BASTA CON I RAGLI

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1. Sono ormai troppi – anche fra vecchi “compagni” dal “pelo lungo” che dovrebbero avere esperienza e capire qualcosa – a ragliare a più non posso. Vado quindi giù con piglio netto e reciso, perché non mi sembrano tempi da esitare. La sinistra è ormai una vera accozzaglia di gentaccia o pronta ad ogni avventura pur di vivere d’opportunismo o con una testa totalmente rimbecillita (ma molti non erano così ottusi anche solo 10 anni fa) dal virus dell’antiberlusconismo. Forse tra le fila di quelli che si autodefiniscono ancora comunisti, c’è qualcuno in grado di ragionare, ma non riesce a liberarsi del passato; inoltre, ha accettato di sentirsi parte della sinistra (pur detta, ma ormai impropriamente, “radicale”), e tale scelta è un insulto a qualsiasi suo “compagno” di un tempo (in cui tale corrente esisteva effettivamente) magari “fatto fuori” dalla socialdemocrazia (tipo Luxemburg e Liebknecht). O ritornano almeno comunisti violentemente antisinistri, desiderosi di regolare i conti con questa sinistra italiana (qualora fosse possibile, ben s’intende), o altrimenti ogni discorso va chiuso con loro.
Credo che il comunismo sia un processo finito, da chiudere per pensare ad altro; tuttavia, capisco bene la nostalgia di una grande stagione (perché è stata grande e non criminale, come dicono stupidi e arroganti nemici), comprendo l’esitazione di fronte al vuoto che adesso si apre – e non può, però, non aprirsi, è necessario prendere atto della realtà – e quindi lo smarrimento che ne segue. Se però si continua a non afferrare la posta in gioco e qual è oggi il nemico principale, gli Usa, di cui la sinistra, da “mani pulite” in poi, è stata lo zerbino su cui si sono puliti i piedi i predominanti centrali e i loro servitorelli italiani della Confindustria e della finanza, subordinata (anche nel suo organo che si pretende regolatore del nostro sistema bancario, diretto da un ex vicepresidente della Goldman Sachs) alle banche americane; se non si capisce questo, e si continua ad appoggiare, in mera funzione antiberlusconiana, una sinistra di “alto tradimento” del paese, allora ogni discorso è veramente chiuso. Chi resta amico di nemici così mortali è a sua volta un nemico mortale. E il nemico più nemico è Di Pietro; gli intellettuali (e comici) che si sono messi con lui (ricordate i loro nomi, che sono tanti fra i noti e sempre nei media) sono da cancellare dal nostro orizzonte.
I comunisti tornino allo spirito dei loro predecessori: non gli schematici e ossificati “marxisti”, bensì i leninisti, reinterpretando però il grande rivoluzionario bolscevico alla luce dell’esperienza storica di un secolo. Ci fu un tempo in cui i leninisti – divenuti seguaci di Mao, altro grande rivoluzionario, ma più sul piano interno e meno, invece, su quello internazionale – scelsero come nemico principale il socialimperialismo (l’Urss) e non l’imperialismo Usa. Una giustificazione c’era comunque, poiché fin da allora l’Urss tentò di scardinare il potere maoista e di portare in primo piano una politica di subordinazione della Cina che, del resto, apparve in chiaro con Gorbaciov e il suo tentativo di “esportare” in quel paese nel 1989 un colpo di Stato, felicemente stroncato. Tuttavia, pur essendo del tutto comprensibile l’esigenza di un atteggiamento vigile nei confronti dei viscidi comportamenti dell’Urss, è stato un errore, alla luce della storia, andare troppo in là nel contrasto in modo tale da favorire alla fine la prevalenza degli Usa e l’affossamento del “campo” ad essi avversario; fermo restando che non si trattava di paesi “socialisti” se non di nome e nell’ideologia ormai pervertita.
L’errore del resto dipese proprio dalla credenza, ormai solo fideistica, del possibile rilancio del comunismo rovesciando il presunto revisionismo. Bisognava comprendere più a fondo fin da allora che Usa, Urss, Cina, erano semplicemente potenze e che bisognava giostrare tra queste. Non però mettendole sullo stesso piano. Alcuni che non so cosa siano divenuti – sospendo il giudizio per mancanza di termini adeguati a tanta imbecillità – continuano a voler considerare egualmente dominanti, nell’epoca attuale, tutti i paesi in via di dar vita, finalmente, ad una nuova fase intanto multipolare. Questo “in via” implica però un’intera epoca storica, non significa domani o dopodomani. Coloro che insistono con il comunismo non vogliono però sentir ragione: bisogna solo appoggiare i dominati, anzi la “classe” o almeno le masse lavoratrici (quelle cui pensano sono esclusivamente
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quelle del lavoro salariato esecutivo). Se qualche debolezza queste masse ce l’hanno, allora ci si schieri con quelle diseredate dei paesi meno avanzati in lotta antimperialista.
Ho sempre appoggiato la sedicente resistenza irakena, ma adesso non è più tanto resistente. Appoggio quella palestinese, ma si concederà che non ha grandi prospettive per un lungo periodo storico. Appoggio la lotta degli afgani, che sembrano meglio posizionati; solo, però, perché la situazione geopolitica in quell’area è a loro più favorevole. E lo è precisamente perché gli Usa sono in relativo declino rispetto a Russia e Cina. Chi sta dalla parte della guerriglia afgana deve capire che le sue possibilità di successo aumentano se si acuiscono i sotterranei scontri tra i vari paesi nominati; tali conflitti, però, non si esasperano se progressivamente non regredisce la potenza Usa nei confronti di quelle nuove in ascesa. Il fatto è che i “comunisti” d’oggi, ormai sconfitti e sclerotizzatisi, non capiscono ciò che aveva compreso perfettamente Lenin: quanto più le potenze in conflitto si equivalgono in forza, tanto meno si uniscono – come temono alcuni, lontani mille miglia dal leninismo – per “fottere” i dominati. Il predominio monocentrico è l’epoca più “pacifica” che ci sia, in cui le possibili rivolte di “chi sta sotto” vengono schiacciate.
E’ superficiale credere che il Congresso di Vienna (1815) sia stato un accordo tra pari potenze per dominare il mondo (quello che allora era al centro della storia). Il paese nettamente prevalente (l’unico veramente capitalistico in piena rivoluzione industriale) era l’Inghilterra. Una volta eliminata la Francia, che aveva osato l’impossibile, gli altri principali paesi avevano bisogno in realtà di un periodo, in cui potessero maturare le condizioni per la loro trasformazione pienamente capitalistica, in particolare quella industriale. I “comunisti” (e scolastici marxisti) non vedono di quel periodo che l’esplosione del 1848, quando si andò meglio delineando la decantazione, nel Terzo Stato, di “borghesia” e “proletariato” (o classe operaia). Ci si scorda che quella fu una fiammata, per di più guidata dagli anarchici e similari, non dai marxisti e comunisti; ne fu esente, non a caso, l’Inghilterra ancora all’apogeo e, per motivi opposti, l’autocratica Russia. I moti furono rapidamente repressi (con decine di migliaia di morti).
Di quel breve episodio – come del resto di quello successivo, limitato a Parigi (la Comune) – resta il ricordo eroico, una serie di insegnamenti che si credé esso avesse fornito, ma resta soprattutto il calore dell’utopia, della speranza vana nell’“autogoverno delle masse”, una “palla” colossale, una mistificazione – accolta con comprensibile entusiasmo da chi vi partecipò – che più tardi fu soltanto utile a nuovi dominanti, cooptati tra quelli più vecchi (come accadde, nel secolo XX, a tutte le sinistre, ai loro partiti e sindacati, in ogni paese ed in ogni epoca del mondo capitalistico). Solo nella seconda metà dell’ottocento – con l’episodio cruciale della guerra franco-prussiana, che porta all’unificazione della Germania nello stesso anno della Comune; e il primo evento, che scalda certo poco i cuori, fu ben più denso di effetti duraturi e di cambiamenti epocali – inizia il relativo declino inglese in rapporto alla stessa nazione tedesca, agli Stati Uniti (in cui la svolta decisiva verso la futura grandezza si ebbe con la guerra di secessione del 1861-65) e, poco più tardi, al Giappone.
Prese così avvio quel processo di differenziazione multipolare che sfociò infine, nel XX secolo, nel pieno policentrismo (detto imperialismo e considerato erroneamente da Lenin quale ultimo stadio del capitalismo); fu allora, nello scontro mondiale tra potenze di forza similare, che scoppiò la Rivoluzione d’Ottobre; le masse si misero in movimento, ma solo un gruppo ben organizzato e con una precisa strategia e tattica seppe guidarle alla reale presa del potere che durò, non fu la solita fiammata. I “comunisti” (ormai veri fossili) sono però delusi perché il capitalismo non conobbe alcun ultimo stadio, si ricreò nel 1945 una nuova fase monocentrica a predominio statunitense, e l’Urss (con i suoi “annessi”) non costruì nessun comunismo, nessun socialismo, nemmeno diede inizio a quel processo. Prima di crollare, più semplicemente, cambiò i connotati del mondo; e, dopo la solo apparente dissoluzione, è risorta la Russia che, assieme alla Cina, è, piaccia o meno, il risultato di quel processo di longue durée iniziato nel 1917. Sputarci sopra mi sembra sciocco.
2. Nessuna illusione quindi; non ho mai sostenuto che Putin o Wen Jiabao siano i nuovi “liberatori” dei dominati, i nuovi leader di una lotta del “proletariato internazionale” contro il Capitale
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(non quello di Marx). Mi auguro però che nessuno sia così fuori di senno da pensare ancora in quei termini. Bellissimi certo – almeno nell’immaginario di chi crede nelle rivoluzioni come momenti catartici – i momenti vissuti nel 1848 in vari paesi, nel marzo-maggio 1871 a Parigi, nei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” a Pietroburgo e Mosca. Tuttavia, non sono state quelle giornate a cambiare il mondo; sono stati processi meno esaltanti, con centinaia di migliaia, anzi milioni, di dominati “divorati” dai dominanti (vecchi come nuovi), processi grigi, lenti, involuti, punteggiati da mille e mille delusioni per coloro che si aspettano sempre la palingenesi totale dell’Umanità.
E’ ora di accorgersi che progressivamente, con i soliti processi tortuosi, sfibranti, della storia, che non rispetta la fretta degli individui, stiamo entrando in una nuova epoca di squilibri (incessanti) e riequilibri (provvisori) caratterizzanti l’avvio del multipolarismo. I frettolosi – e chi lo è più di un “marxista” sclerotico – puntano i fari sulla crisi economica, sui guasti della finanza. Chi è lungimirante sta attento ai sintomi di una crisi più vasta, più politico-sociale (e di carattere internazionale o, se volete, geopolitico), sintomi che segnalano il relativo declino degli Usa (ancora però i più dotati di potenza) in rapporto soprattutto a Russia e Cina (per me, forse più Russia che Cina, almeno nel breve-medio periodo). In questa fase, i potenti non possono mettersi d’accordo per “fregare” i dominati; questi ultimi, invece, giocano all’interno delle contraddizioni tra potenze ed ottengono successi (pensiamo ai talebani e a certi settori pakistani) solo in virtù di queste contraddizioni, che certo essi stessi contribuiscono ad esacerbare.
L’involuzione irakena è la controprova di tale fatto, così come l’infistolamento della rivolta palestinese, che riprenderà reale forza soprattutto quando gli eventi in Iran riusciranno, come penso, a mutare i labili equilibri esistenti nell’area, con calo di forza dei cosiddetti paesi arabi “moderati”, di fatto conniventi con Israele. Ecco perché, fra l’altro, non ha senso la tesi dei “due Stati”; non per volontà malefica di distruggere Israele, ma perché è oggettivamente impossibile mantenere per sempre l’attuale situazione; significa credere alle fate, credere alla convivenza pacifica tra frazioni dominanti contrapposte all’interno del mondo arabo, all’equilibrio finale tra potenze come risultato del multipolarismo. La sopravvivenza di Israele è legata a questi equilibri, che sono destinati a saltare, ad essere sempre più sconvolti, nel corso dei prossimi decenni, quando si entrerà nel vivo del policentrismo.
Non è la crisi economica a incrinare le formazioni capitalistiche dominanti. Essa è solo sintomo, che si andrà aggravando (non d’un colpo e nemmeno in modo permanente e lineare), di un’apparente sostanziale stagnazione che – con qualche somiglianza rispetto a quella degli ultimi decenni del secolo XIX – comporterà un’altra “grande trasformazione”, i cui caratteri è inutile profetizzare (perché di profezia si tratterebbe) in questo momento. Credere che, quando più potenze crescono in forza, mettendo infine termine alla netta prevalenza di una di loro, sia possibile un accordo – ultraimperialistico, quello ben noto e immaginario preconizzato dal “marxista scolastico” Kautsky, il fondatore del “marxismo” dottrinario, di cui ancor oggi sentiamo i flebili ragli – per dominare il mondo, è puro infantilismo. E’ appunto frutto di una dottrina incapace di veder altro che il 1848, la Comune di Parigi, ecc., cioè la “lotta di classe” (classe contro classe senza intermediazioni), la lotta tra dominanti e dominati ridotti a capitalisti e operai, o a paesi imperialisti e masse diseredate del terzo mondo (o a quella tra Impero e Moltitudine, frutto apparente del cervello di un demente, in realtà di un furbone che lavora “per il re di Prussia”; o, meglio, ha tentato di lavorare perché oggi solo ragazzotti di una qualche “Onda” possono credere a simili trovate da saltimbanco).
Lenin, per quanto impastoiato nel marxismo di Kautsky, sapeva leggere il conflitto tra dominanti nella sua forma massimamente dispiegata, quella del conflitto tra potenze in sviluppo ineguale. Che cosa significa, in definitiva, tale espressione? Che da una fase di predominio monocentrico si passa gradualmente – ma non linearmente, senza giravolte e perfino apparenti ritorni all’indietro – al pieno policentrismo, quello che fu denominato imperialismo. Proprio perché il processo non è lineare né continuamente progressivo, proprio perché non dipende da alcun accordo tra dominanti sul piano internazionale (geopolitico) bensì dal loro sordo o aperto conflitto, lo sviluppo delle diverse formazioni particolari (paesi) in fase di crescita come potenze è diseguale, altalenante, com-
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porta dislivelli della forza che spesso mutano di direzionalità. Per tutto un periodo storico, il paese predominante nella fase monocentrica mantiene una prevalenza sia pure in relativo affievolimento, con però qualche brusco risveglio e balzo verso l’alto. Questo è il periodo multipolare, quello che, nella lunga stagnazione (con sviluppo trasformativo) del 1873-96, si andò mutando nella reale “epoca dell’imperialismo” (nel policentrismo).
Nel multipolarismo, i meno forti (non certo dominati seppure sempre sotto tiro della potenza predominante) sono in genere paesi (mettiamo Iran, Pakistan, magari Venezuela, Brasile, ecc.), i cui gruppi dominanti vogliono approfittare della situazione per crescere quali potenze di un certo rango, e nel voler crescere aiutano date forze “popolari” anch’esse munite di gruppi di vertice (mettiamo talebani, Hezbollah, Hamas, ecc.); essi, per così dire, giocano di rimessa, non sono i veri protagonisti principali della storia. Comunque sia, il conflitto più incisivo, quello che sposta veramente i vecchi (dis)equilibri, si svolge tra tutti questi paesi – potenza ancora centrale ma in relativo declino, potenze in crescita, (sub)potenze con qualche velleità (e magari possibilità) – in una fase storica sempre più tumultuosa e disordinata, in cui però si sprecano chiacchiere e riunioni per trovare accordi comuni e di (finta) cooperazione, quella con il coltello sempre nascosto dietro la schiena.
Per i veri dominati, malgrado le fantasie (o la malafede) di alcuni pasticcioni, è necessario un lungo periodo di accumulazione delle forze e un lavorio di organizzazione, del tutto fondamentale se si vogliono evitare, al momento opportuno, semplici fiammate; se si vuole un 1917 (e anni seguenti) e non il 1848, il 1871. Quando ormai eravamo in pieno policentrismo (non mero multipolarismo), Lenin – anche prendendo quale punto di partenza il Che fare del 1902 – impiegò 15 anni a forgiare una forza, un vero corpo di élite (vogliamo smetterla per favore con le proiezioni puramente ideologiche della “avanguardia operaia”?), che poté assestare ai dominanti russi un colpo decisivo, ma nella situazione di sfacelo tipica dell’anello debole.
3. Smettiamola allora di raccontarci oggi favolette. I “comunisti” e “marxisti” d’accatto siano messi da parte senza più discussioni inutili. Partiamo dalla presa d’atto dell’epoca in cui siamo, caratterizzata dall’inizio, ma solo inizio, del multipolarismo. Gli Usa sono il paese i cui gruppi dominanti (in “naturale” conflitto fra loro, quello detto “democratico”) sono ancora relativamente predominanti sul piano (geopolitico) mondiale. Attualmente, i loro principali antagonisti sono Russia e Cina (ribadisco che, per i prossimi anni, credo sarà più efficace il primo paese). A questo punto, chiunque appoggi in qualsiasi modo gli Usa (senza riguardo se ci sia un Bush o un Obama) è un servo – forse sciocco, forse venduto, non mi interessa molto – con cui non si deve discutere mai più. Tutti i paesi sono governati dai dominanti, lo si sa; se la Russia, come potenza, prendesse il posto degli Usa, saremmo contrari al suo relativo predominio e prediligeremmo tutto ciò che contribuisse al suo declino. Oggi però la situazione è inversa. Chi non capisce questo, non ha capito nulla del leninismo, che non è ripetere a pappagallo le “cinque caratteristiche dell’imperialismo”, la concezione del partito come “avanguardia di classe” o quella dello Stato quale mera “macchina al servizio della borghesia”, ecc.
Se questa è la situazione “del mondo”, anche sul piano interno – perché noi agiamo qui ed ora; e non ha alcuna importanza se l’azione è prevalentemente teorica e di battaglia ideologico-politica – dobbiamo comportarci di conseguenza. Come si fa ad essere alleati di chi è il miglior rappresentante della nostra finanza-industria parassita, che trama con gli Usa per avere un governo del tutto consenziente a distruggere le basi strategico-industriali (energetiche e non solo) di una nostra minima autonomia? Ma avete visto cosa ha presentato l’Authority per smembrare l’Eni? Vedete le manovre concentriche forsennate contro l’attuale premier, facendogli colpa di essere “amico” di Putin e Gheddafi? E voi, che pretendete di aver nostalgia del comunismo, appoggiate simili mene, sostenete pure voi che l’importante è abbattere Berlusconi? A me non interessa nulla di costui. Inoltre lo ritengo debole e indeciso, incapace di una vera “dichiarazione di guerra” contro chi sta tramando ai suoi danni. Potrei anche dire che si merita la fine che probabilmente farà.
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Il problema non è questo. Ci sono viscidi opportunisti che si dicono “comunisti” e tuttavia appoggiano di fatto gli Usa, la Confindustria (la cui presidentessa ha infine buttato la maschera), si mettono in combutta con i “traditori” di sinistra (quelli del ceto intellettuale in prima fila) per depredare la maggioranza della popolazione. Mi interessa allora soprattutto la Nazione? Si sbaglia ancora indirizzo. I nostri interessi significano in questo momento fare affari con la Russia, con certi capi arabi; anche, ma in subordine, perché è vantaggioso, soprattutto invece perché questo rafforza il multipolarismo. Inoltre, fare certi interessi nazionali significa dare addosso alle sanguisughe della Confindustria e dell’ABI, favorendo una possibile pur se non facile unità d’azione dei lavoratori salariati con quelli detti autonomi (impropriamente), che sono l’ossatura della nostra produzione e dunque della possibilità di appoggiare la crescita di forze centrifughe anche in Europa, strozzata dalla UE, da questi mefitici organi di dipendenza dagli Usa.
Personalmente, ma so di parlare per il blog al completo, appoggio quei lavoratori che nelle maniere più spontanee cercano di difendere il loro posto di lavoro, anche magari con la nuova trovata, nient’affatto scandalosa, del sedicente sequestro dei manager. Meglio sarebbe prendersela con chi veramente controlla una data impresa (ancor oggi spesso la proprietà), ma non guardo tanto per il sottile. E’ normale difendersi come si può, quando si tratta delle proprie condizioni di vita, di grosse preoccupazioni per il futuro, ecc. Tuttavia, appare ormai intollerabile che, non appena c’è qualche “invenzione” nella lotta di difesa, ci si metta subito a teorizzarla come l’inizio di una nuova “lotta di classe”. Non c’è nessuna classe in azione, è ora di finirla con le mistificazioni. E nessuna fiammata spontanea produrrà nulla di particolarmente positivo, soprattutto se in essa s’inseriranno solo dei mestatori di professione o, nel migliore dei casi, delle teste con il cervello di paglia che credono a sempre “nuove fate”.
Inoltre, dev’essere chiaro che, in Italia e in genere in tutti i paesi a capitalismo avanzato, non esiste un gruppo sociale con la missione speciale di creare una nuova società che dia la felicità a tutti. Occorre favorire la formazione di autentici blocchi sociali, compito per nulla facile in una società spezzettata come quella di tali paesi; per di più in una situazione degradata come la nostra. In linea generale si tratterebbe di avvicinare fra loro i ceti medio-bassi del lavoro autonomo e dipendente (salariato). Non è affatto semplice; ma diventa del tutto impossibile ove si confonda ancora la lotta sindacale dei salariati con il “conflitto capitale/lavoro”, quello vecchio, predicato nell’ottocento e che ha conosciuto un fallimento clamoroso, addirittura da oltre cent’anni, nella formazione capitalistica a più alto sviluppo. I sindacati detti operai sono da molto tempo apparati di Stato, le cui burocrazie hanno al vertice gruppi dominanti cooptati per rafforzare quelli capitalistici; tali gruppi, in genere e comunque sicuramente in Italia da decenni, si trovano in quella sorta di conflitto che è anche sostanziale alleanza con i gruppi capitalistici più arretrati e parassitari, quelli in cui ovviamente, essendo stramaturi, è occupata la quota maggiore della forza lavoro salariata, cioè la massa di manovra di tali apparati e di tali gruppi dominanti sindacali.
4. Chi ha voglia di riprendere a pensare effettive nuove forme del conflitto, deve tornare – ma in una situazione completamente diversa da quella esistente un secolo fa in un paese ancora semifeudale – allo spirito leninista, ad alcune sue indicazioni decisive. Primo: bisogna agire all’interno delle contraddizioni tra dominanti, sapendo che ci sono tempi necessari di maturazione del conflitto. Secondo: le contraddizioni tra dominanti si addensano soprattutto in ambito mondiale, assumendo il carattere di lotta tra potenze man mano che si entra nella fase del multipolarismo; mentre i conflitti tra gruppi dominanti interni ad una formazione particolare (un paese; ad esempio l’Italia dove noi viviamo e agiamo) vanno valutati nel quadro più generale degli scontri sul piano internazionale. Terzo: l’anello debole, nella situazione odierna (non ancora di vero policentrismo), è situato nell’area (o paese) in cui lo scontro tra gruppi capitalistici corre lungo la linea di divisione tra settori avanzati (alla ricerca di maggiore spazio e dunque autonomia) e settori arretrati (maturi e permanentemente avidi di aiuti e assistenza), subordinati alle strategie del paese già predominante che si sforza di non perdere questa sua preminenza e di ritardare la crescita dei poli antagonisti.
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Del resto, quanto detto, pur in diversa situazione, non è completamente lontano da quel che accadde quando l’Inghilterra fece tutto il possibile per prolungare il suo predominio mondiale, essendo ancora in vantaggio ma con nuovi paesi in ascesa. L’ho già sostenuto più volte, ma ripetere è sempre utile per i sordi. Pur se Bismarck apparteneva agli Junker, di fatto la crescita della Germania quale potenza industriale, reale sostegno di quella militare, ha dovuto superare l’ostilità dei proprietari terrieri alle tesi protezionistiche di List (temporanee, solo per l’industria nascente). Il paese chiave per capire la questione sono però gli Stati Uniti. Il sud schiavista – con il sostegno ideologico di certi economisti, che propagandavano le tesi (ideologiche) di Ricardo sul libero commercio internazionale – voleva continuare ad esportare cotone in Inghilterra, il che significava importare i manufatti industriali di tale paese predominante (eravamo ancora in epoca monocentrica). Il nord intendeva sviluppare precisamente l’industria ed avere un suo mercato interno “protetto”, fino a quando tale settore non avesse raggiunto gli standard di competitività di quello inglese, Il contrasto durò parecchi decenni fino al decisivo scontro del 1861-65, uno dei più sanguinosi di tutti i tempi. Avesse vinto la Confederazione, gli Usa sarebbero rimasti un paese succube dell’Inghilterra. L’Unione invece, utilizzando la favoletta ideologica di Lincoln sulla “liberazione degli schiavi” in nome dei “diritti dell’Uomo”, schiacciò il sud; da qui prese il volo la grande nazione che divenne già la più potente alla fine della prima guerra mondiale per poi assumere decisamente il primato dopo la seconda.
L’Italia non è né la Germania né tanto meno gli Usa di quei tempi; non potrà mai entrare nel novero delle potenze in conflitto quando saremo nel cuore del policentrismo. Tuttavia, se si aspetta che l’Europa (dis)Unita diventi potenza, l’attesa sarà più o meno “quella di Godot”. C’è solo la possibilità che alcuni paesi europei giungano a migliori accordi fra loro e si rivolgano, in tema di politica internazionale, verso est (Russia e Cina, che forse avranno far loro qualche contrasto come già in passato; meglio tenerne conto), poiché in quella zona ci sono i nuovi poli potenzialmente antagonisti degli Stati Uniti. Nella fase storica attuale, essi occupano il posto che fu dell’Inghilterra nei decenni successivi alla metà dell’ottocento; quest’ultima era ancora predominante (in specie militarmente e sui mari, che corrispondevano agli spazi aerei odierni) e tuttavia ormai insidiata da Germania e, appunto, dagli Usa. Vogliamo, oggi, essere servi di tale paese, vogliamo cioè restare al seguito dei parassiti italiani della finanza (simile a quella di Weimar) e dei settori industriali stramaturi, gli equivalenti degli ottocenteschi junker tedeschi e dei proprietari di piantagioni di cotone nel sud dei vecchi Stati Uniti? Oppure decidiamo di rafforzare i nostri settori di punta e strategico-energetici e ci colleghiamo, con un nuovo sistema di alleanze, agli antagonisti della potenza che ancora insegue disegni imperiali?
Preferisco nettamente Putin, che mette in galera o in esilio i magnati – l’equivalente di certi personaggi italiani di cui non posso fare il nome ma che tutti conoscono, anche perché alcuni si sono fatti ben notare alle primarie di Prodi e Veltroni, capintesta della rappresentanza politica dei gruppi dominanti finanziari e industriali parassitari, che danneggiano gli interessi nazionali per favorire esclusivamente i loro – e prende decisamente in mano i destini del suo paese. So bene che Putin è un dominante. Vogliamo semplicemente fare i “puri”, in realtà i mascalzoni sempre accodati alle sinistre antinazionali? Se lo si fa, nessuna menzogna può più celare che ci si schiera con i luridi nanetti industrial-finanziari, capaci di curare i propri interessi solo accucciandosi davanti agli Stati Uniti e favorendo i loro piani di prepotenza.
Malgrado l’incredibile (e ormai sputtanato) premio Nobel assegnatogli, Obama non è migliore di Bush; la maschera sta cadendo a pezzi, non è nemmeno escluso il famoso attacco all’Iran. E allora, da che parte staranno tutti i “grandi rivoluzionari” del “comunismo”, dell’antimperialismo, del social forum, dell’altermondialismo? La fine che faranno gli intellettuali, già firmatari dell’ignobile appoggio alla “rivoluzione colorata” in Iran – ormai miseramente fallita, ecco perché ridiventa un po’ realistica l’opzione dell’attacco – la conosciamo fin d’ora. Desidererei sapere degli altri, di quelli che giocano ai nostalgici in buona fede.
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5. Come appena sopra ricordato, hanno dato il premio Nobel per la pace ad Obama; qualcosa che ormai dimostra l’assoluto scadimento di quel premio, ma anche del buon senso e minimo di decenza della vecchia classe dominante, la borghesia, per nulla tenera nei suoi comportamenti. E’ ormai proprio la nuova formazione dei funzionari del capitale, di impronta americana, ad aver infine prodotto una società mostruosa, in cui è tutto invertito. Non ci sono però i paradossi dell’intelligente mondo di Alice, ma solo la più disgustosa menzogna e un atteggiamento criminale in qualsiasi scelta venga compiuta dai dominanti in questa odierna grande cloaca. Tuttavia, è proprio in essa che ci troviamo a vivere ed operare. Crediamo di poter fare appello alla “catarsi operaia”? Non fatemi ridere. Dobbiamo stare in questa merda, analizzarla, perfino – come facevano i vecchi contadini per capire il grado di maturazione del letame o del pozzonero – assaggiarla. Altrimenti, senza dubbio, possiamo anche ritirarci e dichiarare che non ne possiamo più di questo lezzo e di questo sapore vomitevole.
Non è però concesso attribuire la causa della degenerazione di un’intera formazione sociale ad un uomo “basso” in questo nostro piccolo paese. Si deve tornare alla politica, fatta di indagine scientifica e di intuizione della fase. Se provo disgusto per i “traditori” – sapendo comunque, come detto più volte, che si tratta di portatori soggettivi di processi oggettivi (quindi appunto da analizzare) – non è tanto per il tradimento in sé, quanto perché hanno distrutto ogni possibilità di ragionamento, hanno mostrato di essere affetti da una malattia inguaribile di cui, controllando i media (facendo credere che siano invece altri ad invaderle), hanno infettato l’intera società. Il “rinnegato” Kautsky giustificava i suoi voltafaccia sempre usando la ragione e il sapere. Lo stesso fece in Italia un Togliatti, seguito da molti intellettuali del vecchio Pci. Con loro era necessario polemizzare, ma sempre argomentando a partire da determinate categorie di pensiero, da punti di vista secondo cui utilizzarle in politica.
Questo “mondo” è finito. Esistono sparuti gruppetti che s’illudono, scolasticamente, di ripetere vecchie teorie ormai sclerotizzatesi in dottrine religiose. I più numerosi si sono invece disabituati a pensare, conducono lotte solo personalistiche, indicano un Uomo Nero che è il nemico da cui proviene tutto il male del mondo, quel male che sono invece loro a diffondere. Qui forse non si può nemmeno più parlare di tradimento in senso proprio, ma più precisamente di vero cancro, di vero processo infettivo che sta facendo andare in cancrena ogni minimo vivere civile. Anche questo processo, senza dubbio, deve essere studiato; esso trova il suo punto di concentrazione in Italia con ramificazioni in altri paesi europei. Indubbiamente, non si può eliminare questa malattia mortale se non si riuscirà a capirne le cause sociali profonde, quelle che definiamo strutturali, relative cioè ai rapporti sociali. Un’analisi di tali cause è impossibile se non si riformulano, destrutturando e ristrutturando, invecchiati sistemi teorici (non solo il marxismo). Tuttavia, è indispensabile essere consapevoli che, prima o poi, deve pure essere ripulito l’organismo dalle cellule cancerogene.
E adesso torniamo quindi alla politica, all’analisi delle sue coordinate attuali. Tenendo ben ferme le reali caratteristiche della fase: sul piano internazionale, in primo luogo, ma subito dopo su quello interno. Però, basta lotte impostate sull’odio insensato verso singole persone, basta con l’infezione di sinistra. Chiariamo i reali contenuti della sua forsennata battaglia contro Berlusconi, e chi c’è dietro questa indecente canea; senza ripiegare sull’indubbia pochezza dell’uomo. Qui non è in ballo un semplice verdetto elettorale. Nemmeno sono un difensore strenuo della “democrazia”, una mera lotta tra lobbies, tra gruppi dominanti che cercano più o meno possibili o impossibili alchimie. Tali “gruppi di pressione” sono diversi, e diversamente si atteggiano nella lotta per il potere, a seconda che siano alleati con i gruppi dominanti del paese preminente o invece ricerchino un loro spazio autonomo; almeno fino a quando non si entri nell’effettivo policentrismo. Adesso non ci siamo; e tanto meno siamo alla riorganizzazione dei cosiddetti dominati, che non avverrà mai dal basso, non avrà mai vero successo, ma solo fiammate spente con la violenza dai dominanti, finché tra questi non esploderà il definitivo confronto per la supremazia. Chi non ha voglia di attendere, si faccia pure schiacciare, noi non gli saremo accanto.
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Tutti i dominanti fanno schifo, sono prevaricatori e massacratori; quelli che usano la “democrazia” sono peggiori degli altri. Tuttavia, si deve valutare attentamente lo sviluppo della loro lotta, comprenderne la direzione di marcia, fare previsioni sempre rivedibili, compiere una continua opera di smascheramento e di preparazione di nuove generazioni di oppositori, che sappiano calarsi nei radicali mutamenti di fase quando questi si verificano così come sta avvenendo oggi. Continuiamo dunque nella strada intrapresa; parleremo con tutti quelli che sono pronti a rivedere il loro passato, senza contrapposizioni (comunismo e anticomunismo, fascismo e antifascismo, ecc.) prive ormai di incidenza effettiva: solo paralizzanti, accecanti. Torneremo su questi problemi e con sempre maggiore decisione e antipatia secca verso i ruderi che intralciano il cammino.
Giellegi
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