CAPITALISMO ITALIANO, CAPITALISMO ANTINAZIONALE
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1. Prima o poi sarà necessario che qualcuno riscriva la storia del capitalismo italiano nel novecento, e della Fiat in particolare. Credo ci si ricordi della foto di Valletta e di Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato) in fez e camicia nera. Tuttavia, erano fascisti obtorto collo, avrebbero preferito un Governo Giolitti-Turati (un centro-sinistra ante litteram) quale garanzia migliore per gli interessi della loro azienda. Si dovrebbe seguire tutto l’iter della creazione dell’IRI; dopo un anno di “rimessa in carreggiata” dell’industria (con la solita “socializzazione delle perdite”), Beneduce, incaricato da Mussolini, offerse agli imprenditori privati (fra cui “quelli della Fiat”) di riprendere in mano la situazione. Con grande “preveggenza” (cioè assoluta miopia e scarsa propensione all’imprenditorialità “schumpeteriana”) costoro rifiutarono; si dice volessero, per soprappiù, sovvenzioni onde non rischiare proprio nulla. Da lì partirono le fortune dell’industria statale italiana e delle grandi banche (statalizzate) che poi, a guerra finita e con l’aggiunta di quel pezzo rilevantissimo che fu l’Eni e più tardi l’Enel, sono state promotrici importanti del nostro sviluppo industriale e base forte del potere democristiano e, successivamente, del centrosinistra.
Sarebbe interessante sapere quale parte abbia eventualmente avuto la Fiat nel colpo di Stato monarchico-badogliano del 25 luglio 1943 con cambio di alleanze dell’Italia. Nel dopoguerra, questa azienda – diretta da imprenditori che nulla volevano rischiare, e quindi costantemente sorretta con finanziamenti pubblici e costruzione di infrastrutture necessarie a sviluppare il trasporto di persone e merci su ruota, mentre assai meno si faceva per quello su rotaia – fu uno dei principali gruppi dominanti a spingere il paese alla subordinazione all’area “atlantica” (Usa). Nel contempo, essa fu all’avanguardia nel reprimere duramente ogni lotta operaia (“reparti confino” e altri ammennicoli). Quando le convenne, fece l’accordo sulla “scala mobile” (1975), che teneva conto dell’indice del costo della vita (sempre più basso rispetto al reale) e non invece dell’andamento del Pil e della produttività del lavoro. Nell’ 80 favorì la “marcia dei quarantamila” (quadri) per contrastare la troppa “ingordigia” di Pci e Cgil. Infine, al “crollo del muro”, irretiti i piciisti dalla prospettiva di salvarsi dal tracollo “socialistico” divenendo i migliori servitori degli Usa e della nostra Confindustria, furono favorite le privatizzazioni decise nell’incontro sul panfilo Britannia. Il processo di esaurimento di ogni residua nostra autonomia, facilitato fra l’altro da una specie (anomala) di colpo di Stato (d’ordine giudiziario e non politico-militare), vide la Fiat sempre all’avanguardia del capitalismo antinazionale italiano. Famosa la frase di Agnelli che, grosso modo, suonava così: nulla di meglio della sinistra se voglio difendere i miei interessi di destra (in realtà dei gruppi capitalistici subdominanti rispetto a quelli statunitensi predominanti).
La Fiat è stata dunque nell’intero dopoguerra la capofila dell’industria “decotta” italiana (quella, cioè, delle passate “rivoluzioni industriali”) e dei nostri istituti finanziari, “weimarianamente” asserviti a quelli statunitensi; per tutto un periodo storico, prima della recente crisi, la finanza americana ha avuto come sua “punta di lancia” la Goldmann Sachs (si vedano in youtube le dichiarazioni rese a Unomattina da Cossiga in merito alla nomina a Governatore della Banca d’Italia di un vicepresidente di tale istituto americano, dichiarazioni contro le quali, per semplice salvaguardia della propria onorabilità, qualsiasi altro personaggio avrebbe mosso querela per diffamazione grave, gravissima).
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Il colpo di mano del 1992-93 fu fatto, soltanto in parte, fallire dall’intervento in politica di Berlusconi (certo per difendersi, non per “nobili scopi”). Tuttavia, non si è mai più sanata la situazione di grave dipendenza del capitalismo italiano; già sussistente, sia chiaro, dalla fine della guerra mondiale, ma con qualche capacità autonoma di manovra (in specie verso il mondo arabo e nei Balcani). Pur se va ricordato che la più forte azione indipendentista fu quella promossa dall’Eni (impresa “pubblica”) durante la direzione di Mattei; e se questi fu eliminato, appare ovvio che la mafia, tirata
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spesso in ballo, è stata al massimo la fornitrice della “mano d’opera”. Se, come tutti hanno sempre pensato, l’incidente di Bescapè non fu affatto un incidente, è difficile credere che non ci fossero nel regime politico italiano, e anche dentro la stessa Eni, determinate “quinte colonne” filo-americane.
Comunque, di questo non si saprà più nulla. Resta il fatto che dopo l’incidente la nostra autonomia, già ridotta, diminuì ancora; non si annullò però completamente fino al 1992-93. Dopo di allora, il capitalismo “privato” italiano, il cui nocciolo era la GFeID (con capofila la Fiat e la Confindustria da questa influenzata pesantemente), fu sempre più apertamente antinazionale. Per difesa direi quasi personale, Berlusconi ha messo più volte i bastoni fra le ruote a tale blocco capitalistico reazionario, che si è rivolto alla sinistra nel tentativo di prevalere infine nettamente (con Prodi sembrò quasi farcela). Il lavoro detto autonomo, le PMI, perfino settori sempre più rilevanti dei salariati (indagini appena effettuate dall’Ipsos Sole24ore sull’orientamento elettorale danno il 60% degli operai favorevoli al centro-destra, mentre la sinistra prevale solo tra studenti e insegnanti), pur senza alcuna consapevolezza di quanto stava (e sta) accadendo, hanno di fatto aiutato Berlusconi a difendersi, ma per i “fatti propri”, da questi vampiri e sanguisughe del nostro paese.
Anche gli unici lembi “pubblici” dell’industria italiana, in particolare l’Eni che per ragioni geoeconomiche è necessariamente “volta ad est”, sono difesi da pochi settori politici contro le manovre della GFeID, particolarmente devastanti per l’autonomia del nostro paese. Quale esempio preclaro, teniamo ben presenti i reiterati tentativi di scorporare la rete di distribuzione da quella di produzione della nostra azienda energetica, al fine di indebolirla fortemente e lasciarla completamente in balia degli interessi “privati” (cioè degli imprenditori succubi delle strategie statunitensi). Non solo la sinistra, ma buona parte della destra, sono schierate per la più supina acquiescenza agli Usa (acquiescenza di cui è preciso sintomo, fra l’altro, l’indegno atteggiamento sempre filoisraeliano perfino di fronte alle peggiori azioni di quello Stato); il grosso degli schieramenti attuali – se non si avvia un processo inverso a quello di mani pulite, ma di carattere apertamente politico senza “surrogati” d’altro genere – non potrà che restare asservito all’antinazionale apa (accolita per azioni) del capitalismo italiano.
Dal punto di vista delle sedicenti “leggi del libero mercato”, la Fiat era e resta un’impresa decisamente fallimentare. L’operazione Fiat-Chrysler (con propaggini verso la GM) si basa su un finto “piano industriale”. L’operazione è condotta con non particolare furbizia, ma trova conniventi le forze economiche, politiche, giornalistiche, ecc. – salvo rarissime eccezioni che, proprio per questo, vanno encomiate senza fare gli schizzinosi con i soliti facili “da che pulpito….” – per cui non vi è dubbio che tutta l’opinione pubblica italiana casca nel tranello; e così pure buona parte di quella europea. Il “piano” è al 100% politico, si inquadra nel mutamento di strategia degli Usa dopo che quella apertamente “imperiale” – dei due Bush e di Clinton – è ormai accantonata per un periodo di tempo non predeterminabile, ma credo non breve. Questo è il significato dell’elezione di Obama, un’altra operazione vergognosamente osannata dalla sinistra e da buona parte della destra; una pura operazione di immagine (come fu quella di Kennedy). Mentre si tratta in realtà di un uomo che rappresenta ambienti particolarmente reazionari, con uomini di punta legati a quella finanza contro cui si tuona ufficialmente, attribuendole tutta la responsabilità della crisi (altra operazione “pubblicitaria”, di distorsione della realtà, cui si prestano perfino laidi residui “radical” e “marxisti”).
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Da un certo punto di vista, l’operazione che gli Usa conducono tramite la Fiat non pare avere l’ampiezza strategica di quella tentata nel 1992-93 con lo scopo di asservire completamente questo nostro povero paese. Tuttavia, quel gigantesco inganno e manipolazione dell’opinione pubblica italiana non ebbe alla fine un grande successo; e mai ha condotto alla sedicente “seconda Repubblica”, bensì solo a quella “una e mezzo”. Il fallimento dipese da due motivi, su cui sbagliarono i loro calcoli i “complottardi”. Innanzitutto, la maggioranza elettorale, che aveva sempre votato per il centrosinistra Dc-Psi, non poteva rassegnarsi a regalare il governo ad uno schieramento incentrato sui
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“nemici di sempre”, per quanto questi avessero rinnegato ogni cosa possibile e immaginabile (e persino l’inimmaginabile). Inoltre, gli “sciocchi” – probabilmente proprio istigati dalla Confindustria, con a capo la solita Fiat – fecero l’errore (eccesso d’arroganza) di voler distruggere imprenditorialmente Berlusconi, considerato forse ancora un residuo del “craxismo” e quindi, malgrado il suo smaccato filo-americanismo, non fidato al fine di ridurre tutta l’economia del paese – e l’attività dell’intera forza lavoro: dipendente e “autonoma” – a forziere da rapinare per coprire i buchi delle proprie operazioni fallimentari, prive di qualsiasi progetto di reale sviluppo; meno fidato perfino di quei falsoni dei rimasugli di sinistra “estrema” che, per ingannare i nostalgici della “falce e martello” e del “movimento dei lavoratori” (ormai in emigrazione, per fortuna, verso tutt’altra parte), hanno per anni giocato agli “antimperialisti” antiamericani.
Adesso, comunque, è presto per ben valutare il pericolo di ulteriore depauperamento e sottomissione dell’Italia alla nuova, più subdola, manovra statunitense, che si serve per i suoi scopi dei nostri falliti industriali (la finanza è già abbondantemente subordinata perfino negli uomini che ne stanno a capo). I raggiri condotti dagli Usa nel Caucaso, in Pakistan e Afghanistan e anche in Sud America (malgrado i finti sorrisi e le false strette di mano tra Obama e Chavez, ecc.), sono sintomo della maggior pericolosità di questa Amministrazione rispetto alle precedenti, più scoperte e “sincere” nella loro prepotenza a tutto tondo. La Fiat – fallita in quanto impresa – è ormai legata mani e piedi alle sorti di questa nuova politica statunitense; adesso si presta a fare pure da testa di ponte in Germania con il tentativo in direzione della Opel. Anche tale manovra politica, al seguito di una potenza straniera, è presentata come pura “operazione di mercato” (dalla stessa Merkel, che ha impresso alla politica tedesca, già da anni, una decisa virata in senso filo-Usa).
Si sostiene che la Fiat forse dovrà cedere la Iveco per reperire soldi. Anche se simile operazione venisse realizzata, sarebbe solo per mascherare l’assoluta politicità del nuovo ruolo assunto dall’azienda torinese in quanto “sicario” della politica “obamiana”. Il ricavato della vendita Iveco, se questa vi sarà, verrà strombazzato da “venduti” ambienti economici, partiti e stampa italiani (e stranieri) come dimostrazione che tutto si gioca nel pieno rispetto del “libero mercato”. Va denunciata questa vile gentaglia ormai solo mercenaria degli Stati Uniti. In Germania sembrano esserci maggiori ostacoli che in Italia, in specie presso dati settori economici e politici (di cui fa parte l’ex cancelliere Schroeder), che naturalmente agiscono pure loro per precisi interessi. Questo può turbare soltanto gli sciocchi (o imbroglioni) che predicano scopi “ideali”. Qui si sta giocando la sorte di un’area che, dopo almeno tre secoli recitati da attore principale nel proscenio della storia, dal novecento (soprattutto nella seconda metà) ha cominciato ad entrare nel “cono d’ombra”. Oggi, però, si sta esagerando con la riduzione dell’Europa a puro zerbino degli Usa nella loro lotta contro le potenze emergenti. Soprattutto indigna il ruolo che meschini e falliti ceti dirigenti, guidati da questa vetusta azienda del “superato” settore automobilistico, vogliono assegnare all’Italia: quello del più servo di tutti i paesi europei.
A fronte della Fiat – in quanto semplice, e forse modesto, avamposto delle nuove “orde obamiane” – si erge l’Eni e poco più. La stessa Finmeccanica ha troppe cointeressenze con gli Usa, pur se potrebbe comunque diversificare maggiormente la sua area di mercato. In ogni caso, i nostri interessi vengono calpestati soprattutto dalle mene condotte – in area europea (sempre con la “buona scusa”, di cui si presenta la pura veste economico-mercantile, di diversificare le fonti di approvvigionamento di energia), ma per conto delle nuove “aggiranti” manovre statunitensi ai fini del predominio mondiale – contro il Southstream (Eni-Gazprom con “allungamenti” verso la Noc libica e la Sonatrach algerina) e in favore del Nabucco, progetto patrocinato dagli Usa perché volto a danneggiare la potenza russa. Interessantissimo seguire al proposito tutte le oscure e lambiccate manovre statunitensi verso il Caucaso (servendosi soprattutto del Turkmenistan), verso la Turchia (che si cerca di rabbonire appoggiandola nei suoi desideri di entrare in Europa malgrado il “broncio” di Francia e Germania), perfino verso l’Iran, tentando di impedire possibili alleanze con Russia (e Cina) e con ciò sollevando ostilità e diffidenza in Israele, ecc.
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Tuttavia, non cadremo nel puro economicismo. Senza dubbio, dal punto di vista della classe dirigente finanziario-industriale e per interessi di potere con però chiara impronta economica, esistono in Italia due schieramenti: uno, quello dei servi antinazionali, capeggiato (di nuovo, dopo i brutti colpi, squalificanti, presi dall’apparato finanziario) dalla Fiat, l’altro capeggiato dall’Eni. La situazione non è per nulla rassicurante. Così come non è rassicurante che, tutto sommato, il secondo schieramento (oggettivamente nazionale) abbia qualche appoggio politico in più negli ambienti – non a caso tanto denigrati da intellettuali e giornalisti di sinistra, i peggiori, ma anche da buona parte di quelli di destra – che vengono dati per “berlusconiani”; e contro cui si usa di tutto, perfino i fatti della vita personale. Non credo ci si possa fidare di un Berlusconi. Non certo per quel che dicono i vermiciattoli di sinistra: meschini, venduti, immorali, privi di qualsiasi dignità. Non ci si può fidare soltanto perché certi ambienti sono labili, risentono di come muta il vento, stanno attenti solo a quei vantaggi che, alla fine e dopo tanti anni di denigrazione e calunnia (e persecuzione giudiziaria), potrebbero magari essere offerti sulla base di nuovi inganni, di più accorti aggiramenti delle posizioni, di “serpenteschi” sorrisi e strette di mano; tutto il nuovo armamentario dell’infida strategia americana, sempre tesa alla supremazia mondiale, oggi come e più di ieri. Bush era un “rozzo cow-boy”; Obama è un “rettile” che cerca di ipnotizzare le sue vittime, strisciando loro tutt’intorno in sinuosi avvolgimenti per poi colpire di scatto scaricando il suo veleno.
Qui non bastano le mire economiche delle nostre aziende, pur se alcune, come già detto, sono ormai in pieno gioco di svendita degli interessi nazionali, mentre altre li difendono. Occorre una vera durissima forza politica che non usi più pietà verso i traditori e i venduti, quelli che ci pugnalano alle spalle, pagando fior di marmaglia intellettualoide – vergognosi economisti, (in)esperti finanziari, politologi, perfino filosofi che ormai sono dei puri venditori di noccioline (americane) – per incamminarci verso l’abisso del più puro abominio. Ammetto che una forza politica simile non si vede; eppure non si deve smettere di invocarla, è ormai necessaria più dell’aria (inquinata) che respiriamo. E, se dovesse venire, dovrà usare metodi “esemplari”, più di ogni altra volta nella nostra storia; poiché mai, come questa volta, gli odierni ceti dirigenti italiani hanno toccato un simile fondo di ignominia servile e di svendita del paese, accettando perfino di fare da testa di ponte (d’oltreatlantico) per piegare alla torbida strategia statunitense anche altri paesi europei (certo in combutta con una parte non irrilevante dei loro gruppi dominanti, altrettanto verminosi dei nostri).
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