Liberismo e statalismo: trappole tese ai dominati

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Sembra abbastanza evidente che il periodo di fulgore del liberismo sia ormai passato. Sarebbe sciocco sostenere che esso ha lasciato dietro di sé macerie, come talvolta sono usi sostenere alcuni rimasugli del passato “socialista” (o addirittura “comunista”). E’ ovvio che i vari organismi economici internazionali (pensiamo per tutti al FMI) hanno provocato parecchi guai con le loro politiche liberiste; ma soprattutto a dati paesi “in sviluppo”. Esemplare è stato il crac argentino (di cui non sono ancora superati gli esiti negativi per chi ci è rimasto invischiato; termine che le ultime ricerche fanno derivare “etimologicamente” da …. Visco); teniamo presente però che, pur con una politica abbastanza diversa da quella di allora, e dopo un periodo di risanamento che tanti ritenevano definitivo, nuove gravissime difficoltà sono in vista per l’Argentina, e c’è chi prevede relativamente vicina (non imminente comunque) una nuova disfatta, con ulteriore mancato rispetto degli impegni di pagamento dei bond emessi da quello Stato.
Tuttavia, il periodo del liberismo ha visto il crollo del campo “socialista” con l’assunzione del (quasi) pieno predominio mondiale da parte degli Usa, e lunghi periodi di sviluppo del campo capitalistico “occidentale” (pur in posizione di subordinazione o, meglio, di subdominanza rispetto al paese appunto predominante). Il liberismo – come già, nella prima metà dell’ottocento, la teoria ricardiana del commercio internazionale, favorevole alla preminenza centrale inglese di allora – è stata la vera chiave di volta della supremazia statunitense che del resto, per quanto messa in discussione da un po’ d’anni, non è ancora definitivamente tramontata (cerchiamo di “non vendere la pelle dell’orso” prima del tempo). Per un certo periodo di tempo, come in fondo era appunto accaduto nel periodo di prevalenza inglese, è stato possibile supporre che vi fossero interessi concomitanti tra i vari paesi nell’eliminare il più possibile gli ostacoli al libero commercio internazionale (e al libero movimento dei capitali da investire: sia produttivamente sia, ancor più, finanziariamente); insomma, si pensava che lo sviluppo degli Usa – all’avanguardia in tutti i settori di punta, quelli della più recente ondata innovativa (la distruzione creatrice in termini schumpeteriani), settori essenziali anche per la superiorità bellica – influisse positivamente su quello degli altri paesi, che avrebbero dovuto continuare a investire nei settori, complementari rispetto a quelli del sistema-paese centrale, delle passate “rivoluzioni industriali”.
Nulla di nuovo, se uno ha memoria della politica degli Junker prussiani o dei proprietari di piantagioni di cotone negli Stati Uniti del sud, all’epoca della preminenza inglese. In realtà, anche allora prevalse infine in Germania l’unione doganale e il protezionismo verso l’estero; e gli Stati industriali del nord vinsero la guerra civile (o di secessione) del 1861-65 negli Stati Uniti, ecc. Eventi simili posero le basi per la rimessa in discussione dei principi liberisti e avviarono verso la fase policentrica, la cosiddetta epoca dell’imperialismo, con forti contrasti tra paesi capitalistici avanzati durati fino al 1945. Anche oggi, i principi liberisti sono in ribasso nel mentre la Cina (che ha resistito all’onda d’urto del “crollo del muro”) e la Russia (liberatasi dei disfattisti e antinazionali alla Eltsin e compagnia varia) sono nell’attuale fase in ottima crescita; e anche grazie a loro, si è messa in moto l’India, mentre il Giappone sembra invece essersi arenato tornando verso una netta subordinazione (subdominanza) rispetto agli Stati Uniti; una posizione del tutto simile a quella degli imbelli paesi europei dove si hanno punte di maggiore (Europa orientale e Italia) o minore (Francia) dipendenza in tal senso.
E’ abbastanza ovvio che sarebbe inopportuno pensare attualmente a nuove estese politiche di protezionismo doganale. Del resto, pure nell’ottocento a predominio inglese, malgrado quel che si dice circa l’importanza della politica doganale propugnata da List a favore della tedesca “industria nascente”, la Prussia diede impulso all’intera confederazione germanica soprattutto con politiche aggressive e non solo difensive (come quelle dei dazi); la vittoria sulla Francia nel 1871 (nella guerra appoggiata dai vari Stati tedeschi che si riunificarono proprio nella fase finale del vittorioso scontro bellico) fu ben più decisiva di qualsiasi politica doganale nel proiettare la Germania verso il conflitto (divenuto infine policentrico) dell’epoca dell’imperialismo. E lo stesso dicasi della vittoria del
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nord industriale nella guerra di secessione o civile negli Stati Uniti. Anche oggi, malgrado si sia ancora indietro in termini di autentico scontro policentrico, non è certo con politiche meramente difensive che Russia e Cina stanno crescendo in quanto potenze.
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Se il liberismo è in stato di chiara impasse, altrettanto dicasi dello statalismo, che alcuni fanno passare per riformismo keynesiano. Non intendo nemmeno discutere se Keynes, quando formulò la sua teoria che ebbe effetti pratici notevoli in fatto di politica economica, pensasse al tipo di statalismo poi affermatosi in tutto l’occidente. Del resto non mi interessa l’ascendenza teorica della politica attuata in tale area con forte intervento dello Stato; in chiave però prettamente assistenzialistica, pur se viene usato il termine più piacevole di “sociale”. In ogni caso, l’intervento statale negli Usa ha avuto ben poco di sociale, mentre quello effettuato negli altri paesi del capitalismo avanzato “occidentale” ha avuto certo questo carattere, creando una vasta rete di “protezione” soprattutto nel campo sanitario e pensionistico.
Una spiegazione, non errata ma superficiale, del fenomeno è stata la seguente. A differenza degli Usa, gli altri paesi capitalistici (europei occidentali) sono usciti dalla guerra devastati e con gravi problemi sociali (autentica miseria, ecc.); per di più si trovavano a confronto (scontro) con il campo “socialista” (in particolare con l’Urss, assurta a seconda potenza mondiale) e avevano quindi bisogno di tenere a bada le loro masse popolari. Altra spiegazione, pur essa parzialmente ma superficialmente realistica, era quella relativa alla necessità per il capitalismo fordista (con grande produzione standard di massa) di ampliare i mercati di consumo, innalzando il tenore di vita delle classi subordinate (quelle fino ad allora tenute a troppo basso livello di reddito). Manca tuttavia un’altra spiegazione, che credo più “profonda”. Aumentare il tasso di sviluppo dal lato della crescita della domanda (in particolare di consumo) significava, in presenza della potenza industriale statunitense in conversione dal bellico al civile, rendere gli “sconfitti” paesi europei – anche Inghilterra e Francia, “vincitori nominali”, furono definitivamente ridotti al rango di paesi minori con il fallimento dell’ultima loro avventura coloniale a Suez nel 1956, cui mise fine l’intervento congiunto di Usa e Urss, malgrado quest’ultima fosse sotto accusa per l’invasione dell’Ungheria avvenuta circa un mese prima dell’aggressione anglo-francese a Nasser – del tutto complementari all’economia statunitense.
Negli anni ’60, grazie proprio alla “destalinizzazione” compiuta dal XX Congresso del PCUS (febbraio 1956), con successiva eliminazione del “gruppo antipartito” (Molotov-MalenkovScepilov-Kagànovic, ancora troppo stalinista) nel 1957, iniziava il sempre più rapido “ingripparsi” dell’economia sovietica (con influssi pesanti sull’intera Europa orientale). Il campo capitalistico “occidentale” (Giappone incluso) conobbe invece ritmi di sviluppo fra i più alti della sua storia, con “felice” integrazione tra economia statunitense, sempre più predominante, e quelle degli altri paesi viepiù complementari e integrate, ma a livello di stretta dipendenza dalla prima. Lo statalismo, essenzialmente assistenzialista (“sociale”) e fondato sulla domanda, era la molla per la “complementarizzazione” (e dipendenza) dei sistemi europei occidentali da quello americano (verso cui esisteva l’ulteriore dipendenza militare nella Nato). Nessuno si accorse di un altro elemento fondamentale dell’assistenzialismo statale europeo (e giapponese): il finanziamento e alimentazione, anche per via indiretta (ad es. in Italia mediante l’enorme sviluppo stradale con il trasporto su gomma che spadroneggiava sempre più), di settori portanti dell’industria fordista (il metalmeccanico in specie, la cui classe operaia era il fiore all’occhiello dei piciisti), che sembravano in competizione (e spesso vincente; si pensi ai giapponesi) con gli Usa, mentre questo paese prendeva con energia la strada dell’aerospaziale, del nucleare e iniziava già a sviluppare l’informatica, la genetica, ecc.
La domanda di consumo, alimentata dall’assistenzialismo statale, trainò anche quella di beni di produzione (investimento) – ma sempre nei settori diventati ormai “maturi” – e tutto sembrò andare per il meglio; la dipendenza dagli Usa significò anche la complementarietà dei rispettivi sviluppi
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industriali. Questa fu una delle ragioni (e non minore) per cui alla fine vinse il liberismo, perché sembrava – come già nella prima metà dell’ottocento con la trionfante teoria ricardiana del commercio internazionale – che il libero mercato favorisse l’integrazione e lo sviluppo per tutti. In Italia – ma anche in Inghilterra e Francia, ecc. dove esisteva un importante settore statale dell’industria – quest’ultimo funzionò, salvo rare eccezioni (ad es. l’Eni di Mattei, che non a caso ricevette una dura lezione nella persona stessa del suo massimo dirigente), a vantaggio del complessivo avanzamento dell’industria (per l’essenziale privata) dei settori “maturi”, malgrado le prediche piciiste sulla funzione antimonopolistica che avrebbe dovuto svolgere l’industria di Stato (sempre ideologicamente considerata l’anticamera del “socialismo”) in accordo con le frazioni portanti della classe operaia, proprio quelle del metalmeccanico ormai in via di completa “maturità”.
Quando implose il presunto Impero sovietico (esclusa la Cina che non ne faceva parte), esplose incontenibile l’entusiasmo di tutti i liberisti – e dei nostri piciisti trasformisti, pronti a rinnegare ogni briciola del loro passato – giacché si aprivano nuovi mercati per uno sviluppo ancora più complementare nell’ambito dell’intero globo. Errore di fondo, poiché la fine del “socialismo reale” ormai in panne, superato il primo periodo di caos (perfino breve, direi, valutato secondo i tempi della storia), ha consentito a paesi come Cina e Russia di crescere a ritmo sostenuto, con la possibilità di divenire nuove potenze; e anche altri paesi (India, Brasile, ecc.) manifestano potenzialità in tal senso. Se il processo continuerà come adesso, ci si avvierà alla fase di aperto policentrismo in un paio di decenni, forse tre. In ogni caso, è già sufficiente la tendenza alla fase in questione a creare quella situazione che alcuni esprimono con le tesi della geopolitica del caos. Altro che complementarietà delle differenti economie (dei diversi sistemi-paese) nell’ambito di un mondo globalizzato (unificato dal “libero commercio”)!
Liberismo e statalismo, alla fin fine, si sono combattuti negli ultimi decenni solo teoricamente, mentre si davano praticamente una mano. L’industria pubblica è stata progressivamente privatizzata, ma l’assistenzialismo statale è continuato sotto la copertura del “sociale”, mentre ulteriori aiuti (diretti e indiretti; molti di difficile individuazione, basti pensare ai diversi e complicati regimi fiscali che favoriscono banche e grandi imprese) venivano, e vengono, forniti sia al settore finanziario che a quello delle industrie “mature” (molte da definirsi persino ormai “arretrate”; non tecnologicamente, ma in tema di grandi innovazioni di prodotto, quelle più legate all’avanzamento della scienza e della tecnica).
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Il processo appena considerato interessò soprattutto l’Italia che, con l’operazione “mani pulite”, divenne una importante, e completamente succube, pedina economico-finanziaria degli Usa in Europa (mentre gli inglesi ne erano i migliori alleati per le aggressioni militari volte a rinsaldare la supremazia centrale statunitense). Ci fu solo un piccolo sussulto qualche anno fa, con i tentativi dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Fazio, uomo legato alla finanza vaticana, di mettere sotto controllo Mediobanca e Generali, cioè settori portanti dell’economia italiana, ormai finanzia-rizzata al massimo e con un’industria sempre meno “moderna” (lo ribadisco: non dal punto di vista della “scintillante” tecnologia dei processi lavorativi, “specchietto per le allodole” anche nei confronti della sinistra italiana, rovinata dalle sciocche correnti operaiste, che ne hanno distrutto ogni sensato tessuto culturale, tutto sommato prevalente nell’epoca del piciismo di stampo togliattiano). Con la sconfitta di Fazio e la sua sostituzione ad opera dell’ “uomo” della Goldman Sachs (uno dei perni del complesso finanziario-politico statunitense) si chiude questa parentesi, del resto al momento oscura e i cui moventi di fondo non mi permetto di arguire (almeno per adesso).
L’importante è il risultato: la più completa subordinazione italiana agli Usa per il tramite della GFeID (grande finanza e industria decotta) e dei suoi servi politici, di destra come di sinistra. Tuttavia questi ultimi – in grado di contemperare un sostanziale liberismo con lo statalismo assistenziale più consono alla suddetta GFeID – sarebbero (potenzialmente) i migliori servi, che infatti i settori
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parassitari dell’economia italiana hanno appoggiato pienamente: in particolare nel 2006 e, malgrado i disastri combinati dal governo Prodi, anche nel 2008, pur se più furbescamente perché ormai era praticamente certa la poi verificatasi disfatta elettorale del centrosinistra. Tale sconfitta sembra togliere la palla di piombo al piede – i cosiddetti “radicali” – ai sinistri moderati; di conseguenza, alcuni settori della GFeID continuano a tramare e sperare, pur se tutto è più complicato perché non si può completamente rinunciare, nell’immediato futuro e in situazioni locali estese, ai “radicali” (da qui oscillazioni e incertezze nel Pd, anche perché Veltroni non sembra uscire dalle ultime vicende come capo indiscusso). Siamo comunque ad una svolta; e in una situazione di apparente stallo dalla quale si dovrà uscire in qualche modo.
Al presente, tuttavia, non si vede alcuna forza in grado di abbattere liberismo e statalismo assistenziale per un nuovo potere, sufficientemente centralizzato e in grado di dare unitarietà al sistema paese Italia per uscire da una pesante subordinazione che condiziona la nostra economia e ci costringe – lasciando pur da parte per il momento il pericolo dello scaricarsi della crisi statunitense (se verrà e sarà grave, cosa ancora incerta) sul nostro paese con speciale virulenza – alla crescita zero, all’inflazione in aumento, ecc. Rispetto agli inetti di sinistra – si pensi all’incapacità, arroganza e stupida prepotenza (e astio e rancore verso il lavoro autonomo) di Padoa-Schioppa e soprattutto di Visco – sembra un genio Tremonti, il quale ha almeno capito che la globalizzazione è una trappola ed è stato gravissimo credere che risolvesse tutto, così come ci hanno creduto ciecamente i sinistri; ricordo che, recentissimamente, il nostro Presidente della Repubblica, piciista di antica tradizione, ha “rimproverato” implicitamente Tremonti per aver criticato, in una intervista, l’atteggiamento di supino adattamento al “libero commercio” internazionale (specialmente in campo finanziario, laddove si esprime al meglio la nostra dipendenza dagli Stati Uniti).
Tuttavia, è ridicolo parlare del “colbertismo” di Tremonti. Il grande ministro economico di Louis XIV, con il suo mercantilismo, riuscì infine ad almeno conseguire il pareggio di bilancio; non però certo come fine, bensì come mezzo per la politica di potenza del suo Re, cioè della Francia, la cui attuazione richiese spese militari imponenti. Tremonti propone invece dazi doganali nei confronti dei prodotti tessili cinesi e finanziamenti e aiuti al “terzo settore” (no profit). Lasciamo stare la “perla” della definizione di “no profit” per attività che consentono lauti guadagni a tutti gli arruffoni e avventurieri del settore; non si tratta in nessun caso di settori di punta, di quelli che alimentano le capacità produttive di un paese. Altro che colbertismo, si faccia il favore di non dire fesserie! Per il momento, siamo ancora in situazione di dipendenza. Non ne usciremo fin quando in questo paese – che non può certo agire da solo – non si esce dalla cultura della crescita zero, da un antimodernismo “umanistico” (bisognerebbe metterlo tra mille virgolette!) nemico di quella che denomina sprezzantemente tecno-scienza per nascondere la sua totale ignoranza e il suo spirito reazionario, di cui è imbevuto il 90% dei “nani e ballerine” delle frange intellettuali e pseudoculturali. Quanto al ceto degli insegnanti, di ogni ordine e grado, vogliamo salvarne un quarto? E’ già essere molto generosi; gli altri sono pura zavorra, di cui ci si dovrebbe scaricare.
C’è tanta strada ancora da compiere. Occorre una vera rivoluzione, anche culturale, ma che deve essere innanzitutto politica. Comunque, questa è una prima puntata. Il “racconto” continuerà perché questo piccolo blog non ha alcuna intenzione di fare sconti a chi sta devastando il nostro paese condannandolo ad una sempre più misera e meschina dipendenza.
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