DUE RISPOSTE, UN CHIARIMENTO, UNA DELIMITAZIONE DI CAMPO

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Mi sembrano buoni gli interventi che da tempo stanno avvenendo sia nel blog che nel sito. Ovviamente parlo di quelli degli altri, perché non sto a giudicare i miei. Vorrei oggi intervenire brevemente su quelli di Franco (D’Attanasio) e di Costanzo (Preve); userò i loro nomi propri, data la confidenza tra noi esistente.
Sono molto d’accordo con l’ultimo scritto di Franco e non ho in fondo nulla da aggiungere. Vorrei solo spiegare un mio stato d’animo. Dopo 54 anni che sono in politica (nel 1953 feci la mia prima scelta, e fu quella comunista), sono probabilmente stato segnato dalla lunga esperienza e sono quindi diffidente. Del resto, si parva licet, tale diffidenza è la stessa di Lenin nei confronti dei menscevichi e socialisti rivoluzionari; essa si dimostrò molto giustificata nell’ottobre del 1917. Alcuni trattano il grande dirigente rivoluzionario da cattivo perché – nemmeno sempre, ma talvolta certamente – usò metodi spicci verso queste correnti politiche, in specie durante e dopo la rivoluzione. Sarò franco: io lo apprezzo molto proprio per questo, così come approvo Robespierre, cioè i giacobini, nel 1789. Non condanno frettolosamente certe durezze. Quindi nessuno mi strapperà alti lai nemmeno per certi episodi della Resistenza o delle foibe o altro. Mi si giudichi pure cattivo, io penso di essere semplicemente realistico e, nel complesso, giusto.
Questo non significa che non si possano a volte evitare certe ferocie, veramente superflue e perfino dannose. Ma ancor più certe meschinità; ad es. non approvo per nulla affatto l’esposizione dei corpi di Mussolini e degli altri a testa in giù con la “gente” che sputava e prendeva a calci i cadaveri. Qui non è però questione di cattiveria; si tratta soprattutto di vigliaccheria e infamia. Sono certo che i più scatenati erano stati fascisti fino al giorno prima, e forse qualcuno lo era ancora in quel momento e si mascherava in quel modo indegno. Simili comportamenti mi disgustano, e sarei sempre contro; anzi, se ne avessi in un momento del genere il potere, prenderei i responsabili e li condannerei duramente, senza appello.
Comunque, per tornare all’inizio, diffido per lunga esperienza dei troppo buoni e morali; molti di loro te la mettono in c …. senza rincrescimenti. A parte questo, sia chiaro che siamo circa diecimila anni luce lontani da un qualsiasi ottobre del ’17; quindi possiamo stare tranquilli e non puntare all’eliminazione reciproca, anzi dialogare per l’essenziale e fin dove è possibile.
Più lungo, necessariamente, il discorso sullo scritto di Costanzo, che ringrazio per l’approvazione e soprattutto perché mi fornisce l’occasione di un chiarimento (poi ho anche una perplessità, che esporrò successivamente).
Non interpreto Russia e Cina come semplici formazioni sociali a capitalismo di Stato; e quindi anche l’“accumulazione originaria” non la considero semplicemente statalistica. Ogni teorico compie dei “tagli della realtà” secondo piani di intersezione ritenuti più utili al fine di esporre date ipotesi; quando poi – e io l’ho ampiamente riconosciuto – si è ancora molto lontani dal possedere un chiaro apparato concettuale, “piani” e “tagli” sono meno netti e precisi; per usare la famosa analogia engelsiana, siamo al flogisto e lontani dalla scoperta dell’ossigeno. Per questo, io accetto, senza tante discussioni, la distinzione della società (distinzione di evidente puro comodo) in tre sfere sociali quali l’economica (con le sottosfere produttiva e finanziaria), la politica e l’ideologica (culturale in senso più ampio). In ognuna delle tre agiscono “soggetti” dominanti tra loro intrecciati secondo “storicamente determinate” forme dei rapporti sociali. I “soggetti” non sono individui empirici, ma centri da cui promana lo svolgimento di particolari funzioni; ogni individuo empirico può svolgerne di differenti tipi ed essere dunque un “soggetto multiplo”.
Lo Stato è allora un particolare “campo” di interrelazioni tra “soggetti” che svolgono funzioni politiche di una certa tipologia; l’esercizio di queste funzioni necessita della condensazione delle interrelazioni in questione in quelli che definiamo apparati; strutture “materiali” costruite in guise diverse a seconda degli scopi perseguiti. Come analogia per quanto approssimativa, potremmo dire:
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dall’energia delle funzioni si arriva alla condensazione della stessa in granuli di materia, gli apparati. In questi ultimi, debbono esserci dei corpi lavorativi (gerarchizzati come ogni altro corpo lavorativo) in cui, nell’insieme e come principio generale (che può essere spesso, e talvolta persino sempre, disatteso), viene utilizzata una razionalità tesa all’efficienza, al miglior risultato dati i mezzi a disposizione. Gli agenti dominanti della sfera politica, e dello Stato in quest’ambito, non pertengono (sto sempre parlando di funzioni, non degli individui concreti) al corpo lavorativo, stanno “sopra di esso”, applicando una razionalità strategica, mirante alla efficacia nella realizzazione degli obiettivi, il cui conseguimento è ritenuto necessario per ottenere la vittoria nello scontro tra più gruppi dominanti ai fini della supremazia.
Questi agenti strategici (i “soggetti” nel senso sopra indicato) esistono in ognuna delle tre sfere in cui, per comodità, ho suddiviso la formazione sociale (in tal caso quella definita capitalistica). Esistono dunque agenti (“soggetti”) di tre tipologie differenti; ed esiste un loro complessivo intreccio, che è l’intreccio delle tre funzioni da loro esplicate nelle tre sfere sociali. Il problema è capire, a seconda delle diverse formazioni sociali capitalistiche e delle fasi attraversate da ognuna di esse, quale tipo di “soggetti” e di funzioni si trova in posizione di predominanza nell’intreccio complessivo.
Ad es., in quelle che definisco società dei funzionari del capitale (capitalismo “occidentale”, oggi in fase monocentrica con predominio degli USA), sembra dominante il complesso finanziario-politico, cioè l’insieme – ma suddiviso in gruppi fra loro conflittuali – degli agenti (“soggetti”) strategici (cioè applicanti questo speciale tipo di razionalità) della sfera economica (sottosfera finanziaria) e di quella politica (di cui lo Stato è precipitazione “materiale”, in apparati, dell’energia sprigionata dall’azione interrelata, e interconflittuale, di questi agenti). Con l’ulteriore specificazione, tipica dell’epoca monocentrica, che gli agenti strategici finanziari-politici, il cui complesso (pur internamente conflittuale) è centralmente predominante (quello statunitense), hanno reale funzione propulsiva e d’avanguardia anche nei settori più specificamente produttivi – che debbono fornire la materia prima, l’argent con cui procurarsi tutto il necessario, esistente in forma di merce, per approntare le varie strategie – e nella ricerca scientifico-tecnica avanzata, ormai integrata alle innovazioni (di prodotto e di processo) introdotte in tali settori. Invece, nei paesi capitalistici avanzati ma de-centrati (di fatto, la parte più sviluppata d’Europa e il Giappone), il complesso finanziario-politico, sempre suddiviso in gruppi interconflittuali, è dominante in casa propria ma di fatto subordinato a quello del paese centrale. Ecco perché indico tali agenti come subdominanti in relazione ai predominanti del paese centrale.
Nelle società tipo Russia e Cina sembra (la sottolineatura è d’obbligo) che, con la dovuta (ma secondo me ancora largamente sconosciuta) “preparazione” del socialismo reale, sia divenuto preminente l’insieme – ancora insisto: internamente diviso e conflittuale (pur quando non lo si noti in piena luce) – degli agenti (“soggetti”) strategici della sfera politica, da cui si sprigiona l’energia – di cui lo Stato è gran parte della “materializzazione” più corposa e visibile, con i suoi organismi lavorativi (burocratici) – che indirizza e orienta il complesso delle altre sfere (e sottosfere) sociali. Il “capitalismo di Stato”, quello a mio avviso più rozzo dei bordighisti e quello più raffinato e articolato di Bettelheim, era un primo approccio al problema, ma troppo “ellittico”, dunque schematico. Esso non consentiva fino in fondo la visibilità dello scontro intercapitalistico per la supremazia in atto anche in formazioni sociali di questo specifico tipo capitalistico, da definirsi tale in seguito all’ormai aperta importanza attribuita al mercato e all’impresa, per di più con il rafforzamento della forma proprietaria privata. Bettelheim arrivava a teorizzare lo scontro interno ai gruppi dominanti, ma quasi tutto giocato nell’ambito dello Stato: questa – lo ripeto – materializzazione dell’energia sprigionata dall’attività strategica dei gruppi di agenti dominanti nella sfera politica.
Quanto fin qui sostenuto è soltanto un primo discorso che deve essere più ampiamente sviluppato e sistematizzato, per la cui opera aspetto anche il contributo dei più giovani. Comunque, penso sia già chiaro che Costanzo mi incolla troppo ai bordighisti quando in realtà io mi distacco ormai abbondantemente – pur se con un discorso teoricamente ancora insoddisfacente – perfino dal più elaborato Bettelheim.
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E veniamo alla perplessità che mi solleva il testo di Costanzo. Premetto brevemente che, anche fossi althusserianocentrico come lui sostiene, non vedo mancanza di rispetto verso nessuno. La sua contraria convinzione mi ha fatto sorridere. Sarebbe come se Einstein, ad un fisico seguace della teoria dei quanti, e quindi dell’indeterminazione, da lui avversata (ricordo la sua famosa frase: “Dio non gioca a dadi con l’Universo”), rimproverasse la sua mancanza di rispetto per lui. I fisici, anche einsteiniani, sarebbero rimasti molto perplessi se il loro Maestro fosse uscito con un commento simile.
Prendiamo comunque le cose alla lontana, perché così spesso si spiegano meglio. Tutti quelli che mi hanno letto anche superficialmente sanno che considero superato il marxismo, ma anche lo stesso Marx; a causa degli errori di previsione in tema di dinamiche sociale del capitalismo. Di conseguenza, chi resta ad interpretarlo – più o meno filologicamente, non importa – è per me uno studioso del pensiero sociale, che posso considerare serio o meno serio, acuto o meno acuto, conoscitore profondo dell’argomento oppure no. In ogni caso, non credo abbia una attuale valenza politica, che serva a molto per la prassi odierna; certamente do però importanza – positiva o negativa – ai suoi studi perché Marx è uno spartiacque fondamentale nel campo della scienza della società (in particolare di quella capitalistica). Non prendo più minimamente in considerazione chi sostiene di superarlo tornando, ad es., a Ricardo o al pensiero neoclassico, anche al più grande: Weber in sociologia, Schumpeter o Keynes in economia, ecc. Se poi qualcuno rispolvera il “socialismo di Stato” alla Lassalle (certo in edizione aggiornata, ma è lo stesso), oppure torna a Sismondi e Proudhon (anch’essi aggiornati) o a Dühring (con il suo “capitalista con la spada in pugno” che impone l’estrazione di profitto dal lavoro; ascendente storico dell’operaistico “Comando del Capitale”), ecc., penso si meriti un “grande pernacchio”.
Andare avanti significa proseguire lungo la strada tracciata da Marx, modificando una serie di ipotesi da lui formulate e soprattutto superando la semplice razionalità del minimo mezzo o del massimo risultato, che anche lui pose come la più fondamentale nell’ambito della società capitalistica; per cui superare Marx implica, nel contempo, superare la razionalità neoclassica. Andare oltre la teoria del valore/plusvalore – non perché sbagliata o per le sue “difficoltà” logico-matematiche, bensì perché insufficiente a chiarire le determinanti sociali dell’agire nel capitalismo, e dunque la struttura dei rapporti tra gruppi (classi) sociali e il loro movimento in questa forma di società – non significa certo accettare il ritorno (neoliberale) alla smithiana “mano invisibile” (mercato), ma nemmeno a quella “visibile” con tutte le varianti e sottovarianti delle teorie odierne. Insomma, si riuscirà a veramente superare Marx – compito che comunque ci si deve porre come preliminare e urgente in campo teorico – solo se si supererà contemporaneamente tutto l’insieme delle teorie della società proposte dagli “scienziati” (ideologi) dei gruppi dominanti capitalistici.
Pur se in forma subordinata, un ragionamento consimile va fatto per Althusser. Ho detto una volta, e per l’essenziale lo riconfermo, che i veri grandi “ortodossi” del marxismo sono Rubin, in economia, e Lukàcs, in filosofia (anche se qui il mio azzardo è maggiore perché non sono filosofo). Secondo il mio punto di vista, però, quello che con più originalità ha tentato di uscire dall’ortodossia è stato Althusser (e, in economia, Bettelheim). Non a caso parlo di ortodossia e non; perché Althusser (e la sua “scuola” se così la si vuol chiamare) è programmaticamente rimasto entro il marxismo e ha tentato di rinnovarlo, di rifondarlo; e, nel contempo, ha evidentemente pensato, e non poteva non pensare, una concomitante rifondazione della prassi comunista. A quell’epoca, questo era il clima; si credeva ad una lotta tra neorevisionismo e neoleninismo; e un neoleninista, però originale come Althusser, cercò reali nuove vie per riaffermare l’orientamento ritenuto fondamentale e prioritario in Marx.
Il fallimento complessivo dell’operazione althusseriana è legato al fallimento dell’intera operazione di rinnovamento del comunismo, e del marxismo in quanto teoria di quest’ultimo. Nessuno dei critici anticapitalistici pensava due-tre decenni fa che fosse impossibile tale rinnovamento; non mentiamo a noi stessi in proposito. Chi ha compiuto il maggiore sforzo in tale direzione – questa è
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rimasta sempre la mia opinione – è stato Althusser e, per quanto mi concerne, Bettelheim. Su questo punto non ho cambiato idea; e come, malgrado i Cossutta e altri piciisti, io considererò sempre con un pizzico di favore in più coloro che sono passati attraverso i partiti fu leninisti (e tratto con freddezza chi è stato vicino ai socialisti), così dedicherò prevalentemente la mia attenzione, nel campo della teoria, a chi è passato per l’esperienza althusseriana rispetto a chi ne è rimasto discosto. Ognuno ha ben precise preferenze per gli autori che ritiene essere i suoi prevalenti punti di riferimento. Costanzo resta a mio avviso legato, pur se in modo critico, a Lukàcs; io penso che quest’ultimo sia stato un grande del marxismo tradizionale, avesse una enorme cultura filosofica e letteraria (certo maggiore di quella di Althusser), ma lo considero molto meno originale; soprattutto non mi serve per i miei intendimenti di “fuoriuscita” dal marxismo, fermo restando però che Marx rappresenta nel pensiero una sorta di “linea Maginot” da cui non arretrare nella costruzione di una nuova teoria della società capitalistica.
Nello stesso senso, non si può a mio avviso tornare indietro rispetto ad Althusser. Il suo tentativo di rinnovare il marxismo è fallito in quanto effettuato a partire soltanto dall’interno di quella teoria. Comunismo e marxismo si sono rivelati irrimediabilmente superati storicamente; siamo entrati in un’epoca di transizione a qualcosa di diverso da ciò che pensavamo allora. Come però Marx è irrinunciabile pur volendo formulare una più adeguata teoria della società capitalistica, così lo è Althusser anche quando si pensi non ad un semplice avanzamento mediante rinnovamento di Marx, ma ad un suo superamento radicale e tuttavia secondo le direttrici fondamentali da lui fissate al fine di, dicendola all’Althusser, aprire alla conoscenza il “Continente Storia”. Mentre quelli che ancora oggi credono di rivitalizzare Marx, riverniciando la teoria del valore, sono degli inguaribili dottrinari di stampo settario-religioso.
Ripeterò – e lo farò ancora più e più volte in futuro – la frase marxiana dalla prefazione al Capitale: “Qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi” [corsivi nel testo].
Seguendo la mia impostazione, che non è certo quella di un filosofo, considero il lavoro di Althusser (e per altro verso quello di Bettelheim) uno sviluppo e un affinamento ed elaborazione enormi di questa “semplice frasetta”. Costanzo non mi sembra voler capire che non vi è in nessun althusseriano alcun disconoscimento delle caratteristiche soggettive degli individui umani; essi possono anche “soggettivamente elevarsi” al di sopra delle loro determinazioni sociali. E’ però chiaro che sono in grado di farlo entro limiti non troppo ampi; soprattutto, una teoria della società va costruita (via ipotesi, certo) non in base a questa possibilità di “elevarsi a di sopra”, bensì individuando innanzitutto, per quanto riguarda in specie l’azione dei gruppi sociali, la determinazione “imposta” dalla forma delle loro interrelazioni nell’ambito della società capitalistica.
La parte della frase sopra riportata, in cui Marx afferma di considerare lo sviluppo della formazione economica della società quale processo di storia naturale, è stata più volte fraintesa (anche dal sottoscritto) quasi si trattasse di un cedimento al determinismo di stampo positivistico (e “scientistico” come dicono certi filosofi per manifestare il loro disprezzo nei confronti di un ramo ormai decisivo della conoscenza umana). In realtà, ripetendo quanto ho già recentemente affermato, se uno indaga il comportamento di una “colonia” di animali (anche ad un basso gradino della scala dell’evoluzione), constaterà caratterizzazioni individuali di maggior o minor rilievo. Tuttavia prevalgono, per l’insieme, una serie di determinanti che noi diciamo naturali. Nella società umana, le differenze tra i suoi singoli componenti ci appaiono assai nette – tanto da giustificare lo sviluppo di scienze dell’individualità – e tuttavia esse non sembrano affatto prevalere, in media (e per l’insieme dei diversi gruppi sociali), sulle determinazioni “collettive”. Nel caso dell’umanità, fra queste ultime ci sono senza dubbio anche le determinanti naturali, ma ad esse si sovrappongono quelle sociali, la nostra “seconda natura” d’ordine storico, ecc. Marx ha posto in primo piano esattamente le de-
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terminanti sociali e le ha volute indagare, nel loro agire in media e per l’insieme, così come si potrebbe fare, in altri ambiti scientifici, per quanto concerne quelle strettamente naturali. Althusser lo capì, e affermò perciò che Marx aveva aperto all’indagine di carattere scientifico il “Continente Storia”.
L’analisi strutturale sta dunque alla base del migliore marxismo, e anche dell’althusserismo. Inutile giocare sulla differenza tra Filosofia ed epistemologia o sull’antiumanesimo, come fa Costanzo. Siamo “fuori tema”, si spara ad un obiettivo altro. Il fatto chiaro è che Costanzo forse “sente” il bisogno di questo tipo di analisi (strutturale) dei rapporti sociali, ma non fornisce strumenti per svolgerla; mentre Althusser ne fornisce a iosa. Lo ripeto: essendo fallito il tentativo di rinnovare marxismo e comunismo, gli strumenti lasciatici in eredità dal filosofo francese non sono più utilizzabili così come sono; lo stesso discorso vale però in sostanza anche per Marx. Chi tuttavia sente l’urgenza dell’analisi della società capitalistica, secondo il metodo indicato nella marxiana “frasetta” sopra riportata, considererà sempre Marx uno spartiacque per la riproposizione di una nuova teoria critica della forma sociale capitalistica, e Althusser un punto fermo per non arretrare rispetto all’analisi strutturale proposta da Marx.
Vogliamo basare il superamento del marxismo sull’“ape e l’architetto”, sulla concezione (lukàcsiana) del lavoro come attività teleologica dell’essere umano, con il corollario (anch’esso pienamente accettato da Rubin e Lukàcs) dell’engelsiana validità del lavoro in oggetto come “valore” di ogni prodotto fin dalla remotissima epoca dei primi uomini (o forse perfino degli ominidi)? Per carità, anche questa interpretazione è permessa da certi passi marxiani. Si dà il caso che non l’abbia mai accettata fin dal mio primo libro Struttura economica e società. Non mi si costringa a sintetizzare qui tutto quello che ho scritto in quasi 40 anni. Per me Leggere il Capitale (1965) è una soglia che ho attraversato definitivamente e non torno sui miei passi; desidero invece andare oltre, o almeno tentarlo, reso più “esperto” dal fallimento, a mio avviso ormai definitivo, di comunismo e marxismo. Ci mancherebbe solo che effettuassi tale tentativo alla guisa dei gamberi!
Costanzo insiste sull’Uomo e dintorni. Lecito da parte sua; ma per me si tratta di inchiostro di seppia, di oscuramento totale ai fini dell’analisi strutturale più volte ricordata, che è l’esigenza più profonda posta da Marx fin dalla Prefazione a Il Capitale. Costanzo non la sente con la stessa urgenza; non c’è nulla di male, mica tutti debbono interessarsi degli stessi problemi. Ognuno ha la sua “ossessione” specifica. Non è però lecito tentare di squalificare l’ossessione altrui con critiche diversive e che nemmeno sfiorano i problemi da questa posti: per l’appunto, l’analisi strutturale e le determinanti sociali dell’agire umano nei vari gruppi, la cui interrelazione (e interazione) costituisce la società degli uomini (non certo dell’Uomo, che è tutt’altra faccenda). Quello che a me interessa, e che interessa a quelli che la pensano in modo abbastanza analogo al mio, è una impostazione che consenta di pensare ad un possibile superamento di Marx (non so quando né ad opera di chi, ma so che è ormai necessario), senza tuttavia disperdere l’acquisizione contenuta nella frase sopra riportata, sulla cui base Marx ha elaborato l’intera sua analisi delle formazioni sociali (di quella capitalistica in modo del tutto particolare). E’ inutile prendersela con la coupure althusseriana; comunque la si metta, c’è una bella differenza tra i Manoscritti economico-filosofici e Il Capitale. Ignorarla, continuare a prendere i passi del Marx “maturo” – indubbiamente ce ne sono – che servano soltanto a reincollarlo a quello degli anni ’40, è possibile a patto di sottoporre ad una drastica e mortale operazione chirurgica le sue opere principali. Deve essere questo l’atteggiamento di chi intende avanzare verso una nuova teoria critica del capitalismo?
Lasciando per un attimo quest’ultima da parte, rivelo esplicitamente una preferenza per i filosofi che parlano direttamente di Dio piuttosto che dell’Uomo. Il primo è almeno il Creatore universale, è onnisciente, onnipotente, ecc.; in virtù delle sue prerogative rassicura gli uomini (che non si identificano nell’ente supremo Uomo, ma si sentono tanto individui) sul fatto che non spariranno nel nulla, che esisteranno, in qualche misura, anche dopo la morte biologica (proprio in quanto individui). I credenti nell’Uomo mi sembrano delle persone profondamente “religiose” che si vergognano di dichiararsi credenti in Dio. In ogni caso, non mi interessa – nemmeno per lo 0,0000…..1 % – discutere
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su Dio o sull’Uomo. Interessa a Costanzo; lasci agli altri la libertà di essere del tutto indifferenti a tale questione (se poi, in punto di morte, cedessi per panico, si stia sicuri che non dichiarerò di credere nell’Uomo, e non confesserò “i miei peccati” ad un filosofo del genere di Costanzo). Vent’anni fa potevo anche dedicare qualche tempo a letture “di contorno” ai miei interessi precipui; oggi no.
Non leggerò di fatto nulla sull’Uomo, sul “genere umano” e altre cose. Mi interessa quella fra-setta di Marx e voglio approfondire il tema delle determinanti sociali degli uomini, non dell’Uomo; e degli uomini in quanto “soggetti” limitati (agenti in gruppi sociali nell’ambito della rete delle loro interazioni). Leggerò quindi al massimo filosofi che mi stimolino a pensare alle strutture dei rapporti sociali; e che non sono affatto dei semplici epistemologi come afferma Costanzo. Mi interessano pure quelli in grado di porre problemi attinenti all’azione politica mediante cui si cerca appunto di “elevarsi al di sopra …. ecc.”. In linea generale, mi spingo fino ai portatori di concezioni solo apparentemente atemporali, ma che in realtà mi stimolano all’indagine delle dinamiche sociali odierne e per tempi relativamente prossimi (non solo relativi alla mia vita, sia chiaro). Non posso farmi dirottare verso ambiti per me del tutto “muti”, che lascio ad altri di approfondire (guai se tutti ci buttassimo sullo stesso oggetto di riflessione).
Faccio un semplice esempio, ma che potrei moltiplicare per 10 o 20 o più ancora. Leggo, e rileggo, volentieri Bergson. Costanzo sa benissimo che non è un epistemologo – pur se ha una conoscenza della matematica, di quasi tutti i rami delle scienze naturali ed umane, di fronte alla quale la mia è quella di uno scolaro delle medie – e nemmeno appartiene alla schiera degli “antiumanisti”. Non credo fosse una lettura prediletta da Althusser, che gli preferiva sicuramente Bachelard; e quest’ultimo può con certezza essere considerato l’antagonista di Bergson. Perché leggo tale filosofo? Perché – certamente letto a modo mio – mi stimola a pensare l’azione strategica; che deve tener conto dell’analisi scientifica, ma ha poi un elemento “artistico”, di intuizione, di coglimento del complessivo “non analitico”, o non so come altro dire, che è la caratteristica del “soggetto stratega”. Leggo Bergson come “rincalzo” filosofico di letture di testi tipo quello di Clausewitz o il Sun-Tzu, ecc.
La razionalità strategica non fa a meno – come mi sembra pensino di poter fare i filosofi dell’Uomo – di quella analitico-scientifica; sa che bisogna innanzitutto possedere sia la conoscenza del campo in cui si svolge il confronto sia quella delle forze (nel loro aspetto quantitativo oltre che qualitativo) fra loro a confronto. Quando quest’ultimo però si sviluppa, e si rende acuto o esige invece momenti di attenuazione e di diversione, ecc. c’è bisogno di ciò che può essere indicato come “colpo d’occhio” sull’insieme, che non è una semplice Totalità, pur internamente differenziata e contraddittoria. E’ invece necessario cogliere il senso, la direzione dell’insieme. Si tratta di quell’impulso che non potrà mai manifestarsi al di fuori, e senza, la struttura (analitica) degli elementi che compongono il suddetto insieme; e che, tuttavia, non è deducibile da essi, non è esaustivamente spiegabile e prevedibile a partire da essi. Lo stratega deve cogliere quest’impulso e volgerlo a suo favore.
Preliminarmente, dunque, l’insieme è analizzato, mediante razionalità scientifica, e “classificato” in un determinato genere; ecco perché i generali o i giocatori di scacchi debbono sbafarsi libroni su libroni con i vari “generi” di battaglie e di giochi svoltisi in passato (se ragionassero sulle Totalità starebbero freschi!). Nel determinato momento dello scontro – momento più o meno lungo a seconda delle specifiche congiunture (ecco il significato della leniniana “analisi concreta della situazione concreta”) – occorre però cogliere, in tempi adeguati, la singolarità della situazione, il non classificabile (e che semmai entrerà ex post in successive classificazioni). E’ questa singolarità, che è dell’ordine del logicamente imprevedibile (e non c’è proprio nessuna logica, nemmeno quella dialettica, in grado di prevederla e dedurla dall’esperienza del passato), a immettere la novità nel succedersi “storico” degli eventi. Guai però a trascurare la memoria del passato e l’analisi (ricordo che è sempre fatta via ipotesi) degli elementi che strutturano l’insieme in ogni data congiuntura. Comunque non continuo, ci sarà modo di farlo tante altre volte.
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La razionalità strategica, sia chiaro, non è identificabile con l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. Siamo in altro orizzonte, che è quello di un pensiero forte, fortissimo, quello dei Cesare, Napoleone (e molti altri), che le “suonavano di santa ragione” (pur se magari dovevano poi rassegnarsi all’avversa fortuna). In ogni caso, ai fini di questa razionalità, i discorsi sull’Uomo, sulla “natura umana”, sull’“ente generico” o altre cose di cui parla Costanzo (e fa bene a parlarne se sono questi i “nodi” che lo assillano), non servono a gran che. Quindi escono dall’ambito dei miei interessi, degli scopi che mi prefiggo e che sono la mia “ossessione”; non si tratta di cecità, e nemmeno di mancanza di riguardo, ma di scelta invece massimamente oculata di quelle conoscenze che mi sono d’ausilio e che attraggono il mio interesse, la mia “passione”. Se Costanzo scrive su alcuni argomenti di politica, sull’antiamericanismo, soprattutto su una serie di rilevanti polemiche culturali (in senso ampio), me lo leggo volentieri; ma i suoi discorsi prettamente filosofici (su temi che in ogni caso non sono i soli dibattuti dalle migliaia di filosofi succedutisi nei tempi) cadono nelle parti “vuote” della mia “anima”. E alla mia età – con il tempo che mi resta a disposizione e con capacità minori di lavoro per i normali acciacchi ed una vista un po’ usurata – non mi concedo più lussi e diversivi.
Se ascolto musica sinfonica “occidentale”, la apprezzo e mi rammarico di non averle dedicato un po’ più di tempo per affinare i miei gusti e la capacità di ascoltarla con diletto. Se ascolto la musica colta cinese o giapponese o araba, giro stazione o canale dopo due minuti; mica sostengo che si debba buttarla al macero, ci mancherebbe! Semplicemente non mi “prende”, non ho voglia di sforzarmi di capirla; non al punto della vita in cui mi trovo. Quando leggo la filosofia di Costanzo, me ne dispiace per lui, ma non sento scattare la scintilla che mi consenta di concentrarmi e di rendere spiritualmente produttivo quanto sto solo scorrendo con gli occhi (sto parlando del mio “spirito”).
Non si deve pretendere l’impossibile. E’ come se andassi da un matematico impegnato nella risoluzione di un problema lasciato aperto dai suoi predecessori e gli dicessi: dedica un po’ di tempo a leggere il mio Gli strateghi del capitale. Si pensa che mi presterebbe attenzione? Allora magari vado da uno sceneggiatore cinematografico, che si trova tra le mani un soggetto con molte ambiguità in dati punti e gravi salti e discontinuità di senso in altri. Egli deve provare a risolvere entrambi questi problemi buttando giù una serie di dialoghi. Arrivo e gli consiglio di leggersi il mio Il capitalismo oggi; sia pure per semplice curiosità intellettuale. A me pare ovvio che mi risponderebbe gentilmente (almeno spero), facendomi però presente che è troppo occupato nel suo lavoro, e nell’obiettivo che si è prefisso, per potersi distrarre. Come sempre si dice cortesemente in questi casi, ma quando non si è in confidenza, egli probabilmente mi farebbe la promessa di dedicare, “appena possibile”, qualche attenzione al mio testo; ma abbiamo fatto tutti, come Totò, “tre anni di militare a Cuneo” e siamo quindi “uomini di mondo”.
Prego quindi Costanzo di non pensare ad alcuna mancanza di riguardo. Ed è anche sbagliato a mio avviso che parli di cecità filosofica altrui come se i filosofi fossero tutti del suo stesso genere e si interessassero tutti dei problemi che lo assillano. Ho notato spesso che gli hegeliani (non tutti ovviamente, ma troppo numerosi) credono di essere gli unici filosofi e gli unici in possesso della Verità. Sono quindi, salvo rarissime eccezioni, ignorati da chi fa scienza e che – pur se non può ad ogni rigo avvertire il lettore del fatto – sa benissimo di star ponendo solo delle ipotesi che egli stesso, nel giro di qualche anno, modificherà (se qualcuno ha seguito la mia storia personale, sa benissimo che ho avuto almeno due svolte radicali e un cospicuo numero di progressivi mutamenti all’interno di ogni svolta). Questo non significa che tutto Hegel non serve a nulla per uno scienziato. Ma un lettore del mio tipo deve poter scegliere quali parti possano attrarre la sua attenzione (e concentrazione) e quali gli sono lontane e la cui lettura gli scorrerebbe sul cervello come gocce d’acqua sulla pelle.
Credo che con Costanzo ci siano molte cose da discutere insieme, soprattutto nell’attuale contingenza (ma duratura) politica. Allora lasci che io legga, sia pure come lettura secondaria, i filosofi (certo, lo ammetto, soprattutto non hegeliani e non dialettici) che mi “servono”, e non facciamoci cattivo sangue. Non sono cieco; ho inforcato occhiali del tutto diversi dai suoi, immaginiamo che io sia miope e lui presbite o viceversa. Tutto lì. E basta con la presunzione che esista un’unica corrente
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filosofica. Questo, effettivamente, non lo prendo nemmeno in considerazione. D’ora in poi, quindi, mi si risparmi l’Uomo e dintorni; “non ho più l’età” e quindi non ho più tempo per la semplice “curiosità intellettuale”.
Voglio solo fare una piccola aggiunta. Se ci si interessa solo dell’interpretazione di Marx e non del suo possibile superamento, si fa ovviamente dell’accademismo, che comunque non è sempre fuori luogo e può essere o diventare assai stimolante; mentre non è per nulla stimolante il settario della chiesuola “marxista” che vuol fissare in canoni dogmatici ogni singola affermazione del Maestro. La stessa cosa vale per Althusser. L’attuale scuola althusseriana italiana (non so se in Francia o altrove ne esistano altre) mi sembra aver il merito di riproporre l’opera althusseriana (e dintorni) con spirito critico e rigore interpretativo. Non si sfugge a mio avviso a un certo accademismo, ma non è certo quello della chiesuola dei “fedeli”. Se Maria Turchetto, e gli altri, non si offendono e accettano con benevolenza la mia opinione (in fondo è un desiderio), cercherei – anche in omaggio ad Althusser che fu un vero “animale politico”, conscio della “battaglia di congiuntura” (nel campo delle idee) che stava conducendo – di superarlo nello stesso senso in cui io indico la necessità di superare Marx (o Lenin). Si tratta in ogni caso di uno spartiacque, dal quale non recedere affatto agli autori più “ortodossi”; riconoscendo tuttavia che la sua lezione cadde in un periodo in cui i meno giovani fra noi crederono nel rinnovamento del marxismo e del comunismo, dimostratosi invece inagibile. Da questo scacco, pratico non meno che teorico, mi pare possibile trarre la giusta lezione, senza regredire ma tentando di superare l’“eresia” althusseriana nella direzione di una forte riaffermazione del suo spirito di pratica teorica quale strumento di lotta politica e ideologica.
Lotta che dovrà essere orientata da una teoria critica della società capitalistica; teoria, di cui quella del valore sarà parte del tutto secondaria, mentre dovrà essere messo sempre più in risalto quello che è l’oggetto de “Il Capitale”: la struttura dei rapporti sociali in quanto determinazione dei vari gruppi di “soggetti” (agenti) esplicanti funzioni diverse nelle tre sfere della società. Senza più bisogno di giostrare, come nell’althusserismo (il primo), tra “determinazione d’ultima istanza” e “dominanza” con i loro differenti rapporti in epoche successive della forma capitalistica di società – concorrenziale o invece monopolistica – che rischiano altrimenti di ridiventare, secondo la più vieta tradizione marxista, stadi dello sviluppo capitalistico e non invece semplici ricorsività caratterizzate dalla diversa strutturazione geoeconomico-politica, mono o policentrica, della formazione sociale globale.
12 marzo
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