che ha condotto all’introduzione del conflitto strategico nella sfera economica, dove ha preso, nella mente degli ideologi, l’edulcorata connotazione di concorrenza, soprattutto in base a costi e prezzi; una competizione dunque “virtuosa” – è avvenuta all’inizio principalmente, come largamente risaputo, in Inghilterra. Le sue forme fondamentali sono state le enclosures, che vedevano crescere di importanza settori sociali di piccola nobiltà in via di “imborghesimento”, e la piccola produzione mercantile (“semplice”) in mano ad artigiani via via sciolti dagli ordinamenti corporativi, forma socio-produttiva da cui nacque la manifattura quale via privilegiata per la successiva “rivoluzione industriale”. Nella manifattura – e Marx sostenne giustamente che le prime manifatture erano soltanto botteghe artigiane allargate – si forma in senso proprio la borghesia: non più quella dei mercanti, gruppo sociale che subisce l’involuzione e il ritorno a forme di parziale infeudamento, bensì quella propriamente produttiva, dove proprietà dei mezzi per produrre e funzione direttiva dei processi produttivi (propiziata dal possesso delle potenze mentali della produzione) sono intimamente interconnesse.
E’ precisamente la seconda funzione (la direzione), una volta liberatasi dei vincoli corporativi e lanciatasi nella concorrenza alla ricerca dell’“arricchimento” (profitto in quanto plusvalore, che è pluslavoro nella sua nuova forma storico-sociale), a dar vita al dinamismo intrinseco alle forme produttive in senso stretto (processi lavorativi) con le “distruzioni creatrici” provocate dalle ondate innovative via via legate allo sviluppo scientifico-tecnico (soprattutto nel corso della “seconda rivoluzione industriale”). Una volta attratta l’attenzione dello studioso e pensatore (anche quella di Marx) dallo sviluppo produttivo – di cui, lo ripeto per i più sordi, i dominanti e i finti critici del capitalismo considerano solo l’aspetto cosale (strettamente inerente all’economia) mentre Marx e il vero marxismo ne considerano il lato riproduttivo dei rapporti sociali – la funzione proprietaria sembra perdere sempre più importanza nel corso dello sviluppo in oggetto. Noto subito, perché è già un indizio dell’esistenza di capitalismi diversi, che per Marx, interessato al capitalismo borghese inglese, il proprietario diventa progressivamente rentier mentre di contro a lui si leva ormai
1 Questo è ciò che nel saggio principale ho indicato quale primo disvelamento, scoperta essenziale di Marx, che fu di rilevanza straordinaria all’epoca; e che solo il dogmatismo degli epigoni, incapaci di pensare il marxismo come scienza con sua riduzione a dottrina chiesastica, ha reso sterile nel corso del XX secolo, con la fine miseranda dei “marxisti” e “comunisti” da ormai almeno trenta o più anni.
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l’intero corpo lavorativo collettivo (dalla direzione all’esecuzione). Per Burnham invece – però circa un’ottantina d’anni dopo e con riferimento al capitalismo dei funzionari del capitale di matrice statunitense – la proprietà si esaurisce lasciando il posto al manager, dirigente del processo che non si integra affatto nel corpo lavorativo collettivo, poiché egli è appunto un funzionario del processo capitalistico di produzione (ivi compresi gli indirizzi di investimento in settori vari, non solo economici) e dunque un agente di specifiche strategie.
Tornando al capitalismo inglese, e borghese, risulta evidente l’apparente predominio incontrastato della sfera economica; in primo piano quella produttiva, cui appaiono di fatto subordinate le altre. Da qui l’idea della base e delle sovrastrutture, quella dello Stato (“macchina statale”, sistema di apparati, sia di egemonia che di coercizione) in quanto strumento della classe borghese (dei capitalisti proprietari dei mezzi produttivi) per perseguire i propri interessi complessivi e generali. I capitalisti sono in concorrenza fra loro, si combattono e si battono vincendo od essendo espulsi dal mercato, ma troverebbero la loro unità – in definitiva, l’interesse all’ordinata e “oliata” riproduzione del rapporto capitalistico senza di cui non si produce né tanto meno si realizza il plusvalore – nella sovrastruttura statale.
Da questa concezione marxiana deriva pure la centralità assegnata al concetto di modo di produzione capitalistico in quanto struttura essenziale (e perciò base) della formazione sociale capitalistica; una struttura integrata di rapporti di produzione (in riproduzione secondo la loro specifica forma capitalistica della relazione tra proprietario e forza lavoro salariata) e di forze produttive, di cui si evidenzia l’impetuoso sviluppo e la trasformazione (soprattutto in quanto innovazione nei mezzi produttivi). Marx stesso è ambiguo sulla predominanza dell’uno o dell’altro lato del modo di produzione, ambiguità sciolta nettamente soltanto dall’althusserismo – in base all’esperienza dell’ormai incipiente fallimento del “socialismo reale”, della “rivoluzione culturale cinese”, ecc. – in direzione della preminenza della riproduzione dei rapporti, di cui si considera non soltanto l’aspetto economico ma anche quello politico-ideologico, divenuto anzi, nell’epoca più moderna, dominante.
All’epoca di Marx e della predominanza del capitalismo inglese, ciò non era visibile. Il lato dell’impetuoso sviluppo industriale prendeva il davanti della scena. I rapporti sociali formatisi sembravano essenzialmente quelli della proprietà dei mezzi produttivi e della massa dei lavoratori “liberi” che potevano vivere solo vendendo la loro forza lavorativa, fonte del pluslavoro quale plusvalore nella figura del profitto. La politica (con l’appendice bellica) era essenzialmente quella degli apparati statali, e di quelli che a questi si collegavano (ad esempio i partiti già allora in formazione, più tardi le organizzazioni sindacali, ecc.). La borghesia era classe ancora invischiata in parte con la nobiltà (magari quella di minor livello); la sua caratterizzazione fondamentale, nella prima fase, era però quella dell’esercizio delle funzioni di proprietà e di direzione dei processi di “sfruttamento” (estrazione di pluslavoro/plusvalore) di sempre più larghe masse umane, in cui andavano a confluire gli strati capitalistici più deboli ed espropriati nel corso della concorrenza nel mercato.
Questa è l’epoca della borghesia – e delle sue grandi forme d’arte e letteratura – in cui la politica sembra ormai semplice ancella del potere economico, tutto basato sulla produzione nella sua forma specifica di estrazione di plusvalore, con sfruttamento all’estremo di masse di lavoratori, la cui lotta per mettere un freno allo stesso, e iniziare a migliorare le proprie condizioni di vita, si andrà progressivamente rafforzando. E’ comunque evidente che questo sembra essere il capitalismo tout court. Difficile pensare a consistenti miglioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori – pur se Marx certo criticherà aspramente la “legge bronzea dei salari” di Lassalle – mentre lo sviluppo industriale vede crescere le masse operaie e porta quindi in primo piano quella visione dicotomica della divisione in classi della società nel corso dello sviluppo capitalistico, così com’esso è in quell’epoca prevedibile. Da qui una tipologia di “lotta di classe” apparentemente duale, che viene pure ributtata all’indietro nella storia, pensando allora quest’ultima come caratterizzata fin dall’inizio da simili modalità del conflitto.
La politica in senso proprio – le strategie del combattimento nel campo di battaglia in cui, nella storia, si sono affrontati con maggior vigore i vari gruppi dominanti e si sono andati condensando,
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nella sfera sociale denominata politica, gli apparati (“macrocorpi”) che si presentano quali “attori” della lotta – viene pensata, sia dall’ideologia dominante sia dal marxismo, come subordinata alla battaglia concorrenziale condotta dai capitalisti/proprietari nella sfera economica. Ripeto che tale visione distorta prende in considerazione soltanto gli apparati della politica (Stato, ecc.), non riuscendo a concentrare l’attenzione sull’essenziale: il campo di battaglia della politica in senso specifico quale insieme di strategie per il conflitto. Per gli ideologi dei dominanti, la politica deve limitarsi a garantire il “libero esplicarsi” di detta concorrenza nel mercato. Per i marxisti – e si tratta comunque di un passo in avanti – essa serve a proteggere la riproduzione di quei rapporti tra gruppi sociali atti a garantire la prosecuzione dello sfruttamento, dell’estrazione del plusvalore.
2. L’epoca della borghesia è quindi, di fatto, quella del monocentrismo (imperiale) inglese, che si affermò stabilmente, detto all’ingrosso, a partire dal 1815 (sconfitta definitiva di Napoleone, Congresso di Vienna, ecc.). Nella seconda metà del XIX secolo – soprattutto dopo la guerra franco-prussiana (1870-71) – inizia progressivamente il declino di tale predominio. Nasce la Germania (1871) – dopo che l’accettazione delle tesi listiane e lo Zollverein (1834) avevano condotto ad un buon sviluppo industriale tedesco prima ostacolato dalla nobiltà terriera prussiana, gli Junker – e si formano gli Stati Uniti moderni, in seguito a quell’evento decisivo che fu la guerra di secessione (o civile) nel 1861-65, in cui il nord industriale (e protezionista) sconfisse il sud agricolo (delle piantagioni di cotone e liberista), la cui economia, risultato di una specifica struttura sociale, favoriva il predominio industriale inglese volendosi a quest’ultimo complementare. Tale evento fortemente traumatico e sanguinoso è stato l’atto fondamentale non soltanto della futura, molto lontana ancora, predominanza centrale statunitense, ma soprattutto del mutamento di formazione sociale rispetto al capitalismo borghese.
A Germania e Usa, nella lotta (policentrica) per la successione al monocentrismo inglese, si aggiungerà subito dopo il Giappone. Si tratta di quei paesi detti della “seconda ondata industriale”, dizione che può condurre ad una interpretazione sviante, facendo ancora una volta pensare alla predominanza dei fenomeni in sviluppo nella sfera economica. Inoltre, spesso si ha solo un’attenzione particolare per la sottosfera finanziaria più ancora che per quella produttiva (una volta di più, in tale mascheramento ideologico si distinguono sia i pensatori dei dominanti sia i marxisti alla Hilferding).
Il processo avvenuto alla fine del XIX secolo con l’accentuazione del declino inglese e l’ascesa dei paesi appena sopra nominati – processo considerato erroneamente, a causa della solita distorsione economicistica, come passaggio alla forma monopolistica del mercato e alla centralizzazione dei capitali in poche mani – è stato in realtà il primo emergere della politica (sistema di azioni conflittuali strategiche) verso gli strati “superiori” (e fenomenici) della società capitalistica. Si insisté però nel non vederli, non per mala fede sia chiaro, ma proprio perché sia i dominanti sia i critici marxisti (o anche radical) erano (e sono) imbevuti della solita ideologia di mascheramento che porta(va) in primo piano la sfera economica. Tuttavia, non si poté non rilevare alcuni punti salienti di una diversa direzione di sviluppo dei nuovi paesi. Il capitalismo tedesco – uno degli aspiranti alla successione inglese (e penso che lo stesso debba dirsi di quello giapponese, su cui tralascio di soffermarmi per troppe carenze conoscitive) – vide in primo piano l’azione dello Stato, da Bismarck fino al nazismo, pur se con considerevoli differenziazioni di cui uno storico deve necessariamente prendere atto.
Tuttavia, la distorsione di visuale era ancora una volta notevole. Il marxista Hilferding – il cui testo fu considerato una sorta di Capitale dell’epoca dell’imperialismo, criticato ma in parte seguito pure da Lenin – parlò apertamente di una forte centralizzazione capitalistica, che avrebbe consentito di attuare una politica riformistica e non violenta di trasformazione in direzione del socialismo tramite l’azione di una Banca Centrale dotata di pieni poteri, coadiuvata dallo Stato. I sostenitori delle classi dominanti capitalistiche furono tutto sommati meno sommari e semplicistici, ma pensarono a forme spurie di capitalismo di Stato, in cui un gruppo politico coeso, tramite il controllo degli apparati “pubblici”, fosse in grado di orientare e coordinare l’azione dell’industria (con la finanza posta
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al suo servizio) lasciata in mano a gruppi imprenditoriali “privati”. La coppia “privato/pubblico”, ideologica come mise in chiara luce assai più tardi Althusser, funzionava relativamente bene giacché fissava la divisione tra sfera politica – quella dello Stato e dei suoi apparati – e sfera economica affidata alla solita imprenditoria (sia pure con settori di questa in mano “pubblica”, cioè statale, quindi con intreccio tra le due sfere).
Mancava di fatto la consapevolezza della distinzione tra politica in quanto area sociale degli apparati statali e “pubblici” (in senso molto lato: quindi anche partiti, sindacati, associazioni varie e spesso informali come le lobbies e “massonerie” varie) e la politica (o Politica?) in quanto rete di strategie del conflitto per la supremazia. Tale politica è appannaggio dei gruppi dominanti ed è a causa del loro scontro – quando diventa acuto soprattutto sul piano internazionale, tra formazioni particolari (paesi) o alleanze tra queste, come aveva ben capito Lenin – che si producono le crepe e gli sconquassi sociali e istituzionali nel cosiddetto anello debole, con possibilità di rivolgimenti rivoluzionari; non però da considerarsi mai più il prodromo di una qualsiasi rivoluzione proletaria mondiale, trattandosi a questo punto di un’assurdità frutto di cervelli fossilizzatisi e all’origine di pratiche demenziali o perfino criminali.
Difficile dire se è stata questa mancanza di consapevolezza o invece, come credo, la casualità dei processi storici a consentire – dopo una sempre più acuta lotta policentrica, iniziatasi tutto sommato nella più che ventennale fase di depressione di fine ‘800 (accompagnata da sviluppo, nel senso della profonda trasformazione dei rapporti sociali), e durata mezzo secolo (fino al 1945) – l’affermarsi definitivo della formazione dei funzionari del capitale, che si era andata formando e assestando negli Usa. Certamente, fino a buona parte del XIX secolo, in specie nel New England (nord-est con Boston centro principale), si può dire che sussistette pure in tale paese il capitalismo sostanzialmente borghese. Nessuno nega l’importanza di questa parte degli Stati Uniti (che pur tentò di evitare la guerra contro l’Inghilterra del 1812-15 condotta al fine di riaffermare decisamente la propria indipendenza) nella formazione del capitalismo statunitense e nel condurre la guerra contro il sud confederato nella guerra di secessione (o civile), evento decisivo, come già considerato, per la futura affermazione della supremazia mondiale Usa.
Nessuno nega nemmeno che abbia avuto la sua rilevanza il solito “sfruttamento” (pluslavoro come plusvalore) del lavoro salariato, secondo quanto avvenuto nell’accumulazione originaria in Inghilterra e altri paesi europei. Tuttavia, il capitalismo americano è caratterizzato da altre modalità che risultano evidenti anche fenomenicamente (empiricamente). Innanzitutto si stabilì, soprattutto durante la fase di massimo sviluppo industriale e urbano, uno stretto legame tra le varie associazioni sindacali, sia “padronali” che dei lavoratori, e la criminalità. Nella formazione del capitalismo borghese fu soprattutto importante la dissoluzione della piccola produzione mercantile (semplice) e la formazione delle prime concentrazioni capitalistiche; ovviamente, pure negli Usa tale fenomeno fu rilevante e si verificò, almeno in parte, per l’usuale opera della concorrenza legata alle ondate innovative. Ebbe però un’importanza assai più rilevante che in Europa la concorrenza “armata”, nel senso letterale del termine; e con largo uso di bande assoldate da chi concentrava i capitali, assoldate appunto tra la criminalità ma nel contempo presso gruppi di lavoratori (spesso precari o anche clandestini), a causa fra l’altro delle successive e reiterate immigrazioni degli stessi da svariate parti del mondo.
Sembra logico che l’individualismo sia molto più forte negli Stati Uniti che altrove, mentre la lotta dei lavoratori, per null’affatto assente, non ha però raggiunto l’energia e l’organizzazione (anche partitica) tipiche del vecchio continente, dove pure non prevalse certo alla fine lo spirito rivoluzionario anticapitalistico manifestatosi, come già visto nel saggio principale, più “a est”, in società a netta prevalenza contadina e ancora semifeudali. Quello che forse però più conta – ed è fenomeno che dovrà essere analizzato meglio – è che simili forme dell’accumulazione e della nascita delle prime grosse concentrazioni di capitali contenevano assai più che germi di una strategia conflittuale spesso addirittura affine a quella di tipo bellico. La politica, nel senso che ormai dovrebbe essere chiaro al lettore, è stata strumento relativamente scoperto e visibile di tale accumulazione capitali-
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stica negli Usa; e in una non breve fase storica, e in aree sconfinate del grande paese (nel West ad esempio), detto processo non si è servito della sfera politica in quanto Stato e apparati “pubblici” – cioè della macchina statale, considerata dal marxismo strumento della classe dominante – ma ha addirittura lottato per sottrarsi ad essa. Ha fatto così ampio capolino, pur se non mi sembra sia stata ben riconosciuta e condotta alla piena consapevolezza teorica, la differenza tra la politica (strategie del conflitto, ecc.) e la sfera sociale denominata politica (Stato e apparati vari).
Nella storia di tale paese, si sono sempre avute spinte isolazioniste: “pulsioni” reali eppure di forte carica ideologica, che sono sempre state sconfitte, ma proprio in tale sconfitta sono mirabilmente servite ad aumentare la carica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti del suo esterno, dove essi hanno combattuto – quanto meno a partire dal risultato della guerra di secessione – per fini fondamentalmente monocentrici (“imperiali”) di successione al posto lasciato libero dal declino inglese. Negli scontri mondiali, gli Usa sono sempre entrati in ritardo, a giochi già ampiamente iniziati, sfruttando però sempre a loro prevalente vantaggio la situazione creatasi sul campo (di battaglia). Non dico consapevolmente (o forse anche sì), ma certo oggettivamente, gli Usa hanno lasciato sfibrarsi gli avversari nella loro reciproca lotta per la supremazia, entrando nel conflitto nei “giusti tempi” atti a imporre infine il loro diktat. Solo la rivoluzione russa si sottrasse a quest’ultimo, mentre poi l’Urss, nel secondo scontro mondiale, si comportò nello stesso modo attendista; anzi, essa fu proprio obbligata ad entrare in guerra, “chiamatavi” dall’aggressione e invasione da parte della Germania, con gravi perdite umane e immani distruzioni. Non è comunque un caso che Usa e Urss ne uscirono quali unici effettivi vincitori, mentre gli altri paesi capitalistici erano ormai groggy, “suonati”. Da qui, la cristallizzazione quasi semisecolare del mondo bipolare con tutto quello che ne è seguito e che è già stato ricordato nel saggio di cui questa è l’appendice.
Lo sviluppo degli Usa – non la semplice crescita ma la trasformazione “strutturale” (dei rapporti) che è la reale causa, mai “vista” dall’ideologia dominante né da quella “marxista” (ormai degradata già verso la fine del XIX secolo), della potenza di dati gruppi capitalistici in specie sul piano internazionale – è stato fondato, almeno a partire dalla cosiddetta seconda rivoluzione industriale, su quella grande impresa denominata corporation. In effetti, si è sempre vista in questa forma imprenditoriale null’altro che la notevole dimensione; e se ne individuarono quasi solo gli aspetti formali che non differiscono molto da quelli soliti della società per azioni, in quanto essa ha personalità giuridica distinta dagli individui azionisti. Vi fu però un aspetto che mise in difficoltà i “marxisti”; e che gli ideologi dei dominanti (vedi, ad es., Berle e Means) interpretarono come “democrazia economica”, diffusione e distribuzione della proprietà capitalistica, dove il capitale è cosa (appunto “distribuita”) e non rapporto sociale.
Con la grande impresa americana si ha però un sostanziale mutamento nell’intreccio tra lato finanziario e lato industriale, che è l’apparenza “fenomenica” (ma empiricamente reale) di una trasformazione più sostanziale trascurata da tutti gli studiosi. Nel capitalismo di più antica data (l’europeo), ma credo anche in Giappone, sembrò divenire predominante, nella fase di trasformazione a cavallo tra otto e novecento (grande depressione, monopolizzazione, seconda rivoluzione industriale, tutti processi già ricordati), la banca rispetto all’industria vera e propria; nella Germania, che è all’avanguardia di tale processo (ma anche in Italia), la monopolizzazione del capitale bancario, pur attraverso (anzi proprio attraverso) i “grandi scandali” del settore, precede quella dell’industria; tutti vedono nella banca, al centro dell’accrescimento e centralizzazione dei capitali azionari, la spinta propulsiva alla stessa trasformazione dimensionale dell’impresa industriale e della sua proprietà (in questa apparenza cadde in pieno il “marxista” Hilferding, che non a caso, vent’anni dopo, difese a spada tratta la finanza “weimariana”, ormai tramite del dominio Usa sulla Germania).
Lenin corregge solo parzialmente questa distorsione “ottica” (ideologica), parlando di capitale finanziario quale simbiosi tra banca e industria, sempre però concedendo la prevalenza, nel fenomeno, alla prima; omaggio alla tradizione che deve pensare alla trasformazione del capitalista in rentier per facilitarsi i compiti della rivoluzione “proletaria”; realizzata cioè dal lavoratore collettivo
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(“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), pur se poi, a rivoluzione avvenuta (in Russia però), si parlerà dei possessori delle “potenze mentali della produzione” come di specialisti borghesi, che il proletariato, a questo punto ridotto ai soli operai veri e propri (appoggiati dai contadini), deve tenere sotto controllo (“con il fucile puntato”). Tuttavia, anche per Lenin, in definitiva, tale situazione è provvisoria, è legata al fatto che la rivoluzione si è realizzata in un paese a non ancora pieno sviluppo capitalistico; essa viene però pensata quale mero detonatore di quella mondiale, successiva (tanto successiva che ancora non si è vista). Con Stalin furono necessari ulteriori adattamenti teorici, ma adesso non inseguiamo qui tutta la storia degli errori dei “marxisti”.
Nella corporation americana viene in evidenza il predominio del capitale industriale su quello bancario; sono le grandi imprese dell’industria che, almeno per un lungo periodo storico, si creano le proprie banche (oggi per la verità, se ci attenessimo solo alla forma, potremmo dire che il capitalismo americano si è “normalizzato”; e commetteremmo un grave errore, che infatti tutti hanno più o meno commesso). La risposta dei marxisti tradizionali fu semplice quanto superficiale: si trattava pur sempre del solito capitale finanziario, in cui però la simbiosi era dominata dal capitale industriale invece che da quello bancario. Essendo regrediti rispetto a Marx – considerando il capitale come cosa, di cui vedevano solo i fenomeni della proprietà (giuridica) in fase di centralizzazione monopolistica; questa fu la loro autentica aberrazione realmente antimarxiana – essi non si resero conto che, in tal modo, era completamente smentita la previsione di Marx circa la trasformazione del capitalista in rentier, con perdita della funzione direttiva (uso delle potenze mentali, ecc.), che si sarebbe dovuta riunire a quella manuale (esecutiva) nell’operaio combinato. In assenza di un simile evento, si doveva dire addio al “soggetto rivoluzionario”, capace di egemonia nella società grazie al controllo dell’intero processo produttivo. Poiché però gli ideologi dei dominanti non hanno mai capito nulla del pensiero di Marx, tale svarione “suicida” della teoria e prassi comuniste fu lasciato passare.
Gli ideologi in questione insistettero solo sulla democrazia economica (base di quella politica; dove si constata che l’economicismo non è deviazione del solo marxismo) in quanto proprietà azionaria diffusa, distribuita. I marxisti, in affanno, risposero che anzi, con tale regime proprietario, il controllo del gruppo capitalistico veniva favorito, potendo essere effettuato con una minima proprietà di capitale azionario. Ancora una volta, si trascurò completamente il problema del mutamento dei rapporti sociali, che sarebbe dovuto avvenire tramite dinamiche interne al modo di produzione capitalistico, in quanto base oggettiva che avrebbe consentito all’azione rivoluzionaria – contro il potere statale della borghesia, ultimo baluardo da abbattere – di non essere un semplice “atto di buona volontà”, di non essere basata su una presunta spinta dell’essere umano al Bene, alla Cooperazione e Comunità, all’Amore verso i suoi simili, e altre menzogne siffatte.
In effetti, l’unico che si spinse avanti, cogliendo un aspetto centrale della nuova società, fu Burnham; proprio quando era ormai divenuto di fatto, da trotzkista, reazionario (probabilmente questa è stata la sua fortuna). In effetti, l’“attore” centrale della sfera economica, dominata dalle corporations, divenne nel suo pensiero il manager, figura in cui già si segnala la rilevanza dell’azione strategica. Il capitalista sfruttatore di Marx (che estrae pluslavoro/plusvalore dall’operaio come profitto), l’imprenditore che organizza in modo efficiente, secondo il principio del minimo mezzo, i fattori produttivi (concezione neoclassica), quello innovatore di Schumpeter (tesi già più avanzata), sono in definitiva degli “attori” maggiormente concentrati sull’aspetto interno dell’unità produttiva (di merci), pur se si confrontano senza dubbio con l’ambiente esterno in cui si sviluppa la concorrenza (competizione pressoché esclusivamente economico-produttiva). La politica – come semplice sfera degli apparati, non invece il campo di battaglia che è la politica – sarebbe utilizzata o per svolgere funzioni coercitive (nell’interpretazione marxista, al massimo con l’ampliamento alle funzioni di egemonia) o per creare e difendere l’ordinato quadro della riproduzione capitalistica nell’ambito del “libero mercato” (liberisti), eventualmente corretto, in situazioni di crisi, dall’intervento dello Stato nel suo mero lato di spenditore per risollevare la domanda (keynesiani).
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Ben più ampia e proficua la concezione burnhamiana. Il management sostituisce la proprietà nel controllo dell’azienda nel suo complesso. Esso non esercita però semplici funzioni tecnico-direzionali – in ciò Burnham supera la più limitata tesi della “tecnostruttura” alla Galbraith, che fra l’altro questi considerava un’organizzazione autoreferenziale, quindi chiusa in sé – bensì ha una visione d’insieme del complesso aziendale, un misto di partizioni coordinate ma in modo talvolta assai elastico, cosicché ad es. Coase e soprattutto Williamson le poterono trattare nel loro aspetto di reti di tipologia mercantile, quindi in continuità con le reti esterne (di fornitori e clienti), di cui diminuire, pur in un contesto di “razionalità limitata”, i costi di transazione. Tutte queste concezioni sono pressoché esclusivamente economi(cisti)che, e dunque prendono in considerazione il solo principio dell’efficienza (del minimax), tenendo però conto della non perfetta conoscibilità e prevedibilità dei mercati (delle innumerevoli, n, variabili in essi implicate).
3. Il manager, secondo Burnham, comincia invece già ad introdurre un atteggiamento politico in senso proprio, quello appunto delle strategie nel campo di battaglia, pur se applicato alla sfera economica (produttiva e, in subordine, finanziaria) pensata come strutturalmente predominante nella società capitalistica. L’autore americano considera inoltre ormai esaurita la funzione della proprietà, che invece continua a perdurare, quanto meno come “scudo protettivo”, ma anche come arma offensiva in date fasi temporali, ricorsive, e nell’ambito di determinate relazioni spaziali tra formazioni particolari differenti, ad es. pre e subdominanti. Resta il fatto che Burnham consente di comprendere come mai, nella nuova formazione sociale americana (dei funzionari del capitale), sia in ogni caso prevalente l’industria rispetto alla banca; per cui il capitalista non si trasforma in rentier secondo quanto pensava Marx in base all’osservazione delle dinamiche interne del capitalismo borghese (inglese), da lui considerato il capitalismo tout court, cioè il modo di produzione capitalistico come “epoca dello sviluppo della formazione economica della società”, che avrebbe preparato, grazie al grandioso sviluppo delle forze produttive, la fine “della preistoria dell’Umanità” con l’avvento della società comunista (autentica fine della Storia, in realtà, se così fosse stato).
Se l’azione del manager burnhamiano è in realtà retta dalla razionalità strategica più ancora che da quella efficiente del minimo mezzo, essa è politica che, come già sappiamo, si è estesa (dalle sfere politica e ideologico-culturale) alla sfera economica durante il passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Nella prima fase (formazione sociale) di quest’ultimo (fase appunto borghese), tale politica si cela completamente dietro la razionalità tipica del produrre economizzando le risorse. Nelle teorie dei dominanti, detta razionalità si esplica nella, ed è orientata dalla, rete delle interrelazioni di cui è costituito il mercato – regolato dalla “mano invisibile” (liberismo) o invece bisognoso di correzione da parte della domanda (aggiuntiva) dell’apparato “pubblico” quando, nella crisi, lo si considera incapace di conseguire per sua sola “virtù” l’equilibrio di piena occupazione dei fattori produttivi, in particolare del fattore lavoro (keynesismo) – mentre nella “critica dell’economia politica” si considera decisiva la massima estrazione possibile di pluslavoro/plusvalore; ed è qui che si inserisce quello che ho chiamato primo disvelamento, operato da Marx.
Con il passaggio al monopolio – più correttamente alla grande impresa oligopolistica – alcuni hanno tratto la sola conclusione di un mercato in parte controllato da quest’ultima (dalla “mano invisibile” si passerebbe a quella “visibile”; vedi Chandler). Già ai primi del novecento, certo marxismo, prendendo soprattutto in considerazione la presunta predominanza della banca, vide nella centralizzazione di tale apparato una sorta di gradino preparatorio della possibile pianificazione dell’attività economica, trattata fin da allora quale sinonimo di passaggio al socialismo. Infine, più di recente (si fa per dire, un mezzo secolo fa) e con notevole intuizione, Kurt W. Rothschild (economista austriaco) sostenne che la comprensione dell’attività degli attori in un mercato oligopolistico sarebbe stata meglio capita ricorrendo al manuale di strategia di Von Clausevitz. Direi che si è così fatto un buon passo in avanti.
Nella formazione dei funzionari del capitale, la politica (strategie, ecc.) tende a tralucere, con bagliori sempre più vividi, squarciando il velo rappresentato dal principio dell’efficienza (non a ca-
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so, detto pure dell’economicità). Non è, però, rilevante la semplice forma di mercato detta monopolistica, cioè la centralizzazione dei capitali che comporterebbe soprattutto la sua crescente finanziarizzazione, con tutte le varie conseguenze segnalate sia dai teorici (ideologi) dei dominanti sia dai “marxisti” ormai degenerati rispetto al pensiero di Marx, che nel capitale vedeva un rapporto specifico di una data epoca storica della formazione sociale, mentre i suoi superficiali epigoni lo analizzano come cosa (posseduta da un numero di proprietari sempre minore). Oggi, di fronte alla crisi ancora in atto, tutte le più vetuste tesi della centralizzazione e soprattutto della finanziarizzazione hanno devastato l’intero pensiero, sia degli apologeti che dei critici (falsi “ultraradicali”) del capitalismo.
E’ necessario liberarsi completamente di simile retaggio, di una zavorra così pesante che ottunde
i cervelli degli economisti come dei sociologi come dei politologi, ecc.; lo ripeto, sia apologeti che critici della nostra società. Si salvano solo gli strateghi in senso proprio, quelli che lavorano in genere – salvo casi sporadici di notorietà – in centri più “nascosti”, meno esposti al chiasso e dunque al chiacchiericcio insensato e sviante di apologeti e “ultracritici”. Sono gli unici veri realisti, gli unici di cui “scovare le perle”, che in genere giacciono nascoste proprio perché si tratta di analisi e studi decisivi nella battaglia che si riaccende nell’attuale fase avviata al multipolarismo. Tutto il resto si può tranquillamente buttare al macero.
Il secondo disvelamento – che, mi dispiace per gli odierni ottusi del “marxismo” dogmatico, è stato effettuato da me – impone di mettere senza più esitazioni al centro dell’analisi il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione).
Questa predominanza dell’economico è solo l’apparenza che ha ingannato sia i dominanti che i critici (marxisti in specie). Il fatto che nel tranello cadano i dominanti ha poca importanza dato che la loro preminenza si perpetua grazie alla riproduzione di quegli specifici rapporti sociali. Grave è stato invece l’errore commesso da coloro che pretendevano di abbattere il capitalismo; essi sono rimasti a quello borghese e hanno continuato a ripetere le teorie dell’inizio, del primo disvelamento. Si sono intestarditi ad aggiustare il meccanismo teoretico, ormai sempre più obsoleto, con continue ipotesi ad hoc; hanno agito come i “tolemaici” con la loro periodica aggiunta di nuovi epicicli1. Ormai sono finiti, non hanno nemmeno alle loro spalle una Chiesa potente come quella medioevale, sono solo piccole sette di fanatici con la bava alla bocca per la loro ormai evidente inutilità che li fa viepiù impazzire e divenire dementi. Pericolosi in quanto disperati e pronti a vendersi quali squadracce d’azione dei dominanti, di quelli più reazionari che pagano meglio dovendo difendere le loro posizioni alla lunga perdenti2.
1 Questa non è semplice critica ma pure autocritica. E’ però da un pezzo che ho capito l’inutilità dell’insistenza “tolemaica”. Comunque ammetto che la mia irritazione verso i residui pseudomarxisti, il mio trattarli da idioti, nasce dal mio stesso ritardo a prendere atto dell’irrimediabilità della senescenza che aveva colpito il marxismo già all’epoca in cui io lo appresi. Irritazione, e trattamento da idioti, che si duplica nei confronti di coloro che, non avendo nemmeno mai studiato Il Capitale, vogliono riscoprire Marx in quanto utopista del comunismo, in quanto inconsistente e futile chiacchierone intorno all’Uomo. Non so chi sia peggiore tra i dogmatici di una scienza ormai inesistente e i “farfalloni” umanisti.
2 Ricordiamo le intelligenti considerazioni del Principe di Salina ne Il Gattopardo: per una classe in decadenza (in quel caso la nobiltà siciliana) guadagnare anche 50 anni di ulteriore respiro prima di crepare equivale a tutta l’eternità. Si può applicare questa notazione alla “vecchia aristocrazia” imprenditoriale (quella dell’industria ultramatura tipo gran parte del metalmeccanico, auto in testa), alle banche che vivono in funzione della loro subordinazione rispetto alla finanza di
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In ogni caso, il passaggio alla formazione dei funzionari del capitale – centralità della formazione particolare statunitense al posto di quella inglese del XIX secolo – ha iniziato a far venire nuovamente allo scoperto la predominanza della politica. Perché, in effetti, non è del tutto esatto dire che nelle società precapitalistiche fossero preminenti le sfere della politica e dell’ideologia. In tutte le epoche della società umana – e mi rifaccio ancora al geniale esempio visivo posto all’inizio di 2001 Odissea nello spazio, quello che ho ricordato nel saggio principale – è preminente la politica nel significato che spero sia ormai chiaro. Nelle epoche precapitalistiche, tale politica si dispiega pienamente nelle sfere politica e ideologica (quelle dei “macrocorpi” in quanto “attori” o portatori soggettivi delle dinamiche conflittuali che conformano il campo della battaglia, ecc. ecc.). Nel passaggio al capitalismo (alla sua prima fase, o epoca, borghese), la politica si estende alla sfera economica con tutte le conseguenze che sono già state ampiamente considerate nel testo principale (frammentazione della produzione in diverse unità legate dalle interrelazioni mercantili, forma denaro “consustanziale” a quella di merce, e via dicendo).
La sfera economica diviene in questo modo enormemente più dinamica – ecco perché lo sviluppo delle forze produttive balza in primo piano come visibilità immediata – e alimenta assai più abbondantemente ogni sfera sociale e, di conseguenza, quel campo di battaglia fra strategie che è la politica; l’economia (sottosfere produttiva e monetaria) prende allora “naturalmente” (ma ideologicamente) il davanti della scena. Gli ideologi dei dominanti fanno l’apologia del “libero” mercato (assai più tardi, riconosciuto che la crisi è intrinseca allo sviluppo capitalistico, i keynesiani “vedranno” anche le correzioni da apportare con intervento “aggiuntivo” statale relativo alla domanda); Marx scopre l’inganno ideologico della “libertà formale” cui è soggiacente lo sfruttamento, cioè la diseguaglianza reale. Tale scoperta fa epoca, ma nasconde il principio fondamentale del conflitto strategico – e dunque della politica – dietro quello del minimo mezzo, dell’efficienza (economica); sia pure per accrescere l’estrazione di pluslavoro/plusvalore. Il cosiddetto “feticismo” della merce, l’“arcano” che ottunde il cervello di tutti i filosofi (gli apologeti come i critici pseudomarxisti), dipende dal nascondimento dell’estrazione del pluslavoro/plusvalore (scoperto da Marx tramite la fondamentale differenza tra lavoro come fonte di valore e forza lavoro come merce; scoperta scientifica al di là di ogni chiacchiera filosofica) dietro la formale eguaglianza dei possessori di merci nello scambio di (in media) equivalenti.
Il declino del monocentrismo inglese significa nel contempo quello del capitalismo borghese. Sia pure tramite tutte le distorsioni (economicistiche) già considerate, la lotta multipolare, con acuti scontri policentrici, per la successione – durata fino al 1945, se si considera il cosiddetto “campo capitalistico”, o fino al 1989-91 (crollo socialistico e dissoluzione dell’Urss), se ci si riferisce all’intera formazione mondiale – porta in evidenza la formazione particolare statunitense quale “paradigma” della nuova formazione capitalistica dei funzionari del capitale.
4. E’ quindi evidente la necessità di riportare al centro la politica, dopo la lunga storia dell’Umanità in cui essa si è trincerata – condensandosi, e nel contempo celandosi – nelle sfere della politica e dell’ideologia (con i loro apparati specifici e storicamente mutevoli di formazione sociale in formazione sociale, cioè con i macrocorpi degli “attori”, ecc. ecc.). Poi è passata nella sfera economica con il capitalismo borghese, imprimendo senza dubbio un’accelerazione alla Storia, nascondendosi però completamente in tale sfera e facendola prendere per predominante da tutti gli scienziati e ideologi: sia quelli dei dominanti sia quelli marxisti (e critici anticapitalistici in genere). Con la formazione dei funzionari del capitale la politica ha cominciato a tralucere tra le maglie del reticolo sociale, ma ancora in una visione distorta, colta solo a lampi da autori come, ad es., Burnham, Rothschild e senza dubbio altri; in specie dai non economisti.
un paese predominante (oggi gli Usa in rapporto ad esempio all’Italia). Si tratta di gruppi (sub)dominanti ultrareazionari, aiutati a reggersi dai (pre)dominanti del paese centrale; a questi si vendono tutti i disperati rottami di una passata stagione della politica e dell’ideologia.
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Nell’attuale fase storica sembra avvicinarsi un nuovo multipolarismo, che dovrebbe sfociare (il condizionale è d’obbligo in periodi iniziali del genere) in nuovi più accesi confronti policentrici, di cui, come detto più volte, ritengo improponibile ogni previsione relativa alle concrete forme del loro eventuale (e assai probabile) manifestarsi. Ho anche già avanzato l’ipotesi di un periodo di sostanziale stagnazione, non in contraddizione con lo sviluppo in quanto trasformazione dei rapporti sociali; innanzitutto trasformazione delle relazioni tra potenze (l’attuale superpotenza e le altre che si vanno rafforzando), soprattutto a causa dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari nell’ambito di quella mondiale. L’alterazione degli “equilibri” – in realtà di squilibri permanentemente esistenti, ma che in certi periodi sono il risultato di spinte e controspinte che sembrano mantenere relativamente costante la configurazione internazionale – provoca non solo una più rapida modificazione di quest’ultima, ma spinge ad una nuova strutturazione sociale, in modo più netto in quelle formazioni particolari che vanno assumendo posizione e forza tali da mettersi in condizioni di possibile vittoria nella competizione globale.
Secondo le ipotesi fatte in questo testo, dovrebbe viepiù venire “a galla” la politica (conflitto di strategie, ecc.), pur sempre articolata nelle diverse sfere (teoricamente divise) della politica, dell’ideologia e dell’economia. Impossibile fare previsioni sulla futura formazione sociale che dovrebbe prendere il posto di quella dei funzionari del capitale. Impossibile dire se essa comporterà l’assunzione di una nuova posizione monocentrica da parte degli stessi Usa o di altre potenze oggi in ascesa (in specie “a est”). Va sempre ricordato che “la Nottola di Minerva si leva al tramonto”. Non siamo ancora stati capaci se non d’intuire il passaggio – già avvenuto da quasi un secolo – tra capitalismo borghese e dei funzionari del capitale; figuriamoci se ci si può permettere di avanzare ipotesi precise sulla nuova formazione sociale che dovrebbe prendere il posto di quella affermatasi per la prima volta negli Stati Uniti.
Si è solo in grado di prevedere, con discreto tasso di probabilità (comunque di realismo), che si andrà affermando una società in cui più evidente diventerà la predominanza della politica. In questo momento, sembra che quest’ultima continuerà a concretizzarsi nell’ancor più evidente preminenza della sfera politica (Stato, apparati politici vari, “corpi speciali in armi”, ecc.). Tale preminenza appare più esplicita, oggi, negli Usa che non nei vecchi paesi europei; ma soprattutto perché nei primi si situano i gruppi predominanti mentre nei secondi prevalgono ancor oggi, pur alla vigilia del multipolarismo, quelli subdominanti del vecchio mondo bipolare formatosi dopo il 1945 e di fatto sprofondato nel 1989-91. Tuttavia, sempre più “in chiaro” si presenta la preminenza in questione nelle nuove potenze in ascesa, in particolare in Cina e Russia, dove detta preminenza è l’evidente risultato – nella longue durée e a causa dell’operare storico della cosiddetta eterogenesi dei fini – del processo rivoluzionario messo in moto nell’ottobre del 1917.
In Cina però, così com’era nell’Urss, la prevalenza della sfera politica – cioè il venire “in superficie” della politica negli apparati di tale sfera – passa attraverso il filtro del Partito, in quanto principale apparato, di fatto unico, che si identifica, e dunque si confonde, con lo Stato. Per motivi che andranno approfonditi (e qui sarebbe utile che qualche storico si mettesse al lavoro con nuove ipotesi), tale fenomeno si è rivelato di intralcio e ha comportato la necessità di superare l’ostacolo. L’Urss è “inciampata” in quest’ultimo e si è alla fine sfasciata. La Cina, apparentemente, l’ha superato; eppure, io credo che abbia solo rinviato la resa dei conti. In Russia, oggi, quell’ostacolo è stato tolto di mezzo, pur senza arrivare alla “democrazia”, cioè a quella rete conflittuale tra “gruppi di pressione”, lobbies, ecc. che mostra ormai “rendimenti decrescenti” in tutto l’“occidente” capitalistico (dei funzionari del capitale)1. La Cina se lo trova ancora tra i piedi e dovrà, prima o poi, toglierselo di mezzo, senza cadere nelle spire della “democrazia” di cui sopra. Non credo però proprio che sussista tale pericolo, bensì quello di scombussolamenti nel periodo di transizione e di abbandono della troppo pesante centralità del Partito.
1 Anche questo è un problema da studiare a parte.
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Di fatto sembra che la meno peggiore situazione, al momento, sia quella del “condensarsi” della politica nella sfera politica centrata sullo Stato, senza il (negativo) filtro del Partito (unico) e senza la “democrazia” partitica, che è in realtà quella delle lobbies e della minore efficacia delle decisioni indispensabili a condurre il conflitto nel multipolarismo avanzante. In questo senso ipotizzo, salvo ulteriori imprevisti spostamenti di “equilibri” (squilibri legati allo sviluppo ineguale, caratteristico di tale fase), che la Russia sia maggiormente attrezzata rispetto alla Cina – malgrado l’economicismo imperante veda nello slancio produttivo di quest’ultima, nell’attuale periodo, un elemento di sua (presunta) superiorità – per divenire una delle più mobili e dinamiche competitrici sul piano mondiale nel medio-lungo periodo (almeno un paio di decenni o giù di lì). Non ci vorrà quindi moltissimo, in termini storici, per appurare se si tratta di ipotesi dotata di senso e aperta ad ulteriori, sempre indispensabili, aggiustamenti.
In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia veramente invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non una “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso, conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi dei differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale. Lo svolgimento chiaro e senza infingimenti, diciamo in buona trasparenza, del conflitto implicherebbe la consapevole accettazione della preminenza dello squilibrio, mettendo fine alla falsa e ipocrita idea della cooperazione tra “uomini di buona volontà”; in questo aperto riconoscimento, in questa maggiore visibilità del conflitto, diventerebbero forse possibili soluzioni mediatorie di attenuazione (comunque di non esplosione violenta) dello stesso.
5. Non lanciamoci però adesso in quelle che, al presente, sono vuote chiacchiere avveniristiche, di impossibile verifica se non in tempi tanto lunghi “in cui saremo tutti morti”. L’epoca che si annuncia sembra essere quella del multipolarismo e poi, probabilmente, dell’aperto policentrismo. A questa prospettiva va intanto adeguata l’analisi. Si deve partire, senza indugi, dal secondo disvelamento. Il primo, quello propriamente marxiano, non può essere abbandonato né mai dimenticato per il semplice motivo che, a differenza della visione del mondo copernicana, non è diventato senso comune; anzi è stato isterilito e reso inoffensivo proprio dai sedicenti marxisti della cosificazione del capitale, sempre eguale a se stesso e di cui sempre si predica la fine, il crollo e quant’altro, squalificando così il pensiero marxiano. Dall’altra parte, gli ideologi dei dominanti sono rimasti al liberalesimo e liberismo, di cui l’intervento statale, le “politiche sociali”, l’etica, e quant’altro, sono mera cortina fumogena per nascondere la realtà del netto (e nella fase odierna crescente) squilibrio di potere.
Il primo disvelamento è però ormai insufficiente; ha dato tutto quello che poteva dare, soprattutto nello smascherare l’ipocrisia dei dominanti, ma è divenuto nel contempo il paravento di coloro che sono a questo punto apertamente reazionari. La chiara fuoriuscita dal marxismo, che quanto meno inizia con il secondo disvelamento, è necessaria per reimpostare ogni problema relativo al periodo storico che sta attualmente avanzando. I “marxisti” della cosificazione, così come i “comunisti” religiosi, appartengono ad una sorta di Vandea, sia teorica che politica; sono estremamente pericolosi in entrambi i campi. La loro visione ormai elementare, rozza, schematica – che ripete sempre le fruste litanie circa la “lotta del lavoro contro il capitale” o quella delle “masse diseredate contro l’Imperialismo” (se non addirittura l’Impero), senza alcuna articolazione temporale (le diverse fasi storiche) e spaziale (le differenze tra formazioni particolari in sviluppo ineguale, ecc.) – fa parte di una “archeologia ideologica” (arretratissima soprattutto in Italia). Per questi motivi è indispensabile la fuoriuscita dal marxismo; ma proprio, lo ripeto per l’ennesima volta, per quella porta, non
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concedendo nulla alle principali ideologie dei dominanti, ideologie del nascondimento sia della lotta tra potenze, che avanza in questa fase, sia della nuova strutturazione sociale in via di riconfigurazione nelle varie formazioni particolari.
E sempre, sullo sfondo, incombe il grave pericolo – di cui la vecchiezza e inconsistenza teorica sono un travestimento in fondo indolore – di ben altre disgregazioni sociali e politiche, delle quali la parte più reazionaria dei gruppi (sub)dominanti europei tenta di avvalersi per ritardare pesantemente ogni tentativo di effettiva trasformazione in direzione di una maggiore autonomia dalla potenza predominante. In Italia, quale ulteriore complicazione al limite della cancrena mortale, esistono questi settori formati dal rinnegamento (la parte maggioritaria) e dall’astiosa e ottusa difesa (una minoranza di pericolosi sbandati) della vecchia e senza dubbio possente ondata comunista orientata dal marxismo, presto travisato e distorto ma comunque ancora vigoroso fino a circa mezzo secolo fa. Siamo ora stretti a tenaglia tra il solito tradizionalismo che sfocia spesso nel razzismo e nella difesa di valori ormai vetusti, da una parte, e l’“ultramodernità” dell’altrettanto superata “democrazia all’americana”, dall’altra. Quest’ultima, la più pericolosa e infame per la sua ignobile ipocrisia, è il reale tramite della supina acquiescenza a strati (sub)dominanti parassiti – incapaci di effettiva egemonia e solo esercitanti la più prepotente e vile sopraffazione tramite marchingegni infami, tipo l’uso della sedicente “giustizia” – che succhiano la ricchezza prodotta dagli strati medio-bassi dei lavoratori. Per realizzare tale fine, essi si aggrappano ai predominanti di una potenza straniera (Stati Uniti in tal caso) e, supportati da questi, compiono la loro nefasta opera di temporanea sopravvivenza a costo di devastare la nostra società.
Com’è ovvio, un avanzamento teorico non è sufficiente ad invertire il degrado cui assistiamo oggi in Italia, opera della tenaglia di cui appena detto; tuttavia, occorre operare anche teoricamente. In ogni caso, è ciò che il singolo può fare, pur assistendo attonito al dilagare della mala fede, dell’opportunismo, insomma della cancrena. E’ certo soprattutto spiacevole rendersi conto che per troppo tempo non si è denunciato ciò che si vedeva: in Italia, la parte intrinsecamente reazionaria e malata – divenuta serva dei (sub)dominanti parassiti e dei (pre)dominanti (statunitensi), che di essi si servono nel tentativo di almeno ritardare la resa dei conti policentrica – è rappresentata proprio da coloro alla cui opera di corruzione e marcescenza si è assistito (io stesso ho assistito), in qualche misura, dall’interno; pur continuando a protestare, sempre però silenziati da costoro (questa è stata, ad es., la sorte del sottoscritto). Il tempo perso non si recupera più, la vera pratica politica è in questo momento impedita dalla tenaglia in oggetto. Si cominci almeno a produrre teoricamente la fuoriuscita dalla già segnalata “archeologia ideologica”, alimento non irrilevante della pratica di questi miserabili “venduti” al paese “imperiale”, oggi in provvidenziale, seppur relativo e ancora troppo lento, declino.
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