Qui pro quo

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C’è chi pretende di polemizzare con il sottoscritto senza nemmeno prendersi la briga di capire ciò che vado scrivendo. Vorrei presentare un esempio di questi fraintendimenti. Recentemente un “qualcuno” di stretta ortodossia marxista ha voluto attribuirmi la tesi del superimperialismo. Potrei citare decine e decine di mie pagine, ma mi limito a due passi del prossimo libro che uscirà con la Manifestolibri. Il primo è nell’Introduzione:
Inoltre, non c’è – in nessun ambito della società – la tendenziale formazione di un unico centro di comando, perché la lotta per il predominio contraddice sempre, e con forza preponderante, ogni forma di centralizzazione definitiva, che non ha quindi alcuna possibilità di realizzarsi.
E’ dalla fine dell’ottocento che i marxisti sono ossessionati dalla centralizzazione dei capitali; perfino oggi, questi “attardati” sono affascinati dai nuovi processi di centralizzazione, che ancora una volta sono l’apparenza (ma reale, esattamente come l’eguaglianza nel “regno dello scambio” criticata da Marx, che non negava minimamente la sua sussistenza; solo appunto limitata a quel “regno”). La centralizzazione è la forma dell’alleanza, dell’unione, che sempre esiste in ogni congiuntura di acutizzazione dello scontro per la supremazia. Pensare alla lotta di “ognuno contro tutti” è un’altra apparenza reale, un’altra “distorsione ideologica”. L’aspetto dominante è l’alleanza (o l’unione, anche ottenuta con subordinazione di uno più debole ad uno più forte) in vista dello scontro; e quanto più acuto si fa quest’ultimo, tanto più crescono le alleanze (o la forma di subordinazione appena considerata), che appaiono, in campo economico (produttivo o finanziario), come fusione, incorporazione, ecc. di imprese, cioè in definitiva come centralizzazione (monopolistica) dei capitali.
La centralizzazione dei capitali non è però l’unica forma delle strategie di lotta attuate dagli agenti dominanti, strategie implicanti l’alleanza che è il mezzo precipuo usato nella lotta in questione. Conflitto, e alleanze in quanto mezzo di conflitto, sono all’ordine del giorno anche nelle sfere politica e ideologico-culturale della società; e si ampliano al di là della struttura interna da cui è caratterizzata ogni formazione particolare, poiché riguardano, con effetti ancora più rilevanti, queste varie formazioni nell’ambito di quella mondiale, dove si combatte per assumere una preminenza globale, complessiva. Mai completamente, esaustivamente, raggiunta, pur se esistono epoche monocentriche – in cui si ha la relativa preminenza di una formazione particolare; ad es. l’Inghilterra fin dopo la metà ottocento, e gli Stati Uniti in seguito alla seconda guerra mondiale e poi al crollo del “socialismo reale”, preminenza tuttora non nettamente intaccata – ed epoche policentriche, in cui si scatena lo scontro tra potenze per una nuova supremazia. Secondo le ipotesi da me fatte anche in questo libro, ci si sta appunto avviando verso il policentrismo, non però per il momento realizzatosi.
Il secondo è nel primo capitolo della prima parte, in un pezzo in cui sto parlando di List e, per inciso, faccio riferimento a Kautsky:
Non solo da questo punto di vista culturale, ma anche da quello (strutturale) dei rapporti economico-sociali, la concezione kautskiana fu considerata da Lenin assai pericolosa e foriera di svarioni politici. In effetti, la tesi dell’annessione di zone agricole da parte dei paesi industrializzati era un corollario dell’impostazione detta poi ultraimperialistica (o di capitalismo organizzato nell’accezione di Hilferding), secondo cui la centralizzazione monopolistica dei capitali avrebbe infine condotto all’unificazione della classe capitalistica dei vari paesi industrializzati (quelli della “zona temperata” in linguaggio listiano) tramite pacifica organizzazione delle sue varie componenti interne di carattere nazionale. A quel punto si sarebbe realizzata – ma solo nell’area avanzata, considerata quella civile, quella culturalmente, socialmente e politicamente evoluta – la netta e semplificata divisione in classi già preconizzata da Marx (ma su scala mondiale): un piccolo nucleo di
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borghesia, proprietaria dell’intero capitale (in forma principalmente finanziaria), in antagonismo con un gran mare di classe operaia (per Marx si trattava, in realtà, del lavoratore collettivo). In quest’area si sarebbe verificata – ed ormai con pacifica e graduale progressione, data l’enorme disparità numerica esistente tra i due gruppi sociali a confronto – la transizione al socialismo e comunismo; mentre il destino dei listiani paesi della zona calda (quelli coloniali) rimaneva teoricamente avvolto in una atmosfera di larga indecidibilità e imprevedibilità: diciamo pure di disinteresse per la loro sorte da parte del “movimento operaio” di impronta socialdemocratica.
Lenin attaccò quindi la teoria dell’imperialismo in quanto semplice colonialismo, conquista di aree agrarie (sottosviluppate) da parte dei paesi industrializzati, e focalizzò la sua analisi sulla monopolizzazione dei capitali: non però in quanto loro pacifica integrazione e armonizzazione in un unico grande trust mondiale, bensì come concorrenza portata a livelli ancora più alti, con conflitti tra grandi imprese per le più ampie quote possibili del mercato globale, e l’intervento degli Stati di tali paesi in grandi guerre al fine di espandere le proprie zone di influenza, gli uni a detrimento degli altri. Simili conflitti, in allargamento e intensificazione, non sarebbero certo rimasti confinati ad un mero confronto tra proprietà capitalistica e classe operaia; le masse, prevalentemente contadine, dei listiani “paesi delle zone calde” sarebbero state pienamente coinvolte in uno scontro di autentiche dimensioni mondiali. Inoltre, pure all’interno dei paesi dell’area capitalistica, non tutti sviluppati industrialmente allo stesso livello, si sarebbe acuita la lotta di classe, nel cui ambito il proletariato non designava affatto, per Lenin, la sola classe operaia, bensì l’alleanza tra le due grandi sezioni del popolo: operai e contadini (anch’essi divisi in base ai livelli del reddito e della proprietà terriera; ovviamente, non semplicemente quella di grandi dimensioni, non quella di carattere feudale). Da qui la tesi dell’anello debole, cioè dei paesi industrialmente meno sviluppati tra quelli dell’area pur sempre capitalistica, in cui la suddetta alleanza tra ceti popolari aveva maggiori possibilità di battere una classe feudale ormai alla fine e una classe borghese industriale ancora debole e alle prime armi. Quindi, nessuna schematica visione, in Lenin, di un semplice conflitto tra capitale (proprietà) e lavoro (salariato), nessuna concessione ad una impostazione (tipica della socialdemocrazia opportunista) che vedeva la lotta di classe (pacifica e parlamentare) limitata all’area capitalisticamente avanzata, soltanto in grado tutt’al più di coinvolgere come retrovia il resto del mondo, “barbaro” e da “civilizzare”.
Penso non ci sia bisogno di alcun commento. Salvo uno: chi è ormai ossificato sulle vecchie concezioni dottrinali (mai termine fu più appropriato per indicare la sclerosi degli “ortodossi”, a mio modesto avviso assolutamente non marxisti dato che il marxismo è scienza e non dottrina catechistica) non hanno più occhiali adeguati non solo per leggere i “nostri tempi” ma nemmeno ciò che si scrive di comunque nuovo (al di là dell’accordo o meno su di esso). Quindi, spero risulti chiaro al lettore che non si può polemizzare con questi residui del passato. Vorrei essere chiaro: questi personaggi, a mio avviso, non sono né stupidi né ignoranti. Semplicemente si sono cristallizzati; nemmeno per pigrizia di pensiero, ma proprio perché hanno bisogno di credere altrimenti si trovano sperduti (un tipico fenomeno religioso).
Essi hanno appunto ridotto la dottrina pseudomarxista ad un cristallo perfettamente limpido, senza una macula, messo in una bacheca per essere ammirato dai visitatori. Solo che viviamo in tempi in cui i “ghiacci” (quelli metaforici assai più che quelli reali) si sciolgono, diventano un fluido attraversato da molte correnti tumultuose, limacciose. Se si vuole pescare qualcosa è necessario, periodicamente, disfare le vecchie reti e, magari con quel materiale, ricucirne di nuove. Il povero, e bel, cristallo è sbattuto da tutte le parti, è sporcato, non brilla più, ha sempre meno visitatori. O si scioglie (e certo un vero cristallo non ci riesce) oppure resterà per sempre sepolto. E’ malinconico, ma giusto; anche perché i suoi custodi (bordighisti e trotzkisti, non marxisti!) sono livorosi e antipatici; secchi, avvizziti, dediti al mero cicaleccio pettegolo come le comari “goldoniane” nelle calli di Venezia.
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