PILUCCANDO ANCORA
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(2 novembre)
“AirOne e Intesa San Paolo starebbero lavorando ad un progetto per l’ingresso della banca nel capitale di Ap Holding (a cui fa capo AirOne di Carlo Toto) che darebbe maggiore garanzia finanziaria al gruppo dell’imprenditore abruzzese che controllerebbe poi sia AirOne che Alitalia”. Si sta dunque continuando a lavorare “per il Re di Prussia”, al secolo Intesa nelle mani di “amici” accreditati a Prodi (ovviamente sono gli “amici” a comandare e non quest’ultimo). Quello che irrita è che il tutto viene portato avanti – contro convinte (o di facciata) avances da parte di Air France e Lufthansa – brandendo il fine patriottico di mantenere italiana Alitalia. La memoria è assai corta; due anni fa ci si dimostrava disgustati della difesa dell’italianità da parte di Fazio, perché era contro le regole del libero mercato nell’economia “globalizzata”. Se ancora non si sono capiti gli scopi dell’operazione con cui venne liquidato Fazio per sostituirlo con Draghi – se non ricordo male, direttore del Tesoro all’epoca dell’acquisizione di Telecom da parte dei dalemiani “capitani coraggiosi”; e vicepresidente dell’americana Goldman Sachs fino alla sua nomina al posto di Fazio – allora si è assai duri di testa. Non c’era alcuna italianità da difendere, ma solo il potere degli “amici” del leader dell’Ulivo, e ancor oggi (e non per poco) Premier malgrado il suo Governo sia pressoché paralizzato e inefficiente. Come già nell’operazione “mani pulite” dei primi anni ‘90, non è che gli “accusati” (i “furbetti del quartierino”) fossero innocenti; ma sono stati battuti, con il loro protettore Fazio, per puri problemi di rapporti di forza tra le bande capitalistico-finanziarie italiane (con il “piccolo establishment” come sempre capofila), non per problemi di giustizia. E la “patria” – ancora una volta “ultimo rifugio delle canaglie” (Samuel Johnson) – veniva denigrata allora, e oggi riscoperta, da chi porta i propri capitali nei paradisi fiscali (vedi gruppo Charme in Lussemburgo), ma vuole impadronirsi di tutto il possibile per reggere questo marcio regime del capitalismo (quello imbroglione e magliaro) italiano.
E veniamo ad un altro piccolo segnale inviatoci da simile capitalismo. Tra il 28 settembre e il 25 ottobre, quattro alti manager del “gruppo Fiat” (uno di questi passato ora alla Mondadori) hanno venduto parte del patrimonio acquisito con le stock options. In parole povere, avevano ricevuto come emolumenti a vario titolo (non certo per il valore-lavoro della loro forza-lavoro) pacchetti azionari Fiat di possibile vendita entro una certa data. Hanno scelto il periodo indicato per liquidare almeno parte di tali pacchetti (si parla di un valore complessivo, per i quattro, di oltre 3 milioni di euro). Evidentemente, si erano convinti che il titolo avesse raggiunto, o quasi, il top. Del resto, questa è pure l’opinione del Wall Street Journal; e anche di Mediobanca, che ha abbassato il giudizio sui titoli Fiat da outperform a neutral, riducendo anche il target price (obiettivo di prezzo fissato in base ad analisi delle potenzialità del titolo) da 27 a 25 euro ad azione (dopo la pubblicazione dei dati relativi al terzo trimestre); a meno che – allora verrebbero rivisti sia giudizio che prezzo-obiettivo – il Governo non rinnovi le facilitazioni relative alla rottamazione anche per il 2008, cosa che si ritiene quasi sicura. Si è infine capito da dove derivano i “successi” (e gli utili) della Fiat? Certo, la rottamazione non è il peggio per le casse dello Stato (ci sono poi anche rientri), ma aggiungiamoci pure i prepensionamenti e tutti i finanziamenti sempre avuti da tale nefasta azienda, che continua a vivere, come sempre nella sua lunga storia, alle spalle dell’intera società italiana; da sola fa ben poco (salvo il “grande prodotto innovativo” del secolo, la famosa “stufa a quattro ruote”; pardon, la nuova 500).
Il “meraviglioso mago” Marchionne gioca al capitalista buono, di tipo social-riformista (dopo gli esempi luminosi di Adriano Olivetti, di Raffaele Mattioli e, ovviamente, di Enrico Mattei; è proprio vero che la storia si ripete in farsa!), facendo l’elemosina di 30 euro (lordi) ai lavoratori Fiat, e pretendendo di averne all’incirca un miliardo e mezzo per lo stabilimento di Termini Imerese. Mi sembra che l’offerta governativa, al momento “sbertucciata” dagli interessati, sia di 250 milioni di euro più 75 da parte della Regione Sicilia (e sono già troppi per un’azienda del genere); alla fine, vedremo su quale cifra ci si assesterà (anzi, non vedremo un bel nulla, perché quella reale non la sa-
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premo mai). Del resto, quanto è ormai costata al sistema-paese questa azienda, considerata “modello” perfino dalla sinistra (anche “estrema”), è incalcolabile; essa si è comunque sicuramente dimostrata una vera piovra (o pare un po’ meno lesivo il termine mignatta?).
Nel mentre il “patriottico” pessimo capitalismo italiano fa i suoi giochetti (pesanti per noi “poveri cristi”), la crisi finanziaria mondiale, su cui si cerca di parlare poco e di disinformare molto, continua a strisciare pericolosamente. Il giorno di Ognissanti l’allarme rosso è scattato per il potente Crèdit Suisse e per il colosso americano Citigroup (il cui ad si è dimesso il giorno dopo). Anche il nostro minore Unicredit ha fatto la sua “bella” (cioè brutta) figura.
Negli ultimi periodi, la finanziaria (Gmac) della General Motors ha sofferto perdite per 1,6 miliardi di dollari; e la Northern Rock, nota per aver chiuso gli sportelli un mese fa o poco più, ha chiesto urgentemente alla Banca d’Inghilterra più di 2,2 miliardi di sterline per far fronte ad una crisi evidentemente non ancora risolta. Infine l’indice Abx, che dà “la temperatura” del settore creditizio, avverte che le banche stanno perdendo sempre di più per derivati e dintorni. Più che registrare gli scossoni, i suddetti “poveri cristi” non possono fare. Sia però ormai lecito sospettare che chi regge l’economia non capisca una….. “seppia”, oltre certamente a mentire a tutto spiano. Non parliamo degli economisti, dei consulenti finanziari e simili, le cui balle ultraremunerate continuano ad inondare giornali che hanno ormai superato ogni limite di decenza. Pur soltanto per cambiare tutto ciò che è completamente “storto”, e senza pensare a chissà quali altre società alternative, sarebbe necessario uno scossone molto rude, che difficilmente può passare per una “sgridata”, un “buffetto”. Bisognerebbe agire come Putin nei confronti degli “oligarchi” finanziari dell’epoca eltsiniana; oppure come in Cina, dove gli imbroglioni subiscono una sorte ancor più dura. Qui invece sono tutti buonisti; naturalmente con i potenti che mandano all’aria il paese, mentre milioni di persone cominciano ad avere effettivi problemi: non rischiano di morir di fame, ma di andare incontro a difficoltà crescenti per tenersi a galla (tenendo certo conto che non viviamo in un paese sottosviluppato, sottonutrito, senza servizi, senza infrastrutture, senza ospedali, senza un minimo di “riposo”, ecc.). Andiamo avanti così ancora un po’; poi vedremo i bei risultati di tanta inerzia. E vedremo che cosa ce ne faremo della libertà di mercato, e di altre “belle” libertà di cui soltanto si ciancia; ne cianciano, in particolare, quelli con vita di extra lusso e al riparo da ogni sorpresa.
3 Novembre
Ieri in evidenza le perdite di colossi finanziari quali la Barclays e la Royal Bank of Scotland, ma soprattutto di quel “pezzo da 90” che è la Merrill Lynch. Interessanti i motivi della caduta verticale dei titoli di quest’ultima in Borsa. Il Wall Street Journal ha rivelato che la Sec (l’analoga statunitense della Consob) starebbe indagando su una “manovrina” non proprio chiara della grande banca. Essa, messasi d’accordo con un hedge fund, si sarebbe fatta acquistare una buona partita di obbligazioni agganciate a prestiti immobiliari (gli ormai famosi “subprime”), con l’obbligo di riacquistarli fra qualche mese ad un prezzo maggiorato (il premio per il fondo che si presta all’operazione). In questo modo, verrebbe rinviata al prossimo anno (quindi saltando oltre il bilancio finale del 2007) la messa in evidenza delle perdite sui suddetti prestiti immobiliari, magari sperando che, nel frattempo, il mercato immobiliare si riprenda. E’ evidente l’azzardo e soprattutto il navigare a vista del gruppo dirigente di uno dei più grandi istituti finanziari della più potente finanza del mondo. Sembra quasi di essere in Italia, in compagnia dei “magliari” nostrani.
Mi piace intanto rilevare – anche se ne dovremo riparlare quando il quadro sarà più chiaro – il vero e proprio colpo di Stato militare operato in Pakistan da Musharraff. Evidentemente, si avvicina la resa dei conti. Gli USA hanno manifestato aperto malcontento; è ovvio che in parte essi dimostrano la loro abituale ipocrisia, il “lanciare il sasso e nascondere la mano”, ma non si creda però che sia tutta finzione. La potenza “imperiale” contava molto sul ritorno della Bhutto, al fine di tentare la solita “rivoluzione arancione” (o simile): quella che usa le “elezioni democratiche”, alterate da una
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vasta opera di corruzione a suon di dollari di una serie di “grandi elettori” (gruppi politici mafiosi che manovrano settori delle “masse”). Probabilmente, Musharraff ha poca voglia di perdere il potere; ed è in grado di giocare sul fatto che quel paese non è certo la Georgia o l’Ucraina. Il movimento islamico ha radici popolari profonde; le “libere elezioni”, malgrado la corruzione e la manipolazione, sono un rischio. In ogni modo, come detto, attendiamo gli sviluppi ulteriori e, per certi versi (con moderazione!), rallegriamoci, perché un’altra delle previsioni fatte negli ultimi anni si sta realizzando. Il Pakistan è uno dei veri “perni” degli attuali “equilibri” (sempre più squilibrati) dei rapporti di forza nel mondo: la sua crescente instabilità lancia l’avvertimento circa l’avvicinarsi di un punto di crisi; in ogni caso, segnala che sempre più probabile diviene nel medio periodo l’avvento di una fase policentrica (per il momento, per favore, si usi il meno possibile il termine imperialismo che rischia di annebbiare le idee).
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