SOCIOLOGIA DEL CONFLITTO
La sociologia del conflitto nasce con Marx e prosegue con Weber. In Max Weber, anche se non solo in lui, è presente la tematica decisiva del disincanto, del disincantamento del mondo. Weber è stato influenzato in modo rilevante dalla filosofia di Nietzsche e dal concetto di nichilismo che è anche, tra l’altro, in quanto trasvalutazione di tutti i valori, la messa tra parentesi e la negazione di questi valori stessi nell’aperta prospettiva di una nuova fase creatrice. Ma in Nietzsche è presente il sentimento della nostalgia per quei periodi “creativi” della storia in cui quegli eventi che lui nomina attraverso espressioni come “valori superiori” e “uomini ben riusciti” sembravano manifestarsi concretamente e visibilmente. In alcuni passaggi il filosofo afferma che le idee moderne sono “cattive” proprio in quanto moderne e scivola in queste occasioni in un elogio della gerarchia e della società organico-castale troppo acritico per poter essere preso in considerazione. E’ proprio lui infatti ad ammettere che sono i “migliori”, sempre in netta minoranza, a soccombere regolarmente di fronte alla massa avida, arida e cinica e nello stesso tempo “mascherata” e celata dietro quei valori che si pretendono universalmente buoni e giusti, e perciò anche veri, e che servono per confondere gli avversari e convincerci che bisogna essere miti e gentili anche quando vogliono bastonarci; in cambio della sottomissione in questa vita avremo, poi, la ricompensa nell’oltremondo. Nietzsche, nel momento del suo richiamo alla tradizione, principalmente all’ antichità classica, nella forma del dionisiaco ma non solo – e nonostante la sua cosiddetta fase positivistica (nella sua raccolta intitolata Umano troppo umano) – vive, per così dire, il disincanto come una perdita dolorosa, una distruzione però necessaria, in cui i valori “cattivi” ( quelli “buoni” nella coscienza delle masse) devono essere annientati perché gli altri valori, quelli “superiori”, i valori degli uomini “nobili” hanno già definitivamente perduto tutte le battaglie e quindi la loro guerra in maniera definitiva. Il disincanto, in certo qual modo, non è voluto né pensato come definitivo e per dirla con Heidegger “se i vecchi dei se ne sono andati e non si scorgono ancora i venienti [nuovi dei]” rimane il fatto che “solo un dio” o per Nietzsche una nuova generazione di dei – che rovesci il vecchio edificio del Cristianesimo – “ ci può salvare”.
Noi invece, e in particolare La Grassa, sempre in termini di una teoria che è comunque ipotetica e di fase, riteniamo il disincanto un fenomeno “definitivo”, un disincanto non solo riferito ad una irreversibile “modernità” ma anche al comunismo storico e alle teorie e filosofie che continuano a richiamarne l’avvento sulle base dell’immagine di esso che è stata costruita nell’epoca del marxismo storico otto-novecentesco il quale, per motivi già ricordati altre volte, considero definitivamente deceduto nel periodo 1991-1996. La volontà di potenza limitatamente alle relazioni nella società – ovvero in quanto fondamento ontologico della dimensione conflittuale all’interno dell’essere sociale e delle formazioni sociali storiche e pre-istoriche – è un elemento del pensiero di Nietzsche che in qualche maniera è da noi richiamato ma non come prospettiva intrascendibile – proprio perché non intendiamo fare riferimento a nessuna nozione normativa di natura umana – anche se riteniamo legittimo che di questo si occupino i filosofi che si curano dei fini nella direzione del “meglio” e che pongono le legittima domanda sul senso dell’essere e degli enti (ed eventi) naturali e sociali.
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Ma proviamo ora a riportare un “frammento” di Nietzsche tratto da Così parlò Zarathustra che rimane l’unico libro, da lui effettivamente scritto e pubblicato in vita, in cui siano – seppure in forma poetica – riassunte tutte le sue idee principali.
Si tratta di un brano molto conosciuto che introduce l’immagine del cosiddetto ultimo uomo: <<Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. “Che cos’è amore ?E creazione ? E anelito ? E stella ? ” – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa
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saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore. Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa. Guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini ! Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo. Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuol ancora governare ? Chi obbedire ? Ambedue le cose sono troppo fastidiose. Nessun pastore e un sol gregge ! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio. “Una volta erano tutti matti”- dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio”.
Da una parte il bersaglio di Nietzsche è qui la società di massa, un sistema sociale che nei paesi cosiddetti sviluppati, almeno fino ad oggi, ha prodotto sia un livellamento culturale che un diffuso conformismo (per l’occidente costituitosi a partire dall’americanismo culturale ed economico-sociale) riguardo alle idee e ai modi di vita che vengono ritenuti maggiormente soddisfacenti e prestigiosi. Questo massiccio conformismo di massa caratteristico di un tipo di società che negli ultimi decenni ha visto un grande incremento del ceto medio – sia pure con livelli di reddito abbastanza differenziati – ha avuto la sua genesi proprio in quel movimento, caratterizzato per molti versi dalla “ribellione” giovanile degli anni 60 e 70 del secolo scorso, che si proponeva invece di sviluppare la creatività individuale e la liberazione dai dogmi patriarcali e dalle norme repressive della morale “borghese”. La formazione sociale dei funzionari del capitale che, almeno in occidente, è l’orizzonte in cui adesso ci troviamo ad agire ed operare sarebbe stata però molto gradita al filosofo tedesco perché avrebbe ( o meglio ha) scongiurato il possibile avvento di una società di tipo socialista visto anche che, in Germania – proprio nel periodo in cui Nietzsche scriveva – mentre si poteva assistere allo sviluppo di un capitalismo il quale aveva iniziato la sua seconda rivoluzione industriale appariva già manifesto il contemporaneo sviluppo di un movimento operaio sempre più forte, organizzato e ormai attrezzato con propri pensatori, ideologi e capi politici. Il lavoro come intrattenimento, un ordine sociale in cui nessuno voglia diventare più né ricco né povero e in cui non vi sia più chi comanda e chi obbedisce ma un unico e solo gregge: tutto questo fa parte della rappresentazione che Nietzsche e molti altri in quell’epoca si erano fatti di una possibile società socialistica e/o comunistica. Questo timore, per il filosofo che riteneva che l’essere umano fosse caratterizzato e determinato, in quanto vivente e vivente in società, da un impulso che lo spingeva a volere la potenza, dovrebbe apparire ingiustificato a meno di non ipotizzare che nel suo pensiero non fosse affatto presente una interpretazione della natura umana come un concetto fondato ontologicamente e trascendentalmente ma invece – malgrado l’apparenza – come una categoria radicalmente storica. La sua ipotesi del superuomo nascerebbe allora dalla possibilità che l’essere umano giunga ad uno stato di decadenza e di indebolimento – da lui simbolicamente rappresentato sotto forma di degenerazione dovuta alla prospettiva dell’avvento universale della virtù cristiana ( e “socialista”) della compassione – del tutto irreversibile e tale da richiedere il superamento dell’ “uomo” stesso. Così si esprimeva infatti, più avanti nel libro sopra citato, lo stesso Nietzsche:
<<E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. “ Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa.>>
L’ipotesi della permanenza della dimensione conflittuale nella natura e nella storia è presente nella
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teoria della società di La Grassa che pure, nei termini della sua rigorosa metodologia, non né fa un concetto indipendente dalla pratica teorica da cui viene fondato che è sempre una “pratica” relativa ad una determinata fase. È pur vero che la teoria della società come teoria del conflitto è stata fondata da Marx e continuata da Weber ma questo non significa che la dinamica del conflitto strategico nella sua attuale configurazione teorica abbia la pretesa di spiegare anche ciò che il futuro ci proporrà.
Mauro Tozzato 16.08.2008