UNA NOTERELLA TEORICA (NON SOLO)
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1. E’ evidente che i “concetti” servono a poco per le rivoluzioni. I movimenti di massa che si svolgono in tali frangenti non si orientano, guidano, ecc. con discorsi di carattere teorico. Occorre un ben diverso tipo di “agitazione e propaganda”, come si diceva un tempo. In ogni caso, nemmeno servono – non almeno nei nostri tempi (già da qualche secolo almeno) – profezie, discorsi messianici, esaltanti visioni di un futuro del tutto imprecisato, in genere solo sognato. La prima condizione di una rivolta è il netto indebolimento, legato ad avvenimenti traumatici, delle istituzioni e apparati dei gruppi dominanti in una data parte della società; nel mentre il peggioramento delle condizioni di vita, lo sfilacciamento degli “abitudinari” legami sociali, ecc. mette appunto in movimento e ribellione vasti settori e strati sociali. Le cosiddette parole d’ordine, lanciate da chi intende orientare, guidare, ecc. il movimento, possono avere forti connotati ideologici atti ad unificare i vari gruppi in rivolta, ma è bene abbiano sempre contenuti concreti che corrispondano pure agli interessi di tali gruppi.
Le rivoluzioni, di qualsiasi genere siano, rappresentano tuttavia eventi sostanzialmente puntuali nell’arco del tempo storico delle società. In ogni caso, è indispensabile la conoscenza delle condizioni esistenti nei diversi periodi storici delle differenti formazioni sociali; questa necessità è particolarmente cogente per chi pensa al “cambiamento” più o meno drastico o “dolce”. L’affidarsi alla mera spontaneità, momento per momento, è tipico dell’azione di gruppi solo apparentemente ultrarivoluzionari, appoggiati (o perfino organizzati) dai settori dominanti più retrivi per impedire appunto che si formino autentici nuclei in grado di analizzare e meglio valutare le possibilità della trasformazione. Per quanto gli “ultrà” siano spesso “piccola cosa”, è necessario smascherare questi “cattivi maestri” (ben noti ormai) sempre in vena di escogitare nuove situazioni “rivoluzionarie” (inesistenti), nuovi “soggetti rivoluzionari” (altrettanto inesistenti), onde sfibrare sul nascere e annientare (fin “dalla culla”) ogni possibile formarsi – ancora molecolare nelle situazioni di “normale” riproduzione dei rapporti sociali – di gruppi interessati all’effettiva interpretazione e valutazione dei movimenti, nel loro svolgersi concreto, di fase in fase.
E’ infine bene convincersi che gli “ultrarivoluzionari” difficilmente sono in buona fede; spesso, invece, foraggiati dai gruppi dominanti più reazionari. Proprio per questo, sono in genere facilmente distinguibili (ma solo per chi usa il cervello) perché non accettano mai distinzioni tra i dominanti, non vogliono sentire parlare dei loro conflitti, delle loro posizioni di maggiore o minore forza o debolezza, che sono in precisa relazione con gli scontri che li attraversano. No, per questi “sempre radicali” – blanditi da tutto l’apparato mediatico dei dominanti più reazionari – esiste solo la massa in movimento, intrinsecamente sempre rivoluzionaria, da una parte; e l’ammasso dei dominanti, definito nei modi più variopinti, dall’altra (un esempio recente? La Moltitudine e l’Impero). Dai pensatori (e artisti) definiti conservatori c’è spesso da imparare, perché in definitiva non hanno bisogno di vendersi per emergere, sono già organici ad un determinato ordinamento sociale, che essi descrivono mirabilmente (ecco perché Marx e Lenin invitavano a leggere un Balzac; e qui da noi, una lettura illuminante è quella di un Gioacchino Belli). Gli “ultrà” invece sviano, sono talmente rivoluzionari che “lanciano il cervello oltre l’ostacolo”, affinché i lettori di indole debole, plagiati, si spezzino le gambe seguendo i loro precetti insensati, ben diffusi (e remunerati) da chi vuole proprio questo risultato, cosicché il fallimento resti quale memorabile esempio per chi osa anche soltanto pensare un qualsiasi cambiamento.
Si faccia dunque costantemente attenzione: non appena si sentono alcuni incitare a rivolte indistinte contro un unico insieme di dominanti, tutti eguali fra loro, si deve tranciare ogni rapporto con costoro, perché raramente sono “ingenui” da convincere ragionandoci insieme; più facilmente, sono “infiltrati” da parte dei gruppi di vertice reazionari, che se ne servono per impedire anche il più piccolo spostamento dei rapporti forza tra dominanti – ad esempio, oggi, l’avanzamento verso il multipolarismo – che apre comunque ad un cambiamento pur sempre auspicabile. Chi non capisce
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questo, e vuole intrattenere rapporti con simili manipolatori ultrarivoluzionari, è già “morto”, ha cessato di avere una qualsiasi funzione positiva, è mera zavorra di cui liberarsi senza esitazione.
2. Nelle situazioni di riproduzione di date forme di rapporti stabilizzatesi da tempo, che è la norma per lunghi periodi storici nelle diverse formazioni sociali, permangono in una certa misura le funzioni di “agitazione e propaganda”, ma è nettamente più importante l’analisi delle “strutture” di dette formazioni, che hanno notevole stabilità e nel cui ambito avvengono i confronti tra i vari raggruppamenti sociali; stabilità relativa non contraddetta, anzi mantenuta, dalla mutevolezza dei conflitti (e delle alleanze per il conflitto) tra le numerose associazioni di vario tipo (partiti, sindacati, lobbies, gruppi di pressione, club, fondazioni o aggregazioni informali “culturali”, sportive, ecc.) che rappresentano i raggruppamenti in questione nel campo della loro lotta.
Assume quindi rilievo la formulazione di teorie che cerchino di interpretare correttamente le (ipotizzate) “strutture” sociali e le loro possibili dinamiche. Diventa veramente futile il gioco di immaginazione avveniristica, spostata molto in là in un tempo futuro solo vagheggiato, nel mentre si manifestano i fenomeni del conflitto di fase, sotto i quali scorrono più lenti e sotterranei mutamenti che solo l’attenta indagine scientifica può (e con difficoltà) porre in risalto. Quando Lenin, con formula forse non precisa, parlava di “analisi concreta di una situazione concreta” intendeva appunto riferirsi alla necessità di individuare mediante analisi, di congiuntura in congiuntura, quanto si svolge in profondità, laddove sono in movimento le più incisive forze rappresentanti i gruppi sociali, soprattutto quelle che svolgono azione di potenza, quelle delle strategie politiche, di cui i fenomeni in svolgimento nella sfera economica sono mera copertura o comunque specchio deformante.
In questo senso, rivendico la sostanziale correttezza dell’enunciato marxista: “passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza”. Ovviamente, quando si usò tale concisa formulazione, si era convinti dello sbocco socialistico delle intrinseche dinamiche del “modo di produzione capitalistico”, considerato quale intelaiatura generale del capitalismo tout court. Oggi, il quadro è del tutto mutato poiché, come minimo, esistono i capitalismi e non il capitalismo, il cui “nocciolo strutturale interno” sarebbe appunto l’appena nominato modo di produzione. Resta però il significato più pregnante del “passaggio alla scienza”: non si può fare “agitazione e propaganda” sulla base di mere prediche messianiche, di “principi speranza”. Questi hanno una non trascurabile funzione di “riscaldamento dei cuori”, però negativa se non orientata dalla lucidità del cervello indagatore. E l’indagine, in questo contesto, è precisamente scienza; e la scienza esige una teoria di riferimento, una rete di categorie in cui (im)pigliare la “realtà” (non quella vera, semplicemente riprodotta, tanto meno rispecchiata). Solo la prassi – che non è la semplice applicazione di una teoria al cambiamento sociale (magari im/mediatamente rivoluzionario), ma richiede invece un lungo e continuo (a volte snervante) confronto tra previsioni tratte dalla teoria e andamenti concreti dei fenomeni sociali – conduce infine all’accettazione di alcune ipotesi e all’abbandono di altre, con modificazioni anche radicali dell’iniziale rete di collegamenti teorici.
Il passaggio dall’utopia alla scienza non fu quindi una formula influenzata – negativamente, per definizione, secondo però l’opinione di puri ideologi abituati a chiacchierare di fantasie – dal positivismo, anzi dallo “scientismo”, come sempre sostiene chi si fa vanto della sua totale ignoranza in tema di scienza. Il “fallimento” del socialismo – un fallimento che è di tutte le teorie e le prassi rivoluzionarie, se si fa semplicemente il confronto tra i risultati ottenuti in lunghi processi storici (ad esempio dal 1917 ai fenomeni interessanti Russia e Cina attuali) e ciò che era stato posto come obiettivo iniziale – ha provocato due derive “nichiliste” dell’atteggiamento scientifico iniziale.
Da una parte, ci sono quelli che si aggrappano alla fede, che considerano sempre valide di per sé le formulazioni originarie di Marx; si sarebbero solo sbagliati i tempi, ma la via è quella, maturerà in qualche secolo invece che in qualche decennio (perché ciò è quanto prevedeva Marx, come ho dimostrato esaurientemente analizzando alcuni esemplari testi marxiani, analisi che si trovano anche
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nel sito oltre che in so quanti miei libri). Essendo Marx un genio superiore, non può avere commesso alcun errore. Qui siamo al di fuori di ogni atteggiamento scientifico; si possono usare tutte le formule matematiche che si vogliono, tutte le statistiche che si vogliono manipolandole per dimostrare – è solo un esempio – la caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc. Abbiamo a che fare con la “malattia” (la fede) dei vecchi tomisti aristotelici contro Galilei, un fenomeno vecchio e che spesso si ripete. Non ha alcun senso continuare la discussione con simili cervelli immersi nel ghiaccio polare; non siamo nel 1600 e non vi è alcuna potente Chiesa che minacci gli eretici. Abbiamo semplicemente a che fare con pochi dementi preti di un “marxismo” ormai morto e putrefatto. Lasciamoli quindi perdere, sono fenomeni da baraccone.
L’altra deriva è più “simpatica”, ma comunque deleteria. Si ritorna, in un certo senso, all’utopismo. Tuttavia, quest’ultimo non ha lo stesso senso di quello premarxiano. Allora esprimeva, almeno nelle sue correnti maggioritarie, l’ultima resistenza ideologica dei settori dell’artigianato precapitalistico, della piccola produzione (e proprietà) in genere mercantile, talvolta ancora immersa in forme semifeudali, contro un capitalismo del tutto vincente e dilagante. Marx fu criticamente tassativo verso simili correnti e già nel Manifesto ne stilò una precisa classificazione. Lenin – russo e buon conoscitore della realtà del suo paese – non fece nemmeno la “cortese” concessione di Marx (poco prima di morire) e non prese minimamente in considerazione la primitiva “comunità” contadina russa che, in linea generale, assomigliava alle varie comunità contadine dell’era pre-industriale: rigida gerarchia all’interno secondo consuetudini che schiacciavano chiunque tentasse di sottrarsi al soffocante conformismo, funzionale al predominio di ristretti vertici; mentre i “devianti” potevano salvarsi dalla soppressione o espulsione solo diventando “i matti del villaggio”.
La rivoluzione russa poté scoppiare perché gli eventi traumatici (la guerra, l’arruolamento in massa, l’uso delle armi, l’odio maturato verso i superiori una volta createsi le condizioni dello sgretolamento dell’intero ordinamento zarista, anche militare, ecc.) fecero rivoltare il grosso raggruppamento sociale dei contadini, estremamente composito, non soltanto contro il potere centrale, ma anche nei confronti dei “maggiorenti” del villaggio e, soprattutto, di una reale – al di là della finzione della comunità – maldistribuzione delle terre o quanto meno dei loro vantaggi. Non a caso, la rivoluzione si basò solo in parte sui ristretti gruppi operai di Mosca e Pietroburgo; le sterminate masse contadine, decisive in senso rivoluzionario, si mossero perché fu ben individuata dai bolscevichi la linea di differenziazione tra i contadini poveri (l’enorme maggioranza) e gli altri, cui si tolsero le terre con la parola d’ordine della loro distribuzione ai contadini (appunto quelli poveri).
Se così non si fosse proceduto, le “armate bianche” avrebbero fatto il pieno di reclutamenti nelle campagne e soverchiato ristrette forze comuniste, culturalmente moderne ma politicamente inette, asserragliate nei ridotti delle poche grandi città. In definitiva, l’alleanza tra operai (scarsamente numerosi) e contadini (la marea di quelli poveri) – vero vanto strategico dei non dottrinari comunisti leninisti – è stata decisiva per la rivoluzione; essa fu ottenuta dissolvendo di fatto, grazie all’evento bellico traumatico ed educatore, i reazionari legami comunitari e portando così la stragrande maggioranza dei contadini (poveri) in appoggio dell’unico gruppo rivoluzionario conseguente (ma strategicamente e tatticamente flessibile), quello bolscevico.
Oggi, ogni ritorno utopico non ha più una reale funzione in grado di attecchire tra le masse; è fenomeno marginale di intellettuali “in ritardo”, tagliati fuori dal veloce flusso dei mutamenti interessanti qualsiasi società capitalistica, che produce nel contempo piccole sacche di emarginati, di disadattati, pericolose quando si acuisce la lotta interna ai dominanti, dove una buona parte dei loro gruppi in conflitto si vede in “discesa”, in perdita di potenza, a causa del generale (mondiale) rimescolamento dei rapporti di forza tra le diverse formazioni particolari nella fase dell’incipiente passaggio al multipolarismo. Solo in tal caso, queste sacche di disadattati, guidate da spericolati demagoghi (con alle spalle gli utopisti antimodernisti), possono giocare un ruolo: rischiano tuttavia di
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trasformarsi in squadracce pronte a colpire chi è proiettato in avanti seguendo comunque il flusso degli eventi nella fase multipolare.
3. In ogni caso, anche l’utopismo odierno, pur differente da quello ottocentesco, premarxista, svolge un ruolo eminentemente reazionario – al di là delle intenzioni, della buona o mala fede, dei suoi singoli predicatori – impedendo di cogliere le reali differenziazioni interne ai gruppi dominanti e favorendo così l’azione di quelli tra questi che, nella conservazione di una configurazione mondiale non multipolare, trovano il loro parassitario tornaconto. La lotta contro questo fronte di accanita conservazione non va condotta semplicemente rivendicando lo spirito moderno, tecnico e scientifico. Nelle formazioni particolari – in cui hanno notevole forza i gruppi (sub)dominanti legati ai (pre)dominanti di una formazione sociale (centrale) ancora prevalente sul piano globale – il conflitto interdominanti assume spesso particolare virulenza e provoca s-composizione sociale, e dunque caos, che rende difficoltosa la percezione dei reali mutamenti in corso.
I (sub)dominanti reazionari – le sanguisughe del corpo sociale in netta subordinazione ai (pre)dominanti centrali – godono di particolari risorse, una parte delle quali alimenta la battaglia di retroguardia atta ad impedire l’ascesa di gruppi dominanti comunque autonomi e in conflitto con quelli della formazione (pre)dominante. In tal caso, lo ripeto, non è sufficiente combattere contro lo spirito antiscientifico degli utopisti in oggettivo appoggio ai (sub)dominanti “parassiti”. E’ ovvio che l’analisi va innanzitutto condotta su un piano sociale globale, capace di progredire verso la comprensione dell’insieme dei rapporti esistenti nel complessivo campo di battaglia mondiale; nel contempo, si devono studiare le specifiche contraddizioni interdominanti in quella porzione di tale campo di battaglia, rappresentata dalla formazione particolare in cui ci si trova ad operare (per noi l’Italia).
Il problema, in sé e per sé, non è la Nazione; non è però neppure un fumoso “internazionalismo” con riferimento ad una congerie indeterminata, confusa, di dominati (in genere semplici non decisori), cioè a quella “notte in cui tutte le vacche sono nere” (tipo la “Moltitudine”), ideologia che serve mirabilmente gli interessi dei (sub)dominanti serventi nei confronti dei (pre)dominanti centrali. E’ necessario invece analizzare l’insieme del campo del conflitto interdominanti e quello particolare nell’ambito dell’insieme. Il “proprio paese”, la “nazione”, la “nostra società”, ecc. sono semplici punti di riferimento di interessi di gruppi sociali che si battono comunque per l’autonomia di una formazione particolare rispetto ai suddetti (pre)dominanti centrali. E’ ovvio che, in una situazione complessiva di fase in cui ancora non sussiste pienamente il multipolarismo (tanto meno l’aperto confronto policentrico), qualsiasi fuga in avanti, del tipo del “combattiamo frontalmente tutti i nemici” (i dominanti), è perfettamente consona agli interessi dei (sub)dominanti serventi.
Il problema della scienza nasce proprio in tale contesto. Non si tratta di pura adorazione della Ragione che tutto risolverebbe, che comporrebbe gli interessi contrastanti in una “Armonia Universale”. Questo è l’altro corno dell’ideologia dei dominanti più reazionari, che intendono paralizzare ogni possibile cambiamento di quella situazione di fase così favorevole, finché appunto tutto resta com’è, ai loro specifici interessi da mignatte. “Armonia Universale” e “utopismo pseudorivoluzionario” vanno criticati insieme; e proprio sul piano dell’analisi, la più corretta e incisiva possibile, che esige l’uso di categorie teorico-scientifiche. Insisto: non per amore della “scienza per la scienza” (che è come “l’arte per l’arte”), bensì per porsi in grado di effettuare la leniniana “analisi concreta della situazione concreta”; per studiare e afferrare il complesso delle contraddizioni, sapendo quali sono, in una determinata congiuntura, le più decisive per scuotere il “torpore” di un assetto complessivo che favorisce i (pre)dominanti centrali e vorrebbe rendere succubi tutti gli altri.
Questi ultimi, a loro volta, non sono un ammasso informe, bensì caratterizzato da peculiari configurazioni interne alle varie formazioni particolari. Questo fatto non va dimenticato; si tratta però di assegnare alle diverse articolazioni “strutturali” (dei rapporti di forza tra gruppi sia nella formazione mondiale che in quelle particolari) il loro peso specifico, diverso di fase in fase. In una congiuntura
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d’avvio del multipolarismo, assume maggiore rilevanza il reticolo conflittuale che “struttura” il campo di battaglia tra dominanti. Precisamente: quello mondiale, in cui si confrontano i (pre)dominanti centrali con i dominanti delle potenze in crescita verso l’antagonismo multipolare; e quello, interno ad una formazione particolare, tra (sub)dominanti, serventi i (pre)dominanti centrali), e dominanti alla ricerca di una maggiore autonomia rispetto a questi ultimi. Una ricerca nient’affatto disinteressata, non effettuata perché tali dominanti siano particolarmente sensibili agli interessi della “popolazione” (sarebbe un’altra ideologia ingannatrice); l’aspirazione alla maggiore autonomia è semplicemente consona ai loro specifici interessi strategici che divergono sempre più da quelli dei (pre)dominanti centrali.
Tuttavia, poiché nel coinvolgimento di più ampi strati sociali in questa lotta per l’autonomia non ci si serve certo della sola analisi scientifica, l’uso di categorie quali il “nostro paese”, la “nazione”, il “popolo” (maggioranza della popolazione), hanno una funzione nient’affatto reazionaria. Non sono valori in sé, astratti e proiettati nell’“eternità” che è l’ambito (ingannevole) proprio di ogni ideologia; essi hanno però un valore di fase, discendono dall’“analisi concreta di una situazione concreta”. Si tratta di valori che hanno una fondamentale funzione coadiutoria dell’analisi scientifica in quella particolare “situazione concreta” rappresentata dal succedersi degli eventi in direzione del multipolarismo. Chi non lo capisce, torni “nella culla” perché è ridiventato un neonato, che non crescerà mai più.
4. Concludendo. Dobbiamo comunque tornare alla scienza; non però, dati i risultati di 150 anni (e passa) di storia (dal Manifesto marxiano del 1848), al “socialismo scientifico”. Quest’ultimo è stato smentito e gli intellettuali “romantici” sono tornati non a caso al comunismo utopico, al comunitarismo precapitalistico; e talvolta in mala fede, perché ormai funzionanti dietro “alimentazione” da parte dei (sub)dominanti parassiti subordinati ai dominanti del centro. Coloro che sono ancora in buona fede non possono più esitare – in questa fase, di sempre maggior chiarezza quanto allo scontro multipolare e con gli Usa attuanti la nuova tattica del serpente, di cui son parte fondamentale le “rivoluzioni colorate” appoggiate da fin troppi intellettuali di vario genere: dai “democratici” del “politicamente corretto” agli antimodernisti che si fingono custodi di “grandi tradizioni secolari” – a rompere con i reazionari e ad avvicinarsi ad una nuova analisi scientifica di fase (congiuntura), appoggiando tutto ciò che conduce verso il multipolarismo.
La scienza non ha nulla di esaltante per trascinare le masse; questo viene dopo. Fin quando non si sono capite le determinanti “oggettive” della fase in cui si opera, passare subito alla farneticazione sul futuro – così come fu un tempo per il “Sole dell’Avvenire”, che era però basato sulla fiducia nell’avanzamento della storia verso il socialismo – è, lo ribadisco, atteggiamento favorevole di fatto ai dominanti più reazionari, in difficoltà quando avvengono mutamenti di vario genere che cambiano la situazione sociale (mondiale innanzitutto), di cui essi non riescono ad avere più il controllo, con conseguente progressiva perdita dei vantaggi di cui prima godevano. La scienza vive esclusivamente del “prova-errore-riprova”. Essa – necessariamente obbligata a fissare in “strutture” successive ciò che non è strutturato ma continuamente mutevole e cangiante – non ha la possibilità di sussistere in una data formulazione per sempre; soprattutto nel campo delle scienze della società, dove il campo di battaglia conosce diverse configurazioni di conflitto tra strati sociali multiformi e variegati, di cui si deve supporre una determinata segmentazione (orizzontale) e stratificazione (verticale). Nessun genio, che non è mai Dio “onnisciente e onnivedente”, può pretendere di essere creduto e seguito per più di qualche tempo, in genere assai breve.
La grandezza di Marx è evidente. La piccolezza di quasi tutti gli epigoni lo è altrettanto; per ben oltre un secolo hanno preteso di ripetere con infimi mutamenti la sua teoria, finché questa è diventata una semplice “dottrina religiosa”, che ha funzionato per un certo tempo quale ideologia di legittimazione del potere in un paio di grandi potenze che, pur essendosene poi dissolta una, hanno
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avuto comunque una grande funzione storica, ma non certo per quanto concerne socialismo e comunismo. Oggi, poi, anche quella che sembrava dissolta riprende quota e si dimostra nuovamente all’altezza di importanti mutamenti storici; questi però, ancora una volta, nulla hanno a che fare con fantasie varie circa una società di “giustizia ed eguaglianza”. L’unico marxista rivoluzionario (molto eccentrico) fu Lenin. Non fu solo un “pragmatico” della trasformazione sociale, fu invece pure un teorico sopraffino. Non però in tema di marxismo, grande invece per la teoria della politica, nel suo alto senso di flessibile e mutevole atteggiamento strategico-tattico di fronte alle necessità della “situazione concreta”. Anche la scienza va dunque adeguata, in primo luogo, a tale situazione, all’articolazione del conflitto strategico-tattico.
Una scienza che non si rinnovi, una teoria che non venga riformulata dopo un periodo di tempo relativamente breve, diventa una fede religiosa. Nessun genio può veramente conoscere il futuro. La società procede per trasformazioni continue, che però conoscono accelerazioni, salti bruschi, svolte più o meno improvvise, sempre preparate dalle correnti più profonde e coperte, difficilmente valutabili e indagabili anticipando un troppo lontano futuro. Oggi siamo, a me sembra del tutto evidente, in una fase storica di cambiamento, in cui però quest’ultimo è provocato dal conflitto tra dominanti; e soprattutto da quello in svolgimento sul piano mondiale, cui restano in notevole misura subordinati gli altri conflitti, di cui adesso non faccio l’elenco. In questo particolare momento storico, ridiventa essenziale la riflessione – che prenda pure avvio da diverse correnti e pensatori del passato – sulla “situazione concreta” di fase. In primo piano torna dunque la scienza, espungendo le dottrine che cristallizzano in fede vecchie teorie a suo tempo geniali nonché le fantasie utopiche che distolgono l’attenzione dai rapporti di forza reali esistenti nei diversi campi di battaglia, sia mondiale che interni alle varie formazioni particolari.
Noi partiamo dalla riflessione critica del marxismo, da cui certamente fuoriusciamo poiché, se cristallizzato in vecchie formule, è appunto soltanto una fede e nulla più. Altri seguiranno differenti orientamenti teorici, ma si spera con l’altrettanto forte convinzione di una rielaborazione radicale. I diversi fasci d’osservazione si dirigano all’“analisi concreta della nuova situazione concreta”. Su questa base si creino diversi e intrecciati “presidi” che controllino e cerchino di orientare l’attenzione di nuclei, molecolari e via via macromolecolari, intorno alle complesse (e complicate) prassi sociali della fase. La strada è all’inizio; anzi lo sono diverse strade che dovrebbero confluire ampliando intanto la conoscenza della situazione e i gruppi di interessati alla stessa e all’azione politica in essa.
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