COMPETIZIONE TRA IMPRESE, CONFLITTO TRA STATI

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(9 giugno 08)
In attesa degli sviluppi (eventuali) dell’energia nucleare (una grande menzogna è comunque quella del suo abbandono, che non sta avvenendo quasi da nessuna parte) e di fonti alternative (in ogni caso da non sottovalutare, pur se non sembra affatto possano contribuire con alte percentuali al sempre crescente fabbisogno mondiale di energia), non deve essere trascurato il conflitto, assai rilevante per gli equilibri geopolitici, inerente alle vecchie e usuali fonti energetiche relative a petrolio e gas. In particolare, nell’area che più ci è vicina, vi sono tre progetti alternativi e in competizione. A dir la verità molti si affannano a dire che sono complementari, che c’è spazio per tutti; ciò è parzialmente vero, dati i consistenti aumenti dei consumi energetici, ma la parziale verità maschera il reale scontro tra potenze: quella predominante centrale (come al solito coadiuvata in sede europea) e quelle in crescita ad est; a questo proposito (gas e petrolio), soprattutto la Russia.
In questo scontro si inserisce, sembra con particolare efficacia, la nostra Eni (che si servirà della società Yukos, acquisita con il benestare dello Stato russo), mediante accordi principali con la Gazprom per iniziare e portare a termine in pochi anni un gasdotto, il Southstream, che bypasserà paesi poco “fidati” come l’Ukraina, attraverserà il Mar Nero e arriverà in Bulgaria, dividendosi poi in due rami: uno proseguirà per Romania e Ungheria finendo in Austria per servire buona parte dell’Europa nord-orientale, mentre l’altro passerà per la Grecia e sboccherà in Italia, più o meno a Otranto. Nel contempo, ci sono accordi in corso con la Sonatrach (Algeria) e la Noc (Libia), tramite cui il progetto italo-russo potrebbe essere integrato da gasdotti che arrivano da quei paesi in Sicilia e Sardegna, ecc. Situazione in movimento, ma estremamente interessante.
E’ ben noto che, prima ancora dell’accordo Eni-Gazprom, esisteva un altro progetto, del tutto alternativo poiché tendeva proprio a sottrarre (solo in parte però) la UE alle possibili decisioni russe in merito alla fornitura di gas. Si tratta del previsto gasdotto Nabucco che dovrebbe essere realizzato da cinque società europee orientali – Mol (Ungheria), Omv (Austria), Bulgargas (Bulgaria), Transgas (Romania) e Botas (Turchia) – dietro le quali esiste però non solo la UE, ma anche la “manina” degli Stati Uniti, per evidenti motivi di indebolimento della forza russa e della sua influenza sull’Europa grazie alle forniture di gas. Il Nabucco, nei progetti, dovrebbe portare gas dal Mar Caspio, evitando Russia e Ukraina, contribuendo per un 15%, entro il 2025, al consumo europeo di tale fonte energetica. Questo gasdotto dovrebbe essere lungo 3400 Km, sarebbe quindi assai costoso, e dovrebbe alla fine avere una portata di 30 miliardi di mc. di gas all’anno.
Si tenga conto che attualmente, e senza ancora il Southstream, la Russia contribuisce al fabbisogno europeo di gas per un 25% circa. E’ però soprattutto interessante notare che il Nabucco dovrebbe sfruttare i giacimenti iraniani (secondi al mondo) e quelli di Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan; tutto ciò malgrado ben si sappia quale contenzioso esista tra gli Usa e l’Iran e come sia sorda la lotta per l’influenza nelle Repubbliche centroasiatiche, dove la Russia ha riconquistato comunque (almeno così sembra) una buona posizione, indebolendo quella statunitense. Per vari motivi, che non sono poi del tutto chiari (ma è facile supporre che i motivi in questione si riallaccino alla contesa politica nelle aree appena indicate da cui si dovrebbe prelevare il gas), il progetto Nabucco appare in ribasso e non sembra reggere il confronto con quello Eni-Gazprom (così almeno si dice).
Nell’aprile scorso la Mol ungherese e, questa volta direttamente, la statunitense Exxon hanno stipulato un accordo per prospezioni nella zona di Mako (in Ungheria) dove si valuta ci siano giacimenti fino a 1500 miliardi di mc. di gas. Si ritiene che tale progetto, in tempi però probabilmente più lunghi del Nabucco (poiché deve essere ancora iniziata la prospezione e poi perforazione di pozzi fino ad una profondità di 4.300 metri), abbia maggiori probabilità di essere il vero competitore di quello italo-russo (che dovrebbe appunto coinvolgere anche Algeria e Libia). Un responsabile dell’Eni si è dimostrato poco preoccupato perché, ha detto, “vi è posto per tutti”, dato il previsto forte accrescimento del fabbisogno energetico, in Europa non meno che in altre parti del mondo in pieno sviluppo. Non c’è da credere troppo a queste “benevole” dichiarazioni perché, malgrado l’ovvietà della crescita dei consumi di energia, la competizione non sarà certo meno accanita e pro-
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terva. In definitiva, sembra si debba concludere che l’Eni, in questo frangente, sviluppi una politica indipendente, anzi in contrasto con quella degli Stati Uniti, una politica che favorirebbe un paese, la Russia, in potenziale competizione futura con il predominio centrale di questi ultimi; conclusione che tuttavia potrebbe anche essere piuttosto superficiale e affrettata.
Prendiamo comunque in considerazione le strategie di investimento e di mercato di un’altra grande impresa italiana (sempre in parte controllata dalla “mano pubblica”), la Finmeccanica; impresa a dire il vero multinazionale, ma la cui direzione strategica è situata nel nostro paese. Essa, al contrario dell’Eni, sembra assai legata alle prospettive dell’economia americana. E’ vero che ha stabilito una serie di contratti anche con la Sukhoj russa, per la fornitura di un buon numero di aerei da 60 a 110 posti per trasporto viaggiatori su linee interne al grande paese, che sta nuovamente rafforzandosi dopo la disfatta con dissoluzione dell’Urss nel 1991. E’ comunque nettamente predominante il legame di questa nostra azienda, d’eccellenza in campo elettronico, con il sistema economico-produttivo statunitense. Si pensi, ad esempio, all’acquisizione della Drs, impresa americana non grandissima ma estremamente avanzata nel settore, e che ha come cliente principale (forse esclusivo) l’esercito del paese predominante. Non parliamo poi di altri contratti – per la fornitura di elicotteri, aerei, apparecchiature varie e assai avanzate – sempre stipulati con il solito paese.
Naturalmente, gli sciocchi – meglio, i consapevoli propalatori di ideologie mercatiste di puro inganno (per i gonzi) – fanno finta che la Finmeccanica vinca gli appalti solo grazie alla sua superiorità tecnologica. Che si tratti di una impresa di valore, non c’è alcun dubbio; e si tratta senz’altro di una precondizione. Tuttavia, credere che la nazione oggi globalmente più influente (e di gran lunga) consenta ad una impresa straniera di diventare la principale fornitrice di strumentazione militarmente rilevante solo per ragioni tecnologiche e mercantili, è sintomo di ingenuità o di pura vocazione a mentire (ed è la seconda opzione la più credibile).
In effetti, la Drs manterrà il suo attuale management e inoltre proporrà (deve cioè proporre, altrimenti non sarebbe stato possibile acquisirla) al Defense Security Service (DSS) del Dipartimento della Difesa USA che la società operi in base a uno Special Security Agreement (SSA, accordo speciale di sicurezza) che garantisca all’Amministrazione statunitense la tutela delle informazioni classificate ovviamente come del tutto riservate. Qualcuno si è perciò spinto fino a sostenere che, in realtà, è stata la Drs ad acquistare la nostra azienda. Una sciocchezza che fa da pendant alla menzogna ideologica dei puri mercatisti.
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Lenin aveva ben capito che imprese e Stati non ricoprono la stessa realtà, pur essendo quest’ultima in ogni caso capitalistica. Fra le caratteristiche dell’imperialismo egli distinse la lotta tra grandi imprese per la spartizione dei mercati (e le aree di investimento dei capitali) e quella tra potenze (Stati) per la divisione delle varie sfere di influenza. Oggi, la sinistra (pressoché al completo) ha accettato le banali tesi sulla fine della funzione degli Stati nazionali, che si ritrovano anche nell’ultimo libro di Tremonti (piuttosto intelligente ma superficiale e “alla moda”), non invece in Geopolitica del caos del più avveduto e “meno ideologico” Carlo Jean. Accettando una simile sciocchezza, alla sinistra “radicale” restano aperte solo due strade: a) la consapevole menzogna negriana dell’Impero acefalo, diffuso in ogni dove, mentre la sua reale concentrazione negli Stati Uniti è trattata quale mero “colpo di coda” della vecchia epoca; b) la strampalata idea di un centro (di carattere ultraimperialistico) costituito dall’insieme (ristretto) delle grandi multinazionali che avrebbe sostituito lo Stato nella politica imperialistica, al cui centro starebbe dunque l’economia (e la finanza) statunitense.
In effetti, le grandi imprese mantengono una direzione centrale di carattere nazionale ma stabiliscono tra loro una serie di legami transnazionali, e le loro strategie – in ogni caso caratterizzate dal reciproco conflitto più o meno acuto (nelle diverse fasi o epoche storiche) e da alleanze (o fusioni o incorporazioni o legami vari) sempre in funzione del conflitto – sono influenzate fortemente dagli
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interessi dell’impresa (o gruppo di imprese collegate) in competizione con le altre. Il ventaglio delle attività di una grande impresa (o gruppo di imprese) non è più o meno aperto soltanto in base al mero e ristretto fine del massimo profitto, ma dipende pure dalle intenzioni di influenza politica (e anche militare) e di penetrazione culturale in varie aree. Di conseguenza, anche la strategia delle alleanze, delle acquisizioni, dei legami più o meno stretti fra imprese di paesi diversi, si atteggia variamente, e dipende da una serie di contingenze che non concernono solo il mercato, i prezzi e costi, l’efficienza economica, e via dicendo; nemmeno essa si limita all’innovazione, all’avanzamento scientifico e tecnologico, per quanto questi processi siano rilevanti in sede strategica.
Malgrado l’apertura delle politiche dell’impresa, mai appunto limitate alla sola economia e all’efficienza, supposto cardine dell’attività imprenditoriale (anche di quella dell’imprenditore innovatore), il gruppo di controllo aziendale (di una o più imprese) è obbligato a tenere conto degli interessi di quella(e) impresa(e), e non può quindi allargare eccessivamente la sua visuale, i suoi orizzonti. La politica in senso proprio (quindi quella degli Stati) deve supplire alle carenze intrinseche dell’orientamento strategico-imprenditoriale. L’impresa, in definitiva, non è pura economia; e lo Stato non resta al di fuori di quest’ultima, non è pura politica. La differenza tra i due apparati consiste dunque nell’ampiezza della visione d’insieme (politica ed economica nel contempo). E’ nella politica (di ben maggiore respiro) degli Stati che viene in evidenza la limitatezza della semplice considerazione del conflitto sociale, del conflitto tra vari raggruppamenti di una formazione particolare per la distribuzione della “torta” complessivamente prodotta (quel conflitto che il marxismo scolastico ha ulteriormente ridotto a scontro tra proprietà capitalistica e lavoro salariato). E’ nell’analisi della politica degli Stati che si manifesta perciò chiaramente la necessità di coordinare la trattazione teorica della “divisione in classi” (in raggruppamenti sociali vari) – e della loro lotta all’interno di una formazione particolare – con quella dell’urto tra le varie formazioni particolari nell’ambito della formazione mondiale o globale.
Lo ripeto: Lenin l’aveva capito, ma pensò che lo scontro mondiale tra formazioni particolari (quelle che erano a quel tempo le grandi potenze capitalistiche) fosse l’ultimo stadio della formazione globale capitalistica. In un certo senso, si può dire che egli volle pensarlo perché ciò era essenziale per le esigenze rivoluzionarie della fase, per la rivoluzione nell’“anello debole” (la Russia). Non si trattava invece di ultimo stadio, bensì di fase ricorsiva. Dopo un lungo periodo storico – che, al momento, rappresenta un “buco nero” della nostra conoscenza, tuttora invischiata nella credenza che ci sia stata ad est la “costruzione del socialismo” e lo scontro tra quest’ultimo e il capitalismo (con la vittoria di quest’ultimo); una vera favola ideologica di cui non ci si riesce ancora a liberare (non ci riescono né gli ex comunisti né i loro accaniti avversari) – siamo entrati in una nuova fase monocentrica a netta preminenza statunitense, durata pochi anni, mentre oggi, ma molto lentamente, sembra ci si stia avviaando verso nuove competizioni policentriche.
La presunta fine della funzione degli Stati nazionali è stata il portato della fase monocentrica iniziata dopo il 1989-91. Non erano finiti gli Stati, vi era più semplicemente la netta supremazia degli Usa, ben superiore a quella inglese nella prima metà dell’ottocento. Attualmente, una simile fandonia ideologica mostra tutte le sue crepe con riguardo alla crescita delle nuove potenze ad est (Russia, Cina, India, soprattutto). Sono ancora deboli gli Stati nazionali europei, perché la costruzione della UE (in prevalenza monetaria e in dati ambiti mercantili) è avvenuta sotto il controllo degli Usa, con il progressivo esaurimento della (parziale) anomalia francese. Oggi, la supposta fine degli Stati nazionali riguarda quasi esclusivamente, fra le aree sviluppate o in sviluppo, l’Europa, sol perché questa è subordinata, tramite mille fili, al complesso politico (e militare) e finanziario statunitense. Nel capitalismo “occidentale” (la formazione dei funzionari del capitale) siamo ancora in pieno monocentrismo (predominio incontrastato degli Usa). Nell’ambito del conflitto tra formazioni particolari, dunque, siamo alla decisa prevalenza di una d’esse; ed è questo fatto ad implicare l’impotenza della politica degli Stati altri rispetto a quella predominante dello Stato (potenza) statunitense. Il conflitto sociale (quello interno ad ogni formazione particolare dell’area capitalistica in oggetto) non può non risentire di questa tuttora incontrastata supremazia americana.
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Sarebbe quindi una conclusione sballata sia pensare che l’Eni faccia una politica particolarmente filo-russa (e quindi, ipso facto, antiamericana), sia credere che la Finmeccanica, invece, sia integrata al sistema economico (e finanziario) degli Usa; tanto da sostenere magari che essa, pur avendo acquisito la proprietà azionaria dell’americana Drs, sia in realtà stata “assorbita” da quest’ultima. Le grandi imprese agiscono nella sfera dei loro prevalenti interessi; e le strategie delle due imprese italiane vanno valutate in relazione alla capacità di perseguire il loro rafforzamento, tenendo conto che, comunque, si tratta di imprese di punta, della nuova ondata innovativa, assai rilevanti per il sistema-paese rispetto a quelle del metalmeccanico o del tessile e mobilio o del cosiddetto made in Italy, ecc. Non spetta però alle imprese stabilire le strategie politiche (degli Stati, nient’affatto in estinzione!): tese ad una reale autonomia o invece alla continuazione della subordinazione che ci taglia le ali, ci costringe ad una crescita stentata e a maggiori difficoltà relativamente alle condizioni di vita di quote rilevanti della popolazione.
D’altra parte, fino a quando le forze che si dichiarano antisistema continueranno a propugnare un conflitto sociale, ideologicamente fondato sul completo travisamento della realtà, indebolendo così il sistema-paese magari con la pretesa di ridare invece slancio alla nostra economia tramite il semplice aumento dei consumi, è evidente che andremo di male in peggio. Le nostre, sempre più evanescenti, forze “antisistema” sono ormai completamente “nel pallone”, non capiscono più la realtà, propugnano una miserevole politica di elemosine e mance che non muta in nulla la nostra posizione nella configurazione attuale dei rapporti di forza tra le varie formazioni particolari costituenti quella mondiale; queste formazioni particolari, per riprendere autonomia e sviluppo, debbono – solo nella contingenza specifica della presente fase storica – dotarsi di un’adeguata politica dei loro Stati. Non basta affatto quella delle loro imprese, pur se di punta. In questo senso, è vero che “la politica comanda l’economia” (affermazione da intendersi con il dovuto grano salis).
Data la debolezza del pensiero di tali forze, che coinvolge l’intero schieramento ancora detto di sinistra, gli ideologi della “destra” si permettono di fare “i furbi”; essi accettano, e rilanciano in grande, la tesi relativa alla fine degli Stati nazionali, così comoda per evitare “grane” con il paese predominante, del cui sistema economico rendere parte integrante il nostro (e gli altri paesi europei). Nel contempo, tali “destri” predicano una rivoluzione culturale, cioè “nuovi valori” – di cui ormai la sinistra si è totalmente spogliata con il suo lamentevole “relativismo” di quart’ordine – che sanno tanto di “sentimenti del buon padre di famiglia”. E’ in verità urgente una “rivoluzione culturale”, ma alimentata da una “giusta cattiveria”, dalla scoperta del “nuovo nemico”; da non schiacciare, da non eliminare, ma da trattare con un minimo di ruvidezza quando ciò si renda necessario.
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