CIO’ CHE “APPARE” E CIO’ CHE “E’”
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1. L’economicismo non è una “deviazione” propria del solo marxismo; in ogni caso, di quel “marxismo”, quasi esclusivamente novecentesco, assai differente dal pensiero di Marx tutto teso alla elaborazione di una teoria dei rapporti sociali; nettamente diverso anche dal pensiero in azione di Lenin, che si serviva di indagini economiche (spesso compiute da altri) per inserirle nel contesto dell’analisi, e susseguente operatività, relativa alla specifica congiuntura (storica) in cui si “immergeva” con radicalità. Gran parte del marxismo del secolo scorso – per non parlare di quello degli orridi rimasugli odierni – è stato dunque una vera degenerazione rispetto all’originale, nella falsa credenza che, per fare scienza, ci si dovesse attenere all’empiria di dati puramente economici e alla loro “trasfigurazione” in “leggi dell’economia”.
Tuttavia, l’economicismo dilaga anche presso gli studiosi delle discipline tipiche insegnate nelle “accademie” delle “classi” dominanti; discipline che non hanno più nulla di veramente teorico, nel senso alto del termine, ma sono ormai semplici tecniche con le quali si formulano modellini del tutto incapaci di imbrigliare, sia pure a livello di mere ipotesi, le grandi correnti storico-sociali. Basta vedere qual è stato il dibattito tra le varie correnti del pensiero sociale nel secondo dopoguerra: sono state definite economia, sociologia, ecc.; ma salvo eccezioni (per di più parziali), sarebbe meglio qualificarle come econometria, sociometria, ecc. pur se non nel senso specifico della definizione che viene data di simili branche delle tecniche. Anche i presunti dibattiti teorici sulla preminenza del neoliberismo o del neokeynesismo, e via dicendo, sono condotti con scarso senso delle strutture sociali. Adesso, poi, che si avvicina la “più grande crisi dopo quella del ‘29” (non sono io a dirlo), leggiamo solo commenti a dati economici e finanziari, a manovre delle banche o alle varie politiche economiche statali. Tutto nell’ottica secondo cui la crisi si batte con misure prese nel campo dell’economia: o strettamente finanziarie o con interventi in quella detta reale.
Ci si divide tra coloro (attualmente in minoranza) che continuano a inneggiare alle virtù di un mercato lasciato a se stesso, poiché non vi può essere migliore regolatore delle sorti umane; e coloro che invece predicano un massiccio intervento delle “autorità”. Naturalmente con un mix di misure finanziarie, tese per lo più ad aumentare la liquidità del sistema (che, in mancanza di prospettive di guadagno, non la “beve”), a salvare le più grosse istituzioni bancarie e assicurative dal fallimento, controllandole (almeno a parole) un po’ più strettamente, nella speranza che questo consenta un loro risanamento, le spinga a smetterla con le vecchie operazioni d’azzardo e di rapina, riconsegnandole alla loro funzione di intermediarie tra risparmiatori e investitori (il credito a chi produce); una funzione che si insegna all’Università, questa fucina di futilità, in qualche caso anche di apprendimento di tecniche utili, che tuttavia non debbono essere fatte passare per scienza.
Ci sono poi quelli che vorrebbero limitarsi a drastiche riduzioni della pressione fiscale – chi prevalentemente sulle “persone fisiche” e chi sulle imprese – per consentire aumenti della domanda di beni di consumo (da parte delle persone) o di beni di produzione, cioè investimenti (da parte delle imprese). Che cosa caratterizza le varie
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correnti, e le accomuna nel loro reciproco opporsi in senso antitetico-polare (cioè sorreggendosi a vicenda nel loro finto duello, tanto aspro quanto condotto con “spade di cartapesta”)? Il fatto di credere che si possa uscire dalla crisi – ma è la stessa cosa nei periodi di “vacche grasse”, per quanto riguarda le ricette suggerite ai fini dello sviluppo – dal lato dell’aumento della domanda. E che sia di beni di consumo o di beni di investimento, non ha grande importanza. La prima metterebbe in moto, secondo le “ipotesi di scuola”, la produzione e quindi anche gli investimenti; la seconda consente di occupare fattore lavoro, distribuire salari e così aumenterebbero anche i consumi.
Da queste prime “superficialità” ne derivano di più grosse (e ridicole). Perché viene invertito il rapporto causa-effetto: la crisi si aggrava per il pessimismo della gente. Questa deve essere spinta a non perdere le precedenti abitudini di consumo (con quali soldi?). Così pure le imprese non debbono smettere di investire (con quali prospettive di profitto?). Le banche debbono riprendere a concedere crediti a chi produce (con quali attese di rientro?). E si sprecano le ricette: abbassare i saggi di sconto e quindi di interesse (dopo decenni e decenni di uso dello strumento, possibile che non ci si accorga che serve a ben poco?), immettere liquidità in vari modi, ridurre l’imposizione, sovvenzionare consumi personali (con qualche misura tipo “elemosina”) o le imprese (magari soltanto per non farle fallire), usare ammortizzatori sociali, ecc. Quel che deve avvenire, avviene comunque. C’è qualche alleviamento della pena? In qualche caso si può ottenere, ma come quando si prende l’antalgico per attenuare temporaneamente il dolore, non eliminando la causa dello stesso che quindi si riacutizza alla fine dell’effetto del medicamento.
Non c’è giornale (o telegiornale) che non dia soltanto notizie sulle misure di carattere meramente economico prese dai vari governi o da altre “autorità” (nazionali e internazionali); oppure informazioni che riguardano le borse, gli indici dei prezzi, quelli della produzione e dei consumi, dell’import-export, ecc. Certi temi diventano più ossessivi quando si approssima il “temporale” – la crisi, in specie questa che sembra essere molto grave – ma vengono in ogni caso trattati con gli stessi schemi mentali (e tecnicistici in senso puramente economico e finanziario) anche quando ci si trova nei periodi di crescita. Il problema “assillante” è sempre il medesimo: si combatte meglio la crisi, o si promuove meglio lo sviluppo, lasciando “giocare” a tutto campo la smithiana “mano invisibile” (mercato) oppure utilizzando, più o meno ampiamente, la politica economica condotta in sede “pubblica” e sorretta dall’autorità e potere dello Stato?
Domanda stucchevole, che si ripete da un secolo o quasi, senza tener conto di lezioni storiche decisive: prima fra tutte proprio quella della grande depressione iniziata nel ’29. Non fu vinta – come una deviante ideologia dei dominanti ha voluto far credere, impregnando d’essa per svariati decenni l’insegnamento universitario in ogni parte del mondo – con la “spesa pubblica”, con lo Stato quale “Grande Demiurgo”. Un inganno che ha condizionato le tecniche (fatte passare per “teoria generale”) dei dominanti capitalistici e svilito le opposizioni (blande) di coloro che avrebbero dovuto rappresentare i dominati (o non decisori). Quella depressione non finì affatto nel 1933, come si favoleggia sempre nei libri di storia (stravolta da quella ideologia).
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Tanto è vero che alcuni seguaci di Keynes estesero le sue tesi al lungo periodo prevedendo una stagnazione permanente. La guerra mondiale mise fine a tali previsioni pessimistiche. E allora ci si chieda il perché si debba uscire dalla depressione in modo così drammatico.
2. I critici del sistema capitalistico (sia quelli radicali che quelli moderati e riformistici) hanno sostenuto, non rinunciando all’ideologia “keynesiana”, che la guerra aveva rianimato la domanda. La spesa militare – creatrice di reddito e quindi di domanda, nel mentre non fa affluire in offerta nel mercato i beni prodotti che vanno inviati nel teatro degli scontri militari, dove vengono in buona parte distrutti – sarebbe la causa principe dello sviluppo di questo sistema, che sana così, imponendo immani sofferenze all’umanità, le sue crisi. Finita la guerra mondiale, ci furono le necessità della ricostruzione; inoltre furono pressoché ininterrotte le guerre locali, per cui non venne mai a mancare l’alimento della spesa statale militare.
I marxisti – ancora numerosi nel primo dopoguerra, poi assottigliatisi sempre più – non furono soddisfatti di questa visione derivata da una certa interpretazione di Keynes (magari in “salsa marxista” come quella del gruppo della Monthly Review guidato da Sweez, Baran e Magdoff). Tornare alla tesi dell’anarchia mercantile era difficile data l’evidente centralizzazione (coordinatrice) del sistema capitalistico alle dipendenze degli Usa. Restava però la caduta tendenziale del saggio di profitto legata all’aumento della composizione organica del capitale, che di fatto significa crescita più che proporzionale del capitale fisso; la guerra era appunto un buon mezzo per distruggere parte di quest’ultimo, ridando slancio al saggio di profitto. Non entro nemmeno nella discussione di tesi simili. In passato, e oggi ne arrossisco, le ho anche prese in considerazione, addentrandomi in mille cavilli capziosi. Purtroppo, questo è il pedaggio che i marxisti formatisi negli anni ’50-’70 hanno dovuto pagare alla degenerazione del pensiero sociale di Marx fatta subire dagli economicisti (falsi scienziati, realmente scientisti), che d’altronde erano combattuti – sempre in antagonismo antitetico-polare – dall’umanesimo “marxista”, altra degenerazione, in tal caso religiosa, della teoria marxiana della società (non a caso, molti dei principali marxisti umanisti o erano religiosi in senso proprio o lo divennero).
Difficile scegliere tra due “deviazioni” del genere, che hanno contrassegnato il declino del marxismo, concomitante all’involuzione, e poi implosione, del “socialismo reale”; fenomeno su cui le ultime vestali del comunismo piangono, i rozzi e ignoranti anticomunisti gongolano. Nessuno sembra essersi accorto dello sbocco di tale processo che, pur attraversando un periodo (storicamente breve) di tormentosa transizione, è giunto in definitiva all’inveramento del più profondo (e per me positivo) significato dell’evento del 1917, per circa un secolo vissuto ideologicamente quale tentativo di costruire il socialismo e comunismo. Nella nuova epoca che si sta aprendo – certo per troppi versi ancora sconosciuta – i prodotti principali di quell’evento, Russia e Cina, eserciteranno quasi sicuramente una notevole influenza sul “progresso della formazione, non semplicemente economica, della società” (sto citando, con opportuna correzione antieconomicista, un’affermazione di Marx); alla faccia, spero, dei (pochi)
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comunisti solo rivolti al passato (salvo i loro “capi”, meschini mestatori al servizio del capitale più parassitario) e dei (tanti) anticomunisti sempre più rozzi e ignoranti (hanno comunque preso una gran paura di finire nella “pattumiera della Storia”).
E’ ora di abbandonare definitivamente economicismo e umanesimo. Quest’abbandono fu lucidamente sostenuto, e con argomentazioni tuttora valide, da Althusser. Tuttavia, la sua lezione si è persa e si è avuto un nuovo regresso verso quelle degenerazioni: lo ripeto, non certo del solo “marxismo”, ma del pensiero in genere, anche delle correnti dominanti. Riferendomi adesso al solo marxismo, non è qui il caso di analizzare a fondo il perché della sconfitta della critica althusseriana; manifesto solo, in poche parole, la convinzione che ciò sia dovuto all’averla legata a quello che tutti noi, marxisti e leninisti, credevamo allora possibile: la rinascita del movimento comunista, la sconfitta dei “revisionisti”, la ripresa della “lotta di classe” tra capitale e lavoro, il possibile riavvio della transizione alla nuova formazione sociale – anzi si insisteva soprattutto sul modo di produzione – comunista, ecc.
La completa sconfitta di simili prospettive – le cui condizioni di impossibilità nella fase storica che si stava (e si sta) vivendo non furono (e non sono) minimamente capite e accettate – non poteva non riprodurre, secondo il solito schema della farsa che nella ripetizione sostituisce il dramma, un economicismo ed un umanesimo di una pochezza e meschinità umilianti per il nostro “secondo organo preferito” (per dirla alla Woody Allen). Se si pensa a Rubin, a Lukàcs, a Bloch e a tantissimi altri – verso cui, malgrado il dissenso, permangono grande stima e ammirazione – si rimane esterrefatti di fronte all’incredibile carenza di pensiero degli economicisti e umanisti “marxisteggianti” (o similari) odierni. Ogni parvenza di rigore – che non sia il dogma rivestito di effettivo scientismo – è andata a farsi benedire, malgrado il malvezzo, appreso dai tecnici “del capitale”, di fare un uso smodato di strumenti matematici (parlo degli economicisti; gli umanisti hanno altri malvezzi, apocalittici o banalmente utopistici).
3. Non c’è altro modo che recidere alla base ogni legame con le ideologie correnti (in realtà, lo so, non si possono mai recidere come si vorrebbe; ma ci si deve muovere senza esitazioni in tale direzione). Un intento simile non significa escludere dal novero delle proprie informazioni e considerazioni gli elementi fornitici dalle tecniche in uso. Innanzitutto, però, è meglio preferire quelle adoperate dalle correnti dominanti; i critici “antisistema” sono in genere dei comici e spesso inetti imitatori, con la mania di vedere nelle “grandi crisi di trasformazione” (le distruzioni creatrici) il crollo dell’odiato nemico, che poi rappresenta sempre, dato il manicheismo di certe tesi critiche, il Cattivo, il Maligno, ecc.; da cui una confusione enorme tra piano moralistico e piano dell’analisi il più possibilmente oggettiva, con il corollario dei propri infantili desideri trasformati in realtà.
Anche per quanto riguarda le ricette atte a curare certe malattie (tipo la crisi o le difficoltà di sviluppo) il discorso non è molto diverso. Per riprendere una metafora già utilizzata, se si è in preda ad un forte mal di testa o di denti o ad una colica intestinale, ecc., nessuno rifiuta un antalgico proposto dal medico (che è un tecnico, non
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uno scienziato); per quanto mi riguarda, dopo alcune esperienze – solo per curiosità – con omeopati, iridologi, medici antroposofici e “guaritori” vari (anche i famosi “giustaossi”, con cui ho corso un reale pericolo di rimanere handicappato), vado sempre dai medici “normali” e dagli specialisti, e compro le medicine delle “grandi multinazionali”, meno costose e cento volte più efficaci di quelle “esoteriche”. So benissimo che ci sono di mezzo i profitti, che i medici possono scegliere le varie medicine in base a qualche “conveniente spintarella” di questa o quella impresa farmaceutica. Solo gli “ingenui” (eufemismo spinto) possono credere che non vi sia spesso, quasi sempre, commistione tra ricerca “scientifica”, tecniche, affari, ecc. E non soltanto in epoca capitalistica; anzi, chi rimpiange la medicina delle formazioni sociali precapitalistiche è per me un solenne imbecille, e non accetto repliche!
Fuor di metafora, si possono sempre discutere le varie proposte di misure economiche (sia in sede finanziaria che di attività produttiva) proposte dai tecnici; meglio prendere in considerazione quelle degli “esperti” dei dominanti – pur sapendo bene che sono “interessate” e spesso ben pagate – piuttosto di quelle dei “critici” (o addirittura dei “critici critici”), che ripropongono pure utopie o si rifanno all’epoca di un secolo fa e passa della “lotta di classe”. Chi è ben pagato qualche volta si sforza di pensare a come uscire dalla crisi o incrementare lo sviluppo di certe punte avanzate di un sistema; gli altri – o per sciocco buonismo congenito o perché furfanti in cerca di qualche voto con cui procurarsi le sinecure della politica politicante – pensano agli emarginati, agli “ultimi della classe”; e quel che escogitano nelle loro teste bacate servirebbe soltanto o a bloccare ogni crescita o a far precipitare la crisi in un autentico sfacelo sociale più ancora che economico. Non a caso questi “critici critici” sono, in specifiche congiunture di grave crisi non solo economica, “utili idioti” manovrati da coloro che vogliono servirsi degli emarginati quale manovalanza per operazioni sediziose di rivolgimento reazionario. Poi, questi “manovali”, una volta serviti allo scopo, vengono eliminati più o meno bruscamente (paradigmatica la fine di Róhm e dei vertici delle SA nella “notte dei lunghi coltelli” tra il 29 e 30 giugno 1934) onde dedicarsi ai problemi dell’uscita dalla crisi o dello sviluppo del sistema.
Tuttavia, credo che si debba dedicare qualche riflessione in più non ai semplici “medicamenti antalgici”, ma all’impostazione generale del tema concernente la competizione “globale” e il come muoversi in essa nel miglior modo possibile (nelle fasi di sviluppo) e nel meno peggiore in quelle di crisi. Tale impostazione generale si pone sul piano del tentativo di costruire una teoria, a partire dalla quale sia possibile discutere di determinate ricette tecniche, ma senza la pretesa che essa decida con certezza e indiscutibilità quale di queste ultime risolve, parzialmente, dati problemi. Una simile pretesa non è quella della teoria, ma della dogmatica credenza in Verità assolute ed eterne, che creano un mondo altro rispetto a quello “reale”, un mondo “sovrasensibile” in cui quello “reale” evapora e si fissa in categorie di pensiero, magari utili per raggruppare insiemi di individui e orientarli con determinazione a certe azioni dotate di temporanea efficacia. E’ bene però essere consci – o almeno i gruppi dirigenti di questi insiemi debbono esserlo – della transitorietà di quelle che in effetti sono
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semplici ipotesi da “provare sul campo” (da non confondere con l’agire immediato e inconsulto).
Le categorie che aspirano alla permanenza diventano presto pura ideologia, della quale siamo evidentemente sempre tutti permeati. Solo che alcuni vi si crogiolano o, peggio ancora, se ne servono per subornare i più deboli di mente; altri si pongono all’erta, almeno a periodi ricorrenti, per evitare cristallizzazioni che conducono a grandi disastri sociali (il crollo del “socialismo reale” e la trasformazione del comunismo in una religione per miserabili e “poveri di spirito” sono uno di questi disastri). Nessuna teoria, a mio avviso, è in grado di rispecchiare la realtà, ma deve sempre “rincorrerla”, sforzarsi di non porsi a distanze stellari da essa; in ogni caso non deve acquietarsi nella pura e semplice ideologia, perché tale diventa infine la ricerca di Verità che restino, nella cui “visione” la nostra mente, ormai inerte, possa adagiarsi in riposo (quello eterno dell’ “altro mondo”). Nessuna pretesa, quindi, di formulare qui null’altro che alcuni elementi di una teoria di fase, adatta all’epoca storica in cui ci troviamo oggi a vivere; con piena consapevolezza che si tratta di ipotesi e che, se anche si ha la fortuna di azzeccarne qualcuna, la loro efficacia durerà un lasso di tempo paragonabile ad un atomo rispetto a quello storico complessivo.
4. Per quasi mezzo secolo il mondo fu cristallizzato nel bipolarismo tra due superpotenze con i rispettivi “campi” annessi. In uno dei due, quello ormai “ghiacciato”, cominciò a staccarsi un enorme iceberg, la Cina; ma poi esso si sciolse quasi di colpo. Si diffuse la convinzione che si andasse verso una realtà di quasi completa unificazione del mercato capitalistico; e si cominciò a parlare di globalizzazione. Quest’ultima però, al di là della buona fede di alcuni e della cattiva di altri nel sostenerla, fu un’ideologia di copertura di alcuni fenomeni importanti. Il più visibile fu il tentativo degli Usa di approfittare della nuova configurazione geopolitica venutasi a creare per costruire il loro Impero mondiale; e così tale paese mise in atto una precisa strategia aggressiva, quasi “dimenticando” (comunque tollerando) quanto avveniva nel “cortile di casa” (Sud America) mentre si lanciava in imprese duramente aggressive in teatri assai lontani e che potevano indebolire, così come fu, le sue linee logistiche. Altri processi corsero sotterraneamente, quasi invisibili, ma alla fine sono venuti in evidenza con la gestazione in corso di nuove potenze (al momento ancora non paragonabili alla precedente), che dovrebbero condurre ad una nuova fase policentrica (se qualcuno preferisce dire multipolare, non ha grande rilievo).
L’ideologia della globalizzazione – che cercava di nascondere il fenomeno più visibile: la tensione imperiale statunitense – non poteva che travestirsi, come già fu all’epoca del predominio mondiale inglese nell’ 800 (anch’esso mai perfezionato in vero Impero globale), di miti economici: primo fra tutti quello della concorrenza puramente mercantile, e pacifica, di carattere interimprenditoriale. Certamente, la competizione principale era quella esistente tra grandi multinazionali. Alcuni pretesero anzi fossero semplici transnazionali, trattandosi di presunto capitale internazionalizzato a tutti gli effetti, con formazione di una classe dominante unificata, parlante la stessa lingua, praticante le stesse abitudini, gli stessi stili di vita e di consumo, gli
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stessi luoghi di frequentazione e di vacanza, e via cianciando. Un mondo in definitiva omogeneo, pacificato, solo dedito alla concorrenza che è processo virtuoso, favorevole all’innalzamento del benessere di tutti. Il potere politico era in definitiva sparito; in particolare quello che, nei secoli precedenti, era stato causa di fenomeni militari disumani. Da qui nacquero le tesi – ampiamente sostenute proprio negli ambienti della sinistra ipocritamente denominata “progressista” – dell’esaurimento delle funzioni svolte dagli Stati nazionali.
Permaneva questa aggressività americana, ma essa – come sostenne uno dei più esiziali pasticcioni (se è in buona fede!) mai esistito nella sinistra “rivoluzionaria” – rappresentava una serie di “colpi di coda” del passato ormai al tramonto; e poi, colpi di coda soprattutto del “repubblicano” Bush, una specie di “demonio” a livello internazionale, così come Berlusconi lo è sul piano nazionale. I dominanti sono molto generosi con i “rivoluzionari da operetta”, che servono loro da cintura di protezione raggruppando alcune forze potenzialmente eversive (non rivoluzionarie), che hanno molte funzioni positive per loro, su cui non mi diffondo in questa sede. Lenin aveva molto ben capito a che cosa serviva “l’estremismo come malattia infantile”, e sapeva che si trattava di uno dei principali nemici da combattere. Non si può pretendere di investire i “bastioni centrali” dei dominanti, se prima non si eliminano queste cinture protettive “più esterne” (anche il nostro Gramsci lo capì perfettamente). Si tratta di un principio tattico-strategico di importanza decisiva. I cosiddetti “specialisti borghesi” possono essere utili; gli “estremisti” – pur pretendendosi ipercritici della società esistente – diventano sempre, in ultima istanza, forze di riserva (e violente, assassine) per le frazioni capitalistiche più reazionarie, quelle che resistono alle distruzioni creatrici, all’innovazione (che non è mai solo economica e tecnologica).
Riprendiamo il discorso principale. L’ideologia della globalizzazione – predicando la fine della politica, in specie di potenza, e la massima espansione della competitività economica – non solo abbellisce lo sviluppo delle grandi imprese, ma dichiara che anche la media e perfino piccola impresa trovano opportunità di diffusione in tutto il mondo; basta solo che si organizzino, si strutturino, riducano costi e dunque prezzi, innovino nei prodotti (magari creandosi le proprie nicchie), manifestino insomma un sano spirito d’intrapresa e sappiano “fare sistema” (come soleva ripetere, quale disco guastatosi, forse il peggior presidente che abbia avuto la pur meschina imprenditoria industriale italiana). Ed infatti, la medio-piccola intrapresa può trovare i suoi spazi in un mondo grosso modo organizzato a cerchi concentrici – non in senso semplicemente geografico, meglio precisarlo – sotto il predominio, che deve però permanere incontrastato, di un ben preciso centro dominante. E detto centro, per una dozzina d’anni, sembrò appunto essere il sistema Usa. Tuttavia, questo era costituito da un sottosistema economico, dove era racchiusa la quota maggiore (rispetto al resto del mondo) dei settori di punta, quelli più innovativi e di più recente sviluppo (della “nuova rivoluzione industriale”); assistito però dal sottosistema politico dotato della più potente macchina statale, e anche bellica, del mondo.
Bellico, però, non significa solo militare; la potenza bellica lato sensu comprende molte altre manifestazioni – su cui adesso non mi allargo; dovrebbero comunque ri-
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sultare abbastanza intuibili – del tutto indispensabili a stabilire un reale potere su un’area (ancora una volta, non semplicemente geografica, ma pure sociale, economica, politica, culturale, ecc.) che sia, se possibile, in via di ampliamento. Quando quest’ultimo si ferma, è difficile mantenere le posizioni e in genere, dopo un po’, inizia l’arretramento. Si tratta di un principio in definitiva derivato dal paradosso (apparente) di Alice dietro lo specchio: si deve correre sempre più veloci anche per restare fermi nello stesso posto (per muoversi appena un po’ “bisogna correre almeno il doppio” disse la Regina ad Alice, senza fiato dal tanto correre). I grandi economisti, e scienziati sociali in genere, si sono sempre serviti dei paradossi di Alice, così come della favola delle api di Mandeville; ma oggi mi sembra sia stato tutto dimenticato.
In un sistema organizzato a cerchi concentrici – il capitalismo non lo è mai in senso compiuto; ci si avvicina più o meno a seconda delle fasi mono o invece policentriche – anche la finanza, a livello mondiale, trova il suo parziale coordinamento sotto quella della formazione particolare (in definitiva, ancora un paese) predominante. E così pure la distribuzione della “densità imprenditoriale” per settori produttivi – ricomprendendo in tale concetto di densità anche e soprattutto la novità e avanzamento (non semplicemente tecnologici) dei settori più ancora del numero e delle dimensioni delle imprese, dei loro fatturati, profitti, investimenti, ecc. – vede al primo posto sempre tale paese. Fermandosi alla semplice globalizzazione dei mercati, in cui contano solo i fattori economici (costi e prezzi, abilità nel marketing, modernizzazione tecnologica, organizzazione dei “fattori”, ecc.), ogni altra considerazione è cancellata.
Tutto il mondo appare soltanto avvolto in una ragnatela di rapporti mercantili, di scambi reciprocamente vantaggiosi, al cui interno le uniche variabili riguardano le capacità competitive dei vari organismi produttivi e finanziari. Di “assistenza” dello Stato non si deve parlare, perché è una turbativa dell’ “ordine naturale” dei processi economici. E, se si è “bravi” (e solo bravi), si compete in Italia come in Romania come in Thailandia o in Cina o in qualunque dove. E si compete a qualsiasi livello delle dimensioni imprenditoriali e a qualsiasi distanza dal luogo (nazionale) di insediamento delle imprese. L’unica variabile “imbarazzante” è il costo del “fattore lavoro”, troppo alto nei capitalismi avanzati; per cui è necessario “delocalizzare” e divenire “transnazionali”, cioè pretese imprese “del (e nel) mondo”, sciolte da ogni legame con un qualsivoglia paese.
Diciamolo in termini spicci: tutte balle; e particolarmente irritanti, in specie quando sono sostenute dai settori che si dicono “progressisti”. Perché a tal proposito non vi è grande differenza tra i “reazionari” – che sarebbero i liberisti, considerati “di destra” – e i “keynesiani” (meglio detto: gli statalisti), che costituirebbero la “sinistra”, appunto “progressista”. Quest’ultima è forse più ipocrita e dannosa dei primi. Essa blatera circa la superiorità del “pubblico” (che servirebbe gli interessi generali dell’intera collettività), la consapevole regolazione della concorrenza che non sarebbe quindi più selvaggia, l’incremento della domanda tramite spesa statale in grado di incrementare i ritmi di sviluppo o di contrastare le congiunture di crisi, ecc. Ancora una volta: tutte balle.
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Il “pubblico” è efficiente – non più di quello “privato” – solo quando si tratta di attività imprenditoriali, svolte in piena autonomia da un management competente e capace; e che, qualora non lo sia, venga spedito a casa e non profumatamente pagato come invece avviene in regime di clientele e favori personali (ad esempio: ti assegno il posto di dirigente e tu svolgi un’azione di raccolta di voti per me). La regolazione del mercato, se l’apparato “pubblico” si ingigantisce e si appesantisce sempre per i soliti motivi clientelari, diventa solo motivo di lentezza burocratica e di conseguenti bustarelle per spingere le pratiche, con aggravio di costi e perdita di competitività delle imprese. La spesa “pubblica” per incrementare la domanda – secondo l’erronea presunzione che sia questa ad alimentare lo sviluppo o a combattere la crisi – serve troppo spesso a puri interventi di assistenza atti soltanto a mantenere ampie aree di lavoro infingardo e in disoccupazione semipermanente, oppure a risollevare le sorti di imprese decotte che sarebbe meglio fallissero o comunque venissero “dolcemente” accompagnate al decesso, qualora sussistessero reali opportunità di una loro rinascita con reale trasformazione in attività produttive efficienti.
5. Il problema cambia completamente aspetto se si esce dalla prospettiva esclusivamente economicistica, che rende ciechi. Come già rilevato, e ora ribadito, una simile prospettiva impedisce di comprendere la fase in cui ci si trova. In quella monocentrica – mai perfettamente tale, poiché in essa permane la tensione allo sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari, per cui si parla di Impero di una di esse in senso solo approssimativo – l’organizzazione appare grosso modo a cerchi concentrici. Ogni cerchio tende a rappresentare una delle successive tappe storiche dello sviluppo economico e industriale del capitalismo, per cui sembra esservi complementarietà e integrazione tra lo sviluppo dei vari cerchi corrispondenti alle diverse aree – socio-economiche e geografiche – del globo. Tale situazione non va tuttavia minimamente cristallizzandosi, malgrado gli sforzi congiunti dei gruppi dominanti nel paese centrale e di quelli degli altri paesi appartenenti ai vari cerchi (aree) mondiali. Questi ultimi gruppi, che possiamo denominare (sub)dominanti, divengono via via le forze reazionarie nei rispettivi paesi e aree.
Una configurazione geopolitico-economica simile caratterizzò, ad esempio, per qualche decennio l’epoca della predominanza inglese. L’ideologia ricardiana dei costi comparati – ben sorretta dalla assai più rilevante funzione svolta dalla potenza militar-coloniale del paese centrale – fu una delle armi per tentare di cristallizzare la configurazione in oggetto, che non resistette invece allo sviluppo di nuove potenze. Qualcosa del genere sta ormai accadendo attualmente. Siamo in marcia verso una fase nuovamente policentrica (o multipolare); l’immagine a cerchi (bidimensionale) va mutandosi in una tridimensionale, con il rialzo di tanti massicci montuosi (su cui uno svetta ancora) a partire da un terreno pianeggiante ma già corrugato da increspature collinose di varia altezza. Lo sviluppo ineguale è in piena azione. La crisi odierna è uno dei momenti di accelerazione (relativa) di tale trasformazione mondiale. Avverto, per evitare fraintendimenti, che parlo di “sviluppo” in senso generale, riferendomi a
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qualsiasi modificazione, sia economica che sociale, con segno più (sviluppo in senso proprio) o meno (in realtà, quindi, de-sviluppo).
L’ipotesi più probabile alla fine di questa crisi – ovviamente una ipotesi con possibili sfumature diverse a seconda della gravità della stessa, tuttora non prevedibile con certezza – è quella di trovarsi in un mondo privo comunque di armonia negli “sviluppi” dei vari cerchi, che sono ormai i vari monti e colline. Non è per nulla probabile che si riavviino impetuose crescite del capitalismo mondiale; più facile che ci si indirizzi lungo un percorso accidentato fatto di oscillazioni intorno ad un trend di poco inclinato verso l’alto, e con la prospettiva di qualche ulteriore (magari ancor più grosso) scossone. Riferirsi quindi alla pura economia, affannarsi solo su di essa con riferimento al mercato globale, è espressione del permanere in dati paesi (paradigmatici quelli europei) di forze ideologico-politiche quale espressione degli interessi dei gruppi economici (sub)dominanti, che si sforzano, con atteggiamento reazionario, di restare agganciati ai gruppi (pre)dominanti al comando nel paese centrale. Diciamo meglio: nel paese che si vuol considerare ancora tale e che si vuol aiutare a restare tale. Per intenderci con maggior chiarezza, si tratta dell’atteggiamento che fu, nell’epoca della predominanza inglese, quello degli Junker in Germania e dei proprietari di piantagioni di cotone negli Stati del sud degli Usa.
I gruppi che comandano in Russia, Cina, India, forse ancora in Giappone e in qualche altro paese (magari in Brasile, ma non scioglierei per il momento la riserva) sembrano nettamente usciti dalla (sub)dominanza. Non pareggiano nella fase attuale la potenza statunitense, ma sono in decisa crescita (parlo sempre della potenza, in senso relativo a quella Usa, non dei soli tassi di sviluppo del Pil). Lamentevole resta la situazione della UE; dell’Italia non parliamo neppure, pur se alcune “strane” mosse di politica estera (verso la Russia in particolare) possono far pensare a qualche movimento diverso, ma assai labile e incerto. E’ comunque singolare che tali mosse provengano da chi è dipinto come l’uomo nero della situazione con pochi reali appoggi; mentre il grosso delle forze politiche – della “sinistra” quasi al completo e di una parte notevolissima della “destra” – oppone forte resistenza. Questo la dice lunga sulla differenza esistente tra ciò che appare e ciò che è nella mefitica situazione politica italiana, dove la “sinistra progressista” (con in primo piano gli scampoli di quella che si pretende “radicale”, la più prona nei confronti del forsennato dipietrismo, rappresentante puro dei gruppi reazionari italiani) è nettamente al servizio dei moderni “junker” e “proprietari di piantagioni di cotone”.
Nella situazione di avvicinamento al policentrismo, sempre più ingannevole diventa ogni politica che si rifaccia alla visione della globalizzazione o qualsiasi alternativa che ponga semplicemente l’intervento del “pubblico” (dello Stato) in funzione di mero sostegno della domanda. Non competiamo in un mercato mondiale – di cui si trascurano e nascondono i cerchi della (sub)dominanza reazionaria, nella speranza di poterli mantenere per difendere meschini interessi di settori rivolti alle passate stagioni dell’industrializzazione – bensì siamo ormai in marcia verso l’urto, via via più acuto (non con tendenza lineare e uniforme), tra massicci montuosi, cioè tra potenze. Una resta più forte in termini bellici (non soltanto militari); e anche economicamente
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permarranno alcune lunghezze di distacco per qualche tempo (storico). Tuttavia, la crescita di nuove potenze impone a tutti – anche ai paesi che rappresentino solo “colline” (come l’Italia, che comunque potrebbe essere un’“alta collina”, se si liberasse dei reazionari attuali) – di valutare una ben diversa politica. Certamente svolta dagli Stati; quelli nazionali, della cui rinascita adesso tutti parlano, mentre non erano mai morti, solo sopraffatti, per poco più di dieci anni, dallo strapotere dell’unica superpotenza rimasta dopo il 1989-91.
La nuova politica statale va realizzata non tanto in direzione dell’incremento della domanda – che è più che giustificata soltanto nel caso di motivi di equità sociale, del tutto imprescindibili – bensì per “produrre” la propria potenza, grande o piccola che possa essere. Si tratta cioè di allargare la propria sfera di influenza; anche in tal caso, grande o piccola che possa essere. Ciò significa che i mezzi della politica – di grande, media o piccola potenza che sia – debbono essere impiegati in base a due orientamenti generali di fondo: a) allargare le proprie ramificazioni di influenza soprattutto a partire dai paesi più vicini, dove la vicinanza va valutata in lunghezze geografiche, ma principalmente in facilità (o minor difficoltà) di acquisire i fattori necessari al proprio sviluppo e di collocare i propri prodotti; b) fattore rilevantissimo: imprimere forte impulso alla crescita dei settori di punta, non quelli che forniscono adesso il maggior contributo al Pil, ma alle prospettive future di sviluppo, e non solo economico poiché decisivo è invece il rafforzamento della potenza e allargamento della corrispettiva sfera d’influenza.
6. I fattori a) e b) sono interrelati e non possono prescindere da una maggiore o minore quantità di risorse dedicate ai compiti “bellici” (sempre intesi lato sensu e non come sinonimo di militari). Chiunque, nella presente fase storica e quanto meno nei paesi a capitalismo avanzato, pretenda di sfruttare la situazione, che si verrà a creare con l’avvicinamento al policentrismo, per fini presunti rivoluzionari, di rovesciamento dei gruppi dominanti, si porrà invece – ne sia o meno consapevole – al servizio di alcuni di questi gruppi contro altri. D’altra parte, nei paesi arretrati e in aree sottoposte al controllo soprattutto da parte della potenza ancora predominante, date lotte contro le truppe d’occupazione – lotte sicuramente da appoggiare e non soltanto per motivi di semplice “giustizia” poiché è al momento ancor più rilevante il loro carattere di indebolimento della suddetta potenza – non sono veramente antimperialiste e di natura “proletaria”, così come credono alcuni residui di un’epoca ormai tramontata, bensì guerriglie condotte da certe popolazioni al fine di liberarsi da un’autentica sudditanza; popolazioni caratterizzate da precise e radicate gerarchie sociali (spesso fondate sulla religione) con l’esistenza di particolari gruppi dominanti.
Quando si entrerà nell’autentica situazione di policentrismo, è ovvio che i compiti di fase cambieranno. In questo periodo storico, tuttavia, dobbiamo prendere atto dei limiti in cui siamo attanagliati. Non esiste, così come si credeva, un movimento sociale oggettivo che spinga in direzione della trasformazione (rivoluzionaria) del capitalismo in quella nuova formazione sociale denominata comunismo, di cui Marx aveva solo tratteggiato molto schematicamente alcune caratteristiche: in particolare, la
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crescente socializzazione delle forze e processi produttivi e la formazione dell’operaio combinato o lavoratore cooperativo collettivo, come da me più volte messo in luce. La riflessione sulla struttura del dominio sociale di certi gruppi sulla maggioranza delle popolazioni, nei paesi a capitalismo avanzato, deve ripartire quasi da zero. Nel frattempo, è indispensabile effettuare una scelta politica che si ritenga la meno negativa possibile.
A mio avviso, questa deve essere preliminarmente mirata: a) a favorire tutto ciò che porta in direzione del policentrismo sul piano della politica internazionale; b) a spingere, all’interno del paese in cui ci si trova ad operare (e ritengo che anche il lavoro teorico e la battaglia culturale siano operazioni politiche), nella direzione della sconfitta dei gruppi dominanti più reazionari, che sono quelli delle passate fasi dell’industrializzazione, cioè gli assimilabili, nelle condizioni odierne, agli ottocenteschi Junker tedeschi e agli americani proprietari di piantagioni di cotone. Ed è su questo punto che la “realtà” è stata completamente trasfigurata, per cui siamo nel pieno dell’apparenza ingannatrice. Mi si consenta un détour onde meglio chiarire come dati processi, che oltre mezzo secolo fa avevano un certo segno, siano oggi di segno opposto; sebbene forze imponenti si adoperino affinché non ci si accorga di tale inversione.
Sono contrario al “revisionismo storico” e ritengo che gli ebrei abbiano subito torti e violenze inenarrabili, esattamente come ci è stato raccontato. L’epoca è d’altronde tanto vicina da non doversi pensare affatto a chissà quali manipolazioni. La condanna di quanto avvenuto negli anni ’30 e successivi deve perciò essere netta e inappellabile. Tuttavia, è indegno anche negare che i massacrati di ieri sono divenuti i massacratori d’oggi (nei confronti dei palestinesi e musulmani in genere); e che essi si servono dell’Olocausto, e della giusta e definitiva condanna per i fatti di ieri, allo scopo di coprire le loro prepotenze e autentici crimini odierni. La stessa mutazione è stata fatta subire all’antifascismo. La Resistenza fu fenomeno di primaria grandezza e va rivendicata e onorata tuttora; autentici mascalzoni se ne servono però oggi per celare il loro netto appoggio ai più reazionari gruppi dominanti, e tale fenomeno è particolarmente evidente in Italia. Ci si renda ben conto di chi appoggia più sfrenatamente il fenomeno dipietrista e l’attuale nuova operazione giudiziaria, che vorrebbe schiacciare quei pochi gruppi di una “sinistra” appena appena ragionante per consegnare l’opposizione ad intenti eversivi e di sfascio; del tutto consoni a quei gruppi (sub)dominanti con l’acqua alla gola, che intenderebbero attingere a piene mani dalle risorse del paese per continuare ad essere assistiti nel loro ormai sempre più palese parassitismo.
E’ evidente la necessità di denunciare e mettere in mora coloro che ingannano e mascherano la “realtà” per farla apparire l’opposto di ciò che è. Non dobbiamo più prestare fede alle vetuste dicotomie tuttora proposteci: destra/sinistra, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo, e via sbracando. Oggi, i gruppi (sub)dominanti più reazionari e parassiti trovano la loro principale rappresentanza in alcuni settori della sedicente “destra” (in specie An e in parte la Lega, per fortuna non omogenee e spesso in polemica fra loro) e nella stragrande maggioranza della “sini-
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stra” (moderata e radicale), la cui base sociale – e anche in tal caso diciamo per fortuna – non è più rappresentata dall’antica “classe” (operaia) di riferimento, ma soprattutto da quel “ceto medio”, sostanzialmente mantenuto direttamente o indirettamente dalla spesa pubblica, di cui ho parlato più volte con il massimo disprezzo (poiché lo merita tutto).
7. Questo blog deve proseguire l’opera di smascheramento senza disperdersi in magniloquenti elucubrazioni sui “grandi principi e massimi sistemi”. Il discorso deve essere di fase e riportato alle coordinate eminentemente politiche, combattendo l’economicismo che dilaga sui giornali e riviste, e in internet, confondendo “opportunamente” (a pro’ degli odierni “Junker e proprietari di piantagioni di cotone”) i cervelli della “gente” con un chiacchiericcio a spizzico che dimentica – volutamente o anche per l’ignoranza tipica dei tecnici ed esperti, anche dei migliori – le determinanti sociali e politiche più rilevanti dei mutamenti “strutturali” la cui probabilità, per la fase immediatamente futura, è particolarmente alta. Ci si renda nel contempo conto che fare politica non è semplicemente agitarsi nei “movimenti”, girare per dibattiti e conferenze, vellicare gli irrazionali impulsi di chi ha “cuore” ma non “cervello”. La lotta ideologica e quella teorica (di fase) sono azioni politiche tout court, non sono preziosità accademico-culturali, non implicano una riflessione d’altro genere condotta su un piano prettamente filosofico e alla ricerca di verità più profonde e durature. Sia chiaro che considero una simile riflessione più che apprezzabile e irrinunciabile su un certo piano; non è tuttavia, e non deve essere, quella svolta in questo blog (e sito).
E’ necessario trovare interlocutori che abbiano intenti simili, al fine di allargare tutti insieme la portata e gli ambiti della lotta politica di fase. A tal proposito, ribadisco la necessità di buttare a mare le dicotomie con le quali i reazionari ci vogliono imbrigliare. Con chi ha finalità vicine alle nostre va intavolato il dialogo, senza chiedere “carte di identità”, “bollini blu” di certificazione di adesione alla nostra stessa impostazione teorica e ideologica. Importante è soltanto la chiarezza e sincerità su una questione essenziale. Non ha, a mio avviso, eccessiva importanza a quali ascendenti teorici e culturali si fa riferimento; né a quali movimenti si è in passato partecipato con convinzione e per spinta ideale. Si tratta però di un passato; non si chiede un impossibile rinnegamento dello stesso (che anzi induce, almeno in me, notevole disgusto), ma solo la coscienza che è ormai trascorso, che deve essere consegnato al ricordo di una fase storica finita. Ognuno con il suo specifico background culturale, con i suoi pensatori di riferimento, deve avviarsi lungo nuovi percorsi più idonei a (tentare di) comprendere il presente e l’immediato futuro. Si valuterà, strada facendo, se tali nuovi percorsi di ognuno di noi saranno convergenti oppure no. Con questo spirito si ricerchi reciproca collaborazione; ma siano presi a calci nel sedere tutti quelli che ripropongono vecchie identità e contrapposizioni per favorire il mantenimento al potere dei parassiti di un’epoca “morta” (ma ancora da seppellire).
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