L’India moderna, il marxismo e l’insostenibile leggerezza della “semi -feudalità” di Piero Pagliani

Prologo
Da alcuni anni il governo del Fronte delle Sinistre, al potere ininterrottamente da più di tre decadi nel Bengala Occidentale, ha iniziato una politica d’ispirazione cinese basata sullo stabilimento di Special Economic Zone destinate ad accogliere impianti industriali, speculazioni edilizie, impianti per la produzione di energia e altre infrastrutture “per lo sviluppo”. Una politica che accompagnandosi ad ampie misure di liberalizzazione ha ricevuto il plauso di tutto l’Occidente, a partire dagli USA per arrivare nel febbraio scorso all’Italia col viaggio di Prodi e della delegazione italiana (la più grande delegazione occidentale nell’India indipendente).
Spesso le Special Economic Zone sono realizzate espropriando per migliaia di acri i terreni dei contadini che oppongono una tenace resistenza per non andare ad ingrossare le fila dei disperati che assediano le grandi città.
A cavallo tra la fine del 2006 e il 2007, due zone hanno iniziato ad essere al centro di questi scontri nel Bengala Occidentale: Singur, dove su 1.000 acri di terreno agricolo dovrebbe sorgere uno stabilimento automobilistico della multinazionale indiana Tata con la collaborazione tecnica della Fiat, e Nandigram, dove migliaia di contadini sono minacciati a favore della multinazionale chimica indonesiana Salim. Lo scontro in queste due aree, specialmente a Nandigram, è stato violentissimo e oltre alla Polizia di stato ha visto in prima fila nell’attacco criminale contro i contadini gli uomini del Partito Comunista Indiano (Marxista), o CPM, che guida il Fronte delle Sinistre col Chief Minister Mr. Buddhadeb Battacharjee.
Decine di morti, stupri di donne e persino bambine sono stati finora il prezzo della resistenza dei contadini allo “sviluppo”.
Mentre l’operato del governo bengalese veniva censurato dal Governatore dello Stato, Gopal Krishna Gandhi, nipote del Mahatma, dagli stessi alleati del CPM (il Communist Party of India, CPI, e vari partiti socialisti) e persino dal Gran Vecchio del partito, Jyoti Basu, il Chief Minister difendeva imperterrito le sue scelte affermando che l’India “semi-feudale” deve prima raggiungere il capitalismo e solo dopo intraprendere riforme socialiste e che per questo motivo egli ha deciso di lavorare strettamente in un ambito capitalista (“a capitalist framework”).
L’ondivago termine “semi-feudalesimo”, concetto totemico di una larghissima parte del pensiero marxista del Novecento, è tornato così a colpire, ma nella direzione opposta in cui aveva iniziato a colpire mezzo secolo fa – e continua anche al giorno d’oggi – quando era ed è usato dai maoisti a favore dei contadini e dei tribali contro l’apparato statale indiano e i “revisionisti” del CPM.
Sciogliere l’arcano di questo termine e svelarne l’ambiguità è quindi un atto politico che non solo ci aiuta a capire quanto sta succedendo nella “futura terza potenza mondiale”, ma che ci obbliga a saldare i conti con schemi interpretativi dati per scontati e che si radicano sin nelle origini del pensiero marxista.
Capire l’India per capire dove stiamo andando
Nonostante il gran parlare di globalizzazione, in Italia non sembra esserci molto interesse per ciò che avviene nel resto del mondo. Esistono singoli eccellenti esperti italiani di storia, politica e di cultura asiatiche. Ma in generale il pubblico e la pubblicistica italiani sembrano quasi sempre colti alla sprovvista quando occorre parlare di Asia, un continente che da noi induce più che altro superficiali entusiasmi o al contrario superficiali timori.
Se poi la Cina sembra per forza di cose aprirsi un varco nel nostro isolazionismo culturale, l’India viene ancora solitamente percepita come qualcosa di remoto, di stravagante e pieno di contraddizioni inspiegabili.
Ovviamente chi in Italia ha deciso di investire nello sviluppo indiano si pone il problema della stravaganza indiana e delle sue contraddizioni solo nella misura in cui incidono sugli indicatori economici. E ciò è capibile. Ma è meno capibile che l’analisi critica di sinistra di ciò che succede
in India e in altri paesi dell’Asia non sia generalmente in grado di svincolarsi da vecchi schemi interpretativi, usualmente un aggiornamento della tesi del “neo-colonialismo” se non addirittura del terzomondismo. Cosa che denuncia più un senso di colpa che non una tendenza all’analisi scientifica. Basti vedere le spiegazioni più in voga dell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che non vanno molto oltre alla rapina delle fonti energetiche fossili da parte vuoi di stati-nazionali (gli USA e in subordine i suoi “volenterosi”) vuoi, in una riedizione del vecchio ”ultraimperialismo” di Kautsky, da parte di multinazionali imperiali pressoché indipendenti dai singoli stati-nazionali.
Le lotte che avvengono all’interno di questi paesi e tipicamente in Cina e in India, sono anch’esse o ignorate o addebitate a una non meglio specificata “arretratezza”, finendo così senza accorgersene in una contraddizione bella e buona: come mai questa arretratezza in paesi che tra un breve volger di tempo sarebbero destinati a diventare la prima e rispettivamente la terza potenza economica mondiale? O meglio: cosa vuol dire “arretratezza” in questo contesto?
Ma si fa spallucce (almeno qui da noi, perché nel Bengala Occidentale, come abbiamo visto, per spazzar via le “sacche di arretratezza” i “progressisti” mandano killer in divisa o in borghese). Insomma, questo nostro voler sostanzialmente ignorare il continente del futuro o al più inquadrarlo in vecchie categorie incomincia ad assumere un aspetto paradossale.
Ed è ancor più paradossale per quel che riguarda l’India, perché come ebbe a dire a suo tempo Marx, “l’India è un’Italia di dimensioni asiatiche”, e non solo dall’ovvio punto di vista della geografia fisica (Himalaya – Alpi, pianura gangetica – pianura padana, penisola). E per molti aspetti lo è ancora adesso, come vedremo. Così, leggere le dinamiche indiane ci permetterebbe di leggere quelle italiane – ed europee – con più distacco, con più libertà e con più spregiudicatezza.
La cosiddetta “arretratezza” e le sue ambiguità
L’analisi marxista dell’arretratezza dell’India è da sempre incentrata sul concetto di “semi-feudalità”. Ma si tratta realmente di un concetto oppure solo di un modo di dire, di una metafora per qualcos’altro o di un sinonimo di qualcos’altro?
Iniziamo da un’analisi semantica. Secondo Regis Debray, l’utilizzo del prefisso “semi” è molto pericoloso perché può nascondere una mancanza di precisione analitica:
“[ … ] il prefisso ‘semi’ permette di riferirsi a qualcosa senza doverla in effetti identificare, cioè indica un problema per il quale non abbiamo una soluzione. Così succede per ‘semi -feudale’, ‘semi -proletariato’ e molte altre cose semi finite che non rimpiazzano per nulla concetti più accurati come per sottolineare l’assenza totale di un concetto.”1
Una critica che ricorda quella dell’economista indiana Utsa Patnaik, una protagonista del “Dibattito sul modo di produzione in India” che si svolse sull’onda della rivolta naxalita e di cui parleremo, che nel 1971 ebbe a scrivere che la realtà indiana era “molto più complessa di quanto potesse essere riassunto in una singola frase vaga (unqualified).2”
E infatti la vaghezza e l’ambiguità del termine “semi-feudalesimo” non si riducono al suo aspetto semantico ma si propagano e insinuano nelle analisi strategiche e politiche dei suoi utilizzatori.
Cosa significa in realtà quel prefisso “semi”? Che cosa si cela dietro il termine “semi-feudale”? Quali opzioni politiche nasconde? Se “semi” vuol dire “tra due cose”, allora “semi-feudalesimo” significa tra feudalesimo e capitalismo. In questo caso è solo un sinonimo di “transizione” e in questa accezione è accettabile3. Ma il problema si sposta a questo punto sull’analisi della transizione tra feudalesimo e capitalismo.
Per i marxisti del CPM e del CPI, ma anche per gli economisti classici, “semi-feudalesimo” significa “con residui feudali”. In altri termini in India il capitalismo procederebbe nel suo
1 Debray, Regis, “A critique of Arms”. Penguin, Harmondsworth, 1977, pag. 47.
2 Tuttavia la Patnaik non criticò radicalmente l’approccio basato del “semi-feudalesimo” (si veda oltre).
3 In questa accezione è usata da Emilio Sereni nella sua analisi dell’introduzione del capitalismo nelle campagne italiane dall’unità alla fine dell’Ottocento ( “Il capitalismo nelle campagne”. Einaudi, 1968).
radicamento, ma data l’arretratezza del punto di partenza, dovuta anche a due secoli di dominio coloniale, perdurerebbero sacche residuali anche estese di relazioni sociali, rapporti di produzione e modi di produzione feudali.
Cosa si intende, allora, per relazioni, rapporti e modi di produzione feudali? Essenzialmente quattro cose:
l’assenza di un rapporto di lavoro libero salariato, sostituito invece da lavoro coatto e da altre forme di servaggio,
prestiti ad usura che devierebbero gli investimenti produttivi,
modi di produzione inefficienti, scollegati dal mercato e quasi esclusivamente rivolti ad un’economia di sussistenza con modesti scambi locali,
la solo parziale sostituzione delle caste con le classi.
Tuttavia questi residui pre-moderni sarebbero destinati a scomparire con lo sviluppo economico. Chiameremo questa lettura “residualista-progressiva”. Essa è la base “scientifica” della politica del Partito del Congresso e di quella del CPM e dei suoi alleati, di apertura ormai senza freni alle esigenze del capitale rimondializzato, apertura intesa ideologicamente come alleanza con la cosiddetta “borghesia nazionale” (ma ormai anche internazionale) contro ciò che rimane del feudalesimo.
E in questa giustificazione della propria linea politica il CPM trasforma il paradigma del “semi-feudalesimo” in un calderone dove si mischiano i residui dello zamindari (il sistema di grandi latifondisti e/o percettori di rendita) e i contadini che resistono a Nandigram.
Ma a questo punto occorre far chiarezza. Lo zamindari e quindi le servitù feudali furono abolite per legge già all’indomani dell’indipendenza nazionale e le riforme agrarie dei vari stati indiani dovevano essere gli strumenti attuativi di questa legge, proprio a favore dei contadini. Cosa significa allora l’alleanza col capitale contro i contadini accomunati a istituti che i contadini stessi avrebbero dovuto da tempo sostituire in attuazione delle riforme contro il feudalesimo4? Siamo di fronte a una patente contraddizione sia logica che storica. Che cosa sono e dove sono in realtà questi “residui feudali”? Perché a sessant’anni dall’Indipendenza e mentre i tassi di sviluppo indiani bagnano il naso a tutto l’Occidente e fanno gola a tutto il mondo, sono ancora parte del discorso politico?
In realtà, la proclamata politica a due stadi, prima il capitalismo poi il socialismo, di cui il primo è sempre prolungato ad libitum a causa del perdurare di perniciosi residui “semi” e dalla necessità di sviluppare le forze produttive, è un classico dell’opportunismo marxisteggiante di tutto il mondo.
L’alleanza con una “borghesia nazionale” contro i residui “semi” e più in generale per lo sviluppo delle forze produttive, è poi un classico, ad ogni latitudine, del cambiamento antropologico dei comunisti o ex-comunisti andati al potere e si basa su tre fattori principali, correlati tra loro:
la grande elasticità della nozione stessa di “borghesia nazionale”,
la smentita storica delle previsioni marxiane riguardo la caduta tendenziale del tasso di profitto, di quelle sull’ampliamento e approfondimento della socializzazione del lavoro e quindi della sua contraddizione strategica col capitale e la smentita dei giudizi leniniani sulla finanziarizzazione e l’imperialismo come ultimi stadi del capitalismo,
sul fatto che, al contrario, il capitalismo si è invece dimostrato essere mostruosamente capace di rilanciare lo sviluppo dopo ogni crisi anche profondissima mentre, di contro, la socializzazione del lavoro e con essa la centralità rivoluzionaria del proletariato si è frantumata in una miriade di formazioni sociali subalterne5.
4 Tra l’altro portate avanti con buon successo proprio dal Fronte delle Sinistre e dal CPM negli anni ’70-’80.
5 Bisogna tener distinta la centralità politica del proletariato dalla numerosità relativa della classe operaia. I numeri
contano tantissimo, ma è il ruolo economico e politico dei numeri che conta di più. L’aumento esponenziale della
classe operaia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo indusse Engels e Kautsky (col beneplacito di Marx) a
Coerentemente, preso atto che le previsioni marxiste e leniniste erano inattuate e inattuabili, nelle nostre lande di capitalismo “avanzato” gli ex comunisti hanno unificato i due stadi in un unico processo di “sviluppo” tout court, con varie dosi, gradazioni e sfumature di solidarismo e di buonismo, di “I care” e di “charity”. Un vero e proprio dominio della confusione dove con lo stesso termine, “riforma”, si possono denotare meccanismi che tolgono soldi ai cittadini e meccanismi che li danno, meccanismi che ridistribuiscono il reddito e meccanismi che al contrario lo polarizzano.
Le alternative a questa politica sono due: 1) negare che le previsioni di Marx e Lenin siano state smentite dalla storia e rinnovarle con qualche aggiustamento nel merito e nelle liturgie ad esse associate, 2) oppure cercare di capire perché non si sono avverate e cercare di far fare al marxismo quel salto che la fisica fece quando capì che il sistema newtoniano non riusciva a spiegare i fenomeni quantistici (e comunque, esattamente come Newton per i fisici quantistici, Marx rimane la base imprescindibile).
Noi optiamo per la seconda scelta, anche se siamo perfettamente consapevoli che per un bel po’ si andrà avanti a tastoni.
Esistono altri due possibili atteggiamenti, non in contrasto tra loro, molto praticati in Occidente ma che non ritengo accettabili:
“Ritornare a Marx” facendo finta che il Novecento non sia mai esistito e quindi evitando di farci i conti. E’ una consolazione accademica del tutto ininfluente sul piano politico, ma molto utile per le conversazioni salottiere. Di fatto è l’evocazione di un Marx disinnescato, filosofico e utopista. Al più campione di una religiosità umanistica e laica che non fa paura a nessuno (e a noi un Marx che non fa paura a nessuno ci sembra uno spiacevole controsenso). C’è però da dire che è meglio che questi viaggiatori del tempo siano inerti politicamente, altrimenti ripeterebbero tutti i tragici errori novecenteschi, uno dopo l’altro6.
Pretendere che Marx abbia “previsto” la globalizzazione. Ma questa affermazione è opinabile ed equivale a dire che Newton – che in effetti come Marx era un genio – aveva previsto i fenomeni quantistici. E’ un’affermazione che si basa sul risultato di “cut and paste” di passi presi specialmente da quelli che in Marx sono lavori preparatori, frammentari e di transizione come i “Gründrisse” (più difficile fare il cut and paste col “Capitale”, l’opera organica e matura, guarda caso di vent’anni posteriore ai “Gründrisse”). In secondo luogo o non la si sviluppa e rimane anch’essa un’affermazione consolatoria per tenere più o meno alta una bandiera intellettuale, oppure la si porta avanti con coerenza andando a finire con “Imperi” e “moltitudini desideranti” messi al posto del kautskyano “ultraimperialismo” e del “proletariato” di cui non si ha più traccia7.
sostituire la complessa nozione di lavoratore collettivo cooperativo associato, alleato col General Intellect, cioè le potenze mentali della produzione (“dall’ingegnere all’ultimo manovale” come diceva Marx), con quella di una sua parte, ovvero la “classe operaia” tout court. Che ciò si rivelasse fin troppo presto un passo influenzato più dall’evidenza empirico-sociologica che non da una nuova analisi delle contraddizioni del capitale (quella di Marx lo aveva per l’appunto condotto alla nozione di lavoratore collettivo cooperativo associato) è testimoniato dalle “pezze” messe da Lenin tramite la nozione di “aristocrazia operaia” per giustificare il “tradimento” di un proletariato che di rivoluzione non ne voleva sapere, proprio nel paese allora a più alto sviluppo capitalistico. La non centralità politica del proletariato di fabbrica non è quindi una conseguenza del suo declino numerico nei paesi avanzati. In Asia esiste attualmente la più grande concentrazione operaia di tutti i tempi. Se ciò fa presagire grandi (e per altro legittime) stagioni di lotta per il miglioramento delle proprie condizioni di vita e dei termini negoziali, tuttavia non c’é motivo di ritenere che per questo il proletariato asiatico possa diventare il soggetto di una rivoluzione anticapitalistica (il che non vuol dire che non ne possa essere eventualmente uno dei soggetti). Per questi temi si veda Gianfranco La Grassa, “Gli Strateghi del Capitale”, Manifestolibri, 2005”.
6 Questo “zurück zu Marx” ricorda lo “zurück zu Kant” dei neopositivisti logici del primo ‘900 che essi teorizzarono per districarsi dalle contraddizioni logiche ed epistemologiche in cui si dibattevano.
7 Come per tutte le menti analitiche serie, al contrario di quelle dei futurologhi, le previsioni di Marx e Lenin traguardavano qualche decennio, non secoli. Non penso che Marx ed Engels avessero esortato nel 1848 il proletariato di tutto il mondo ad unirsi perché prevedevano che dopo 150 anni si sarebbero avverate le condizioni descritte dalla loro teoria per una rivoluzione comunista. Né Lenin pensava che la finanziarizzazione del capitale sarebbe bensì stata il suo ultimo stadio, ma solo dopo 100 anni. Quindi o si pensa che Marx (Lenin) fosse una sorta di Nostradamus o si pensa che fosse uno scienziato. In questo caso bisogna ammettere che le sue previsioni non si sono avverate e quindi se si vuole essere fedeli al suo insegnamento è necessario una revisione del paradigma.
Ma per giustificare la nostra scelta dobbiamo spiegare perché la prima non ci convince. E lo vediamo analizzando la tesi della “semi-feudalità” così come è stata enunciata ed utilizzata politicamente dai rivoluzionari marxisti-leninisti indiani.
La rivolta naxalita e le sue contraddizioni
Alla fine degli anni Sessanta, alcuni quadri del CPM, delusi dalla politica del loro partito, iniziarono a organizzare i contadini poveri e tribali in vista di una rivoluzione di stampo maoista, che prese il nome di rivolta “naxalita” 8.
Il loro assunto di base era che l’India fosse un paese in cui la transizione al capitalismo era stata bloccata dalla sudditanza di una borghesia compradora nei confronti delle forze imperialiste dell’Occidente e socialimperialiste dell’Unione Sovietica.
Anche se non c’era concordanza tra i naxaliti sul grado di penetrazione del capitalismo in India – e il “dibattito sul modo di produzione” che seguì l’ampliarsi e poi la fine del primo ciclo di lotte lo dimostra – tuttavia era condiviso il giudizio che la situazione fosse stagnante e che per tale motivo, innanzitutto nelle campagne, essa era caratterizzata ampiamente e senza possibilità di progresso da rapporti sociali e di produzione pre-moderni9.
Il “semi-feudalesimo” da condizione storica transitoria diventava perciò una condizione politica stabile dell’India e ciò era dovuto al suo stato di paese semi-coloniale.
Se ne deduceva una strategia di puro stile maoista: tramite la rivolta contadina bisognava stabilire delle “basi rosse” nelle campagne che avrebbero progressivamente accerchiato le città e portato infine alla presa del potere statale con una lotta di lunga durata.
Per i rivoluzionari naxaliti, quindi, la condizione pre-moderna dell’India derivava dal carattere non-nazionale (compradore) della borghesia indiana e ne era la riprova. Il Partito rivoluzionario appoggiandosi essenzialmente sulle masse contadine doveva perciò portare a termine una Rivoluzione di Nuova Democrazia, per conto di una borghesia nazionale giudicata inesistente e in nome del proletariato.
Perché questa analisi, che trascende la registrazione, ovvia, dell’arretratezza anche estrema delle campagne indiane?
“Arretratezza” e “povertà” non sono sinonimi di pre-moderno e feudale. Innanzitutto perché sono “misure” relative, sia sincronicamente sia diacronicamente (le arretrate India e Cina erano sviluppatissime fino alla fine del Settecento; al contrario si pensi allo stato del proletariato inglese durante la prima rivoluzione industriale). In secondo luogo perché entrambe esistono anche nei paesi capitalistici più sviluppati. Se infine “arretratezza” viene intesa come una misura della velocità di transizione dal feudalesimo al capitalismo, si ricordi che l’unica nazione dove questo passaggio è stato velocissimo fu la Francia. Ma anche in questo caso la Rivoluzione non fece che accelerare, codificare e rendere irrevocabili a livello giuridico e istituzionale dei cambiamenti in gestazione da tempo. Un caso a sé sono gli Stati Uniti, perché non hanno mai visto il feudalesimo. Infatti lo schiavismo difficilmente può essere classificato come una forma di feudalesimo. Intanto, secondo la classica periodizzazione marxista, la schiavitù dovrebbe precedere il feudalesimo. Ciò che ci fa già pensare che siamo di fronte ad un fenomeno spurio. In secondo luogo la produzione agricola basata sugli schiavi e la stessa tratta degli schiavi erano due dei lati della triangolazione atlantica, ovvero di quel processo mercantilistico che stava accumulando i capitali che sarebbero stati investiti nelle invenzioni settecentesche dando vita alla prima rivoluzione industriale.
Di fatto la sinistra indiana, in generale, si aspettava tre cose fondamentali da una borghesia nazionale (che indicheremo come “aspettative nazionali”):
l’espansione dei rapporti capitalistici in tutta l’India,
l’abolizione dei rapporti sociali pre-capitalistici,
8 Dal villaggio di Naxalbari, nel Bengala Occidentale, dalle cui campagne scaturì la prima scintilla di ribellione.
9 Gli interventi in questo dibattito sono stati raccolti nel volume “Agrarian Relations and Accumulation: The ‘Mode of Production’ debate in India”, a cura di Utsa Patnaik, Sameeksha Trust Publications. A questo proposito ricordiamo che nonostante le sue critiche alla vaghezza permessa dal concetto di “semi-feudalesimo”, Utsa Patnaik non metteva in dubbio che la situazione in India fosse arretrata e bloccata e che nelle campagne fosse caratterizzata da rapporti pre-moderni.
• l’opposizione alle ingerenze economiche straniere (imperialistiche).
I marxisti riformisti del CPM e del CPI ritenevano che grazie all’alleanza con la borghesia nazionale (che per loro esisteva) tutti e tre gli obiettivi fossero alla portata, anche se occorreva uno stretto controllo politico.
Tra i naxaliti erano invece presenti grosso modo due concezioni. Per gli “essenzialisti” tutti e tre i punti erano stati disattesi, a riprova del carattere semi-feudale e semi-coloniale del paese. Per i “residualisti radicali” i primi due punti erano parzialmente onorati ma in modo distorto e con pericolosi rallentamenti dovuti al fatto che il terzo punto era stato invece disatteso dalle classi dominanti indiane.
La realtà è che tutte e tre le attese erano dedotte da una logica meccanica, mentre il comportamento della borghesia non poteva essere né univoco né uniforme in tutto il mondo.
A questo punto sarebbe però scorretto sostenere che le teorie dei padri fondatori del socialismo scientifico non c’entrassero niente con queste attese (come potrebbero sostenere i teorici del ritorno a un Marx incontaminato).
In realtà Marx ed Engels nel “Manifesto” avevano affermato che il colonialismo avrebbe dovuto prima o poi plasmare le colonie a immagine e somiglianza della metropoli. E in più luoghi Marx aveva descritto il ruolo preterintenzionalmente progressista in tal senso del dominio britannico10.
Infine i concetti stessi di “semi-feudale” e di “semi-coloniale”, seppure mutuati politicamente dall’esperienza rivoluzionaria cinese al cui successo era ritenuto necessario e doveroso ricollegarsi, derivavano però “scientificamente” dal Sesto Congresso del Comintern del 1928, che li aveva formulati non ad hoc ma sulla base della teoria leniniana dello “sviluppo ineguale”.
Detto ciò bisogna tuttavia ricordare che lo stesso Lenin aveva messo in evidenza che il capitalismo penetra nelle campagne utilizzando diverse forme di proprietà e di regimi agricoli:
“L’America fornisce la più evidente conferma di una verità enfatizzata da Marx nel Volume III del “Capitale”, cioè che il capitalismo in agricoltura non dipende dalla forma di proprietà o di diritti sulla terra. Il capitalismo trova i tipi più diversi di proprietà terriera patriarcale e medievale: feudali, schiavitù dei contadini (cioè, il possesso di contadini vincolati), di clan, comunitarie, statali e altre forme di proprietà terriera. Il capitale si impossessa di tutte loro, impiegando una gran varietà di metodi e di strade.”11
Ne è riprova il fatto che forme feudali di rapporti di potere nelle campagne (e rapporti sociali premoderni) si possono riscontrare anche oggi a sessant’anni dall’indipendenza e dopo più di quindici anni dall’inizio delle riforme liberiste introdotte da Rajiv Gandhi, nonostante l’impetuoso sviluppo economico dell’India contemporanea e la direzione esplicitamente capitalistica verso la quale viene sospinta l’economia agricola. Anzi, spesso a conseguenza di tutto ciò, come vedremo.
D’altronde questa convivenza per fini politici con il “passato” era un’attitudine ereditata dagli Inglesi. Fu infatti la Compagnia delle Indie Orientali che ristabilì lo zamindari per riscuotere i tributi e l’Impero Britannico trovò sempre conveniente appoggiarsi formalmente ai sistemi di dominio locali, per feudali e oscurantisti che fossero.
Ma per i naxaliti il punto essenziale era che la tesi della “semi-feudalità” e quella della “semi-colonizzazione” dell’India si sostenevano a vicenda e in ciò era centrale, per l’appunto, la tesi della mancanza di una borghesia nazionale.
D’altronde, senza la tesi del “semi-colonialismo”, una rivoluzione di carattere nazionale non era nemmeno pensabile. In effetti in India mancava la spinta ad una lotta nazionale (come c’era stata in Cina contro i Giapponesi). Per giunta il concetto di “nazione indiana” era ancora forse
10 Si veda Karl Marx, “I risultati futuri della dominazione britannica in India”. New-York Daily Tribune, n. 3840, 8 agosto. Trad. It. in “Opere di Marx ed Engels”, vol. XII. Editori Riuniti, 1978, pp. 223-229.
11 Vladimir Ilic Lenin, Nuovi dati Sulle Leggi di Sviluppo del Capitalismo nell’Agricoltura, 1921, in Lenin, Opere Complete, Vol. 22, Editori Riuniti, 1965, pp. 9-105.
più un concetto politico che non sociale e questo era stato un punto ben chiaro agli occhi dei nazionalisti indiani che avevano lottato contro i britannici 12. Bisognava quindi declinare insieme la lotta rivoluzionaria con quella nazionale e la coppia “semi-feudalesimo”-”semi-coloniale” sembrava far quadrare il cerchio.
Prima di continuare è necessario segnalare che da questo assunto discendeva la totale assenza di una positiva linea politica per le città e per le fabbriche, di cui si percepiva solo l’esiguo peso numerico e sociale sottovalutandone l’importanza politica tendenziale (dovuto al fatto, per l’appunto, che per i naxaliti non esisteva una borghesia nazionale). Erano quindi contemplate solo azioni di erosione del consenso al CPM e al CPI e ai sindacati ad essi collegati, attacchi alle forze di polizia e azioni di sostegno alla lotta contadina13.
A nostro giudizio, invece, l’India non versava in uno stato di “semi-feudalesimo” in tanto in quanto non versava nemmeno in uno stato di “semi-colonia”.
La borghesia nazionale e lo Stato dello Sviluppo
In realtà la situazione indiana era caratterizzata da quello che con Chalmers Johnson possiamo
chiamare Stato dello Sviluppo (o “Stato sviluppista”, developmental state) i cui ingredienti
erano: a) controllo statale degli investimenti; b) relazioni non conflittuali nel campo del lavoro;
c) autonomia della burocrazia; d) autonomia dello Stato; e) guida amministrativa dell’economia; f) ricche corporation sostenute dallo Stato14.
Ingredienti che erano una variante delle politiche keynesiane che caratterizzavano l’Europa nell’immediato dopoguerra15.
A dispetto delle tesi dei naxaliti, la politica socialdemocratica del Congresso guidato da Nerhu differenziava l’India dalla Cina prerivoluzionaria perché oltre a ricercare la concertazione tra le parti sociali16, lungi dall’essere al soldo del capitale straniero e di una borghesia interna compradora, essa attuava proprio ciò di cui il nascente grande capitalismo indiano sentiva più bisogno: protezione dai capitali esteri, protezione del mercato interno (due politiche che vengono indicate col termine generale di import-substitution industrialisation, ISI), intervento dello Stato nei settori necessari ma poco profittevoli dei servizi e dell’industria pesante, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti e persino oggettivo incentivo differenziale ai grandi gruppi industriali grazie ai defatiganti controlli burocratici e al costo fisso delle licenze di quello che veniva chiamato con sarcasmo “licence raj”.
Dopo l’Indipendenza si iniziò quindi con l’aiuto dello Stato a far evolvere il “sistema paese” verso rapporti di produzione compiutamente capitalistici partendo da quei fenomeni di dissoluzione dei rapporti feudali che erano iniziati durante l’epoca coloniale. E se queste trasformazioni, dovute a interventi economici ed extra-economici non avevano potuto
12 In India l’esperienza risorgimentale italiana era vista come un modello cui fare riferimento. In un certo senso bisognava fare l’India e poi gli Indiani. Ciò era in contrasto con la millenaria coesione etnico-linguistica dei cinesi. Inoltre il carattere “nazionale” della lotta naxalita si spezzettava non solo nelle diverse realtà sociali, economiche, religiose, etniche e linguistiche dei vari stati indiani, ma anche nelle innumerevoli “nazionalità” tribali che fornivano ai naxaliti un sostegno imprescindibile.
13 Ciò portò nelle città, innanzitutto a Calcutta, ad una stagione di violenza diffusa e confusa, dove alle azioni terroristiche dei naxaliti si sovrapponevano azioni omicide del Partito del Congresso, del CPM e delle forze di repressione e infine azioni di pura criminalità comune. Un’ulteriore conseguenza della linea naxalita fu una scellerata spinta all’abbandono dei college e delle università da parte di un numero altissimo di studenti che andarono con grandissimo coraggio e generosità ad appoggiare le azioni rivoluzionarie nelle campagne. Infine, in questa impostazione maoista non fu considerata una cosciente politica femminile (tema essenziale che abbiamo ampiamente trattato nel libro “Naxalbari-India”).
14 Si veda Chalmers Johnson, Political Institutions and Economic Performance: The Government-Business Relationship in Japan, South Korea and Taiwan. In F.C. Deyo (a cura di), “The Political Economy of the New Asian Industrialism”, Cornell U.P, Ithaca, 1987, pp. 136-64..
15 Il termine “keynesiano” viene qui e in seguito utilizzato in modo lato.
16 Si veda ad esempio l’Industrial Truce Conference (conferenza sulla tregua industriale), tenuta a Nuova Delhi tra il 15 e il 18 dicembre 1947.
distruggere tutte le forme feudali di rapporti sociali nelle campagne, avevano però potuto cambiare lo scopo della loro funzione, almeno parzialmente.
Infatti, al di là della forma assunta dai rapporti sociali, al momento della rivolta di Naxalbari la spinta economica alla vendita della forza-lavoro si stava già avviando a sostituire la diretta costrizione con mezzi extra-economici. La stessa cosiddetta “schiavitù per debiti” che sarebbe stata in teoria uno dei tratti caratteristici della “semi-feudalità” della società indiana, uno dei modi per preservare le strutture di potere medievali e per dirottare capitali dai canali produttivi, si stava adattando alle nuove condizioni. Infatti il prestito personale era ormai più una forma impropria di credito, di anticipo sulle prestazioni lavorative, che non un modo per estrarre lavoro coatto vero e proprio, così come risulta alla luce della sua evoluzione attuale. Anche se non si esclude che in alcune zone esistano tuttora forme di legame di natura feudale, nel settore agricolo i rapporti di debito in generale non costituiscono più un vincolo di lavoro coatto, se non in forme miste o improprie. Ad esempio, nell’Haryana e nel Punjab il debito è strutturato nel contratto di lavoro salariato così che il salario è pagato a rate e un lavoratore può passare ad un altro datore di lavoro solo se quest’ultimo estingue il debito del salariato. Così il debt bondage è diventato uno strumento di sfruttamento capitalistico anche se molto diverso dagli strumenti utilizzati (o che erano utilizzati) nei paesi capitalistici presi a modello dai naxaliti17.
E’ quindi di vitale importanza riconoscere che lo stesso istituto può, almeno localmente e temporaneamente, esistere formalmente sia sotto rapporti feudali sia sotto rapporti capitalistici. Il criterio più immediato per determinarne il carattere è capire se è funzionale a meccanismi di accumulazione allargata e se dipende o meno da fattori extra-economici. Bisogna però ammettere che spesso è difficile distinguere tra fattori extra-economici e fattori economici quando la ricchezza è fortemente polarizzata e dove la stratificazione sociale extraeconomica è un fenomeno culturale e quindi i vincoli di dipendenza economica si approfondiscono, si possono sovrapporre ad altri tipi di legami, si possono comporre con essi, oppure entrarvi in contrasto. Questa difficoltà aumenta quindi in un paese come l’India dove fattori come la casta, la religione, il genere o la tradizione possono impedire di praticare un lavoro, o un tipo particolare di lavoro, o di ottenere salari di mercato.
In particolare proprio la persistente incidenza delle caste era (ed è) vista dai naxaliti (e da molti altri) come una riprova del carattere semi-feudale del paese, coerentemente alla previsione di Marx che le caste sarebbero state soppiantate dalle classi in un regime capitalistico sviluppato.
Ma ciò non è avvenuto non perché i meccanismi capitalistici fossero inoperanti, ma perché la strutturazione in caste ha dalla sua una tenace persistenza culturale così che la differenziazione di classe invece di sostituirsi si è innestata su quella castale (e anche quella etnica) in modo tendenzialmente trasversale.
Il blocco sociale dominante e i rapporti tra lo Stato e la borghesia nazionale
Sul piano politico l’India post-indipendenza si basava su un blocco sociale dominante formato da industriali, commis di Stato e proprietari terrieri, un blocco che quindi evitava di intaccare radicalmente gli interessi dell’élite agraria.
Con quali modalità politiche avveniva allora la transizione al capitalismo del mondo rurale?
Intanto ricordiamo gli effetti della colonizzazione: distruzione dell’industria manifatturiera non bilanciata da un corrispondente sviluppo capitalistico industriale (con conseguente migrazione verso le campagne), privatizzazione delle campagne stesse per garantire l’esazione delle tasse, statalizzazione delle foreste con conseguente forte limitazione di utilizzo delle loro risorse ai danni dei contadini poveri e delle popolazioni tribali, inserimento forzato dei prodotti agricoli indiani nei mercati internazionali, con conseguente innalzamento dei prezzi, indebitamento, specializzazione delle colture in senso spesso contrario al principio di sussistenza (es. indaco
17 Si veda Tom Brass, “Towards a comparative political economy of unfree labour: Case studies and Debates”, (Londra, 1999).
invece di mais), carestie, esaurimento delle terre ancora non messe a coltura e quindi aumento della scarsità relativa di terra (con conseguente interesse speculativo per la sua compravendita), variazione del rapporto uomini/terra in senso sfavorevole ai primi. Tutto ciò portò a un progressivo ampliamento della quota della popolazione indiana dipendente prevalentemente dal lavoro salariato nelle campagne, o da forme intermedie come la piccola fittanza e la mezzadria.
Se però nel settore secondario la necessità di manodopera qualificata o semi-qualificata e la sua scarsità relativa induceva nel proletariato industriale una forza contrattuale modesta ma non nulla, nelle campagne le forme pre-capitalistiche dei rapporti sociali (che non venivano attaccate da una borghesia che, come vedremo, era politicamente ambigua) e la debolezza dei salariati agricoli e dei contadini poveri, sia tecnica che politica, facevano sì che la conquista di migliori condizioni di vita e migliori salari assumesse immediatamente la forma dello scontro extraeconomico.
In ciò i comunisti naxaliti avevano visto giusto.
A dire il vero, l’eversione delle istituzioni feudali come lo zamindari fu subito promulgata per legge dal governo centrale retto dal Congresso e dai governi statali, che stabilirono un tetto massimo di proprietà terriera oltre al quale la terra doveva essere distribuita in piccole proprietà da assegnare ai contadini poveri o senza terra e decretarono salari minimi per i braccianti. Ma nella pratica si andò incontro a una sostanziale resistenza a quanto stabilito dai piani e dalle leggi. Le riforme agrarie andavano a rilento e spesso i grandi contadini, gli stessi zamindar o i loro intermediari jotedar ne traevano il massimo beneficio mentre i già ridotti diritti dei braccianti, dei mezzadri e dei piccoli fittavoli non venivano difesi dall’esecutivo.
Spesso l’applicazione delle leggi ricevette un impulso solo in quanto impaurita risposta alla rivolta naxalita. Né le cose andarono in modo molto diverso negli stati governati dalla sinistra, come il Bengala Occidentale, a riprova che i cosiddetti rapporti “semi-feudali” assieme a quelli “capitalistici di stato” e “capitalistici privati” erano tutti parte integrante dell’India postcoloniale, in una combinazione contraddittoria che ora esamineremo.
Come abbiamo visto l’aggancio ai paesi capitalistici avanzati doveva avvenire tramite incentivi all’industria interna e la sua protezione (politica genericamente intesa come “Swadeshi” 18). Ma il tentativo di far evolvere coerentemente i rapporti di produzione in senso capitalistico aveva però finito per favorire la creazione di distorsioni e contraddizioni.
Gli strumenti principali della politica dell’ISI, i sussidi e le tariffe, avevano sicuramente favorito la crescita dell’industrializzazione del Paese e di una classe capitalistica nazionale che si imponeva sempre più in termini sia economici sia d’importanza politica (a discapito delle oligarchie terriere). Ma avevano anche dato vita a tre problemi di base:
una divergenza d’interessi tra la borghesia imprenditoriale e gli scopi politico-sociali della politica economica dello Stato,
il progressivo carattere oligopolistico dei grandi gruppi industriali nazionali,
una crisi fiscale e della bilancia dei pagamenti insostenibile nel tempo.
Il primo punto è quasi tautologico: la borghesia industriale non aveva nessun interesse e poca voglia di investire in settori ad alto ritorno sociale nel medio termine ma a basso ritorno economico nel breve. Lo Stato, al contrario, avrebbe dovuto controllare, tramite gli apparati di verifica del vituperato “licence raj”, che gli investimenti dei sussidiati e protetti industriali andassero nella direzione di una crescita di lungo periodo.
Questa contraddizione indusse gli industriali (nazionali, ben s’intende!) a contrastare con tutti i mezzi i tentativi e le ambizioni dei manager statali di attuare i controlli previsti dall’ISI e dalla
18 Il termine “Swadeshi” (da “swa” = “sé, auto” e “deshi” = “paese, nazione”, e quindi “della nazione stessa”) era utilizzato da Gandhi per indicare il principio secondo il quale tutto ciò che veniva prodotto in un villaggio doveva essere innanzitutto usato dai membri del villaggio stesso. Secondo il Mahatma, “Lo swadeshi è servizio, e se comprendiamo la sua natura noi immediatamente beneficheremo noi stessi, le nostre famiglie, il nostro paese e il mondo”. Questo termine ha poi assunto il valore di “nazionale” o “comunitario” nella sfera sociale ed economica.
pianificazione, per aver mano libera di perseguire le proprie priorità, i propri piani di investimento e i propri piani di ritorni. In ciò erano appoggiati dalla potente destra del Congresso.
In altri termini, gli industriali (nazionali, lo ripetiamo) avevano una visione monodirezionale della politica economica dello Stato: sussidi e protezione tariffaria a loro beneficio, ma libertà d’azione della cosiddetta “iniziativa privata”. Una delle tante varianti della politica di privatizzazione degli utili e nazionalizzazione delle perdite in voga anche da noi nei ruggenti venti anni keynesiani postbellici.
Il “frondismo” degli imprenditori portò ad un latente rigetto della politica industriale governativa. Cosa che a sua volta indusse una sostanziale neutralizzazione degli strumenti di pianificazione e controllo predisposti o progettati dai governi e, di conseguenza, a un indebolimento relativo delle élite politiche.
Un altro effetto di questa resistenza fu la marginalizzazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni, come appare già immediatamente dopo l’Indipendenza con il magrissimo bottino che si portarono a casa dalla Industrial Truce Conference già menzionata19.
Da una parte questa marginalizzazione fu favorita dalle élite politiche per rassicurare la borghesia nazionale delle intenzioni non-socialiste della pianificazione, rinunciando con ciò a un possibile alleato nella lotta contro le resistenze degli industriali.
Dall’altra fu favorita dalle stesse organizzazioni sindacali che si sentivano attratte da una politica di pianificazione e di sviluppo coordinato, dai loro dirigenti che erano sedotti dal patronaggio dello Stato e infine dalla forte posizione del sindacato che era collaterale al Congresso. Ovviamente, la marginalizzazione del movimento dei lavoratori portò ad una sterzata ancora più decisa dei termini negoziali a favore degli industriali, che dal canto loro non avevano interesse ad indebolire le élite agrarie, innanzitutto proprio nei confronti dello Stato e in subordine nei confronti delle masse contadine.
Il secondo punto in discussione, ovvero il carattere oligopolistico dei grandi gruppi industriali indiani, è anch’esso connesso alla politica di pianificazione unidirezionale (nel senso sopra chiarito) dei governi indiani.
La politica economica “swadeshi”, con la sua sistematica e istituzionalizzata sostituzione delle importazioni con la produzione locale, le protezioni tariffarie e uno scarso commercio privato verso l’estero, le ancora ridotte dimensioni del mercato indiano – tuttavia dominante data le limitazioni del commercio con l’estero – e infine la grande scala richiesta alle moderne manifatture, tutti questi fattori, congiunti al filtro delle pratiche burocratiche e delle tasse, contribuirono a limitare il numero di produttori a favore di un numero ristretto di oligopoli.
Già nel 1951 venti famiglie controllavano il 20% del capitale privato indiano, quota che nel 1958 era salita al 33% e le due famiglie Tata e Birla possedevano il 20% di tutte le azioni delle compagnie indiane. Nel 1965 la Commissione sui Monopoli trovò che il 47% dei beni industriali non governativi era in mano a settantacinque grandi gruppi.
Per via di solidarietà di casta e, soprattutto, di meccanismi di alleanza politica, come abbiamo già visto la borghesia indiana non aveva poi nessuna intenzione di dare una grossa spallata alle élite agrarie cosiddette “feudali”, oltretutto quando la forza politica di queste classi non poteva più fare concorrenza a quella della borghesia industriale.
Dobbiamo qui aggiungere due ulteriori motivi di questo atteggiamento politico. La natura fondamentalmente oligopolistica del capitalismo indiano faceva sì che la grande borghesia poggiasse su una base sociale non vasta, che oltretutto era concentrata nella parte occidentale dell’India (gruppi Tata e Birla) e quindi anche questo elemento spingeva i grandi capitalisti a ricercare l’alleanza delle élite agrarie. Inoltre lo stato dell’economia nelle campagne garantiva un meccanismo improprio di aumento della produttività. Infatti mantenendo basso il prezzo dei
19 Si veda Vivek Chibber, “From Class Compromise to Class Accommodation: Labor’s Incorporation into the Indian Political Economy”, in M. Katzenstein & R. Ray (Eds.), “Social Movements and Poverty in India”, Rowman and Littlefield, 2005.
prodotti agricoli, sostanzialmente tramite l’allargamento a dismisura dell’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoratore delle campagne, esso manteneva bassi i salari industriali incrementando quindi in questo settore l’estrazione relativa di plusvalore anche in presenza di modeste innovazioni tecnologiche e metteva in grado gli industriali di assorbire moderati aumenti salariali. In definitiva l’accumulazione di capitale in India aveva bisogno di una situazione in cui la vendita di tempo-lavoro agricolo soddisfacesse fondamentalmente dei bisogni di sussistenza e il cosiddetto regime “semi-feudale” era proprio ciò che, nelle condizioni date, garantiva tale situazione.
I naxaliti avevano sì intuito che la borghesia dominante indiana non era propriamente una “borghesia nazionale” secondo quanto dettato dalle “aspettative nazionali”, che le élite politiche e burocratiche erano in qualche modo al loro servizio e infine che la borghesia e le élite agrarie convivevano pacificamente. Inoltre non era del tutto senza argomenti la percezione dei naxaliti che lo Stato fosse al “servizio” della borghesia, ma lo era perché incapace, per via della sua stessa concezione, delle alleanze che perseguiva, di quelle che rifiutava e di forti lobby al suo interno, di vincere la resistenza di questa borghesia la quale, ad ogni modo non era compradora come invece effettivamente accadeva in molti paesi post-coloniali, così come lo Stato che la sosteneva non era asservito a potenze imperialiste.
Era anche vero che il drenaggio di risorse finanziarie a vantaggio di questa borghesia non poteva favorire la riforma del mondo rurale, circostanza che poteva ulteriormente configurare un’alleanza tra la borghesia e i grandi latifondisti.
In più, come già detto, la borghesia non aveva allora nessun vantaggio ad attaccare frontalmente le élite agrarie. Anzi, come abbiamo già notato il ristagno dei prezzi dei prodotti agricoli favoriva il ristagno del costo di riproduzione della forza-lavoro industriale.
E infine era vero che la classe operaia era stata del tutto sguarnita e disarmata dalla fascinazione del mito della “borghesia nazionale” e dello Stato dello Sviluppo, che influenzava la linea dei partiti comunisti tradizionali, e dall’impazienza dei dirigenti di questi partiti e dei sindacati di sedersi al tavolo negoziale della pianificazione.
Ma i naxaliti non avevano colto il motivo reale di questi fenomeni, presi com’erano dall’urgenza delle lotte contadine, dalla debolezza del proletariato industriale e dai teoremi ideologici che volevano difendere:
tipicità e uniformità del modello borghese di sviluppo,
conflitto di fondo tra rapporti feudali e rapporti capitalistici, anche nella loro forma,
Stato come semplice “comitato d’affari” della borghesia e delle classi dominanti.
Questi tre assiomi erano alla base delle “aspettative nazionali” che ovviamente, così formulate, furono disattese. Ma non furono disattese perché la borghesia non fosse “nazionale”, ma proprio perché lo era fin troppo, almeno secondo le logiche che le erano proprie.
La crisi dello Stato dello Sviluppo e l’apertura liberista
In sintesi, l’apertura liberista iniziata con Rajiv Gandhi negli anni ’90, dopo prudenti anteprime della madre Indira, era dettata da una crisi fiscale dovuta alle contraddizioni interne dello Stato dello Sviluppo, alle crescenti pressioni del capitale internazionale, in una situazione di debolezza politica dell’India non allineata dopo la caduta del Muro di Berlino, alle pressioni dei grandi imprenditori e a quella di un’emergente classe benestante. Per altri versi l’apertura finale al liberismo fu il riconoscimento da parte dei grandi industriali, cresciuti nel guscio protettivo dello Stato dello Sviluppo, delle potenzialità che avevano acquisito.
Iniziò così il deciso ripiegamento dello Stato dello Sviluppo per far spazio alla grande borghesia nazionale e al capitale straniero. Tra il 1990 e il 1995 per la prima volta gli investimenti pubblici stagnarono mentre salirono quelli privati che incominciavano ad essere indipendenti dall’intervento statale. Settori tabù come il petrolio, le telecomunicazioni e l’energia
elettrica furono aperti agli investimenti esteri. Le tasse sui profitti e sul capital gain furono ridotte, mentre la tassazione presuntiva (su stima) attaccava i redditi delle classi intermedie.
Nel frattempo la situazione sociale si faceva drammatica. Gli aggiustamenti strutturali e le altre condizioni imposte dalle IFI (le Istituzioni Finanziarie Internazionali, FMI e Banca Mondiale) erano utilizzati dai grandi industriali per portare attacchi frontali a quel poco di classe operaia garantita. Le IFI chiedevano infatti lo smantellamento delle leggi sui salari minimi, la loro deindicizzazione, ampie possibilità di licenziamento e persino l’abolizione dei tetti fondiari.
Sono gli anni che seguono immediatamente la caduta del Muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica. Ma sono anche gli anni delle “intrusioni” non previste.
In India la perdita di sicurezza dovuta alle dinamiche sopra ricordate, indotte dalla crescente integrazione nell’economia e nella cultura globali, portarono per contrasto ad un rinvigorimento di quelle fedeltà pre-moderne che erano state utilizzate dalla penetrazione capitalistica, sia in epoca coloniale sia postcoloniale e quindi mai attaccate frontalmente.
La reazione alla modernizzazione non poteva essere infatti che un moto in senso contrario.
In termini molto sintetici, il secolarismo del Congresso che all’epoca di Nerhu si era messo al servizio di un impegno di sviluppo laico e moderatamente distribuito, era passato aggressivamente alle dipendenze del neo-liberismo, che trasformava in merce ogni cosa, era fortemente antiegalitario e produceva uno sviluppo polarizzato che metteva in forse interessi acquisiti. La risposta a questo attacco era quindi un ritorno a valori anti-secolari e comunitari tradizionali.
Il termine “Swadeshi” prese così un significato reazionario e riducibile a piacere ad ogni livello di identità e di fedeltà: nazione, stato, villaggio, etnia, casta, religione. Un significato che a ben vedere nascondeva la stratificazione dello scontento per l’abbandono dello Stato dello Sviluppo (di principio “swadeshi”, come abbiamo visto) a maggior gloria del capitale internazionale e dei gruppi di interesse indiani di cultura cosmopolita e con interessi mondializzati.
Così come in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone la globalizzazione neoliberista ha indotto una reazione in bilico tra “andare più avanti” e “tornare indietro”, con una distinzione non sempre chiara, allo stesso modo in India l’Hidutva (il movimento nazionalista indù) traeva linfa dalla paura per l’influenza omogeneizzante degli strati alti dell’emergente classe media e della sua cultura inglese-cosmopolita e da quella per la crescita del consumismo accompagnata dalla distruzione di ogni barriera alla mercificazione e la conseguente devastazione di valori e di modi di vita.
Queste paure erano ampliate, lo ripetiamo, dal sentimento di impotenza di fronte a ciò che non può essere definito altrimenti che una deità remota: il “mercato internazionale”. Per reazione la morente Classe Intermedia che gravitava attorno allo Stato dello Sviluppo, vasta e composita, si rifugiava nell’ordine sociale garantito dal suo pantheon tradizionale, “swadeshi” per definizione e meno astratto20.
20 Sono gli anni in cui le popolazioni arabe e musulmane, e in primo luogo le loro borghesie urbane, già depresse dalla mancanza di una dialettica democratica nei loro paesi, iniziarono in modo massiccio a rifugiarsi nella tradizione religiosa pre-moderna. In Israele si incominciavano ad affermare i movimenti ultranazionalisti dal cui seno uscirà l’assassino di Y. Rabin. Contemporaneamente in Europa si era da tempo preparato quell’humus sociale che una volta rotti gli argini e le fedeltà tenuti in piedi dalla Guerra Fredda darà vita alle varie forme di nazionalismo e di comunalismo che ben conosciamo (Front National di Le Pen in Francia, Lega Nord in Italia, Partito della Libertà di Jörg Heider in Austria, neonazismo in Germania, ecc…). Intanto il Vaticano iniziava una strisciante controriforma anticonciliare e nel mondo protestante prendeva piede il fondamentalismo degli evangelicals e dei teo-cons. In breve si stava prendendo atto che “abbandonando la promessa egemonica dell’universalizzazione del sogno americano, l’élite statunitense dominante non aveva fatto altro che ammettere che la promessa era ingannevole” (Immanuel Wallerstein, “Response: Declining States, Declining Rights?” International Labor and Warking-Class History, 1995).
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Fu questa la base della forza acquisita in pochi anni dal Bharathya Janatha Party (il BJP, partito nazionalista indù) che si presentò sulla scena politica come un vero ospite non invitato e sostituì al governo centrale il Partito del Congresso.
Sono gli anni in cui in Italia l’operazione giudiziaria Mani Pulite porta il suo attacco ai partiti che si sono identificati con lo stato keynesiano e che su di esso hanno prosperato con le loro clientele, mentre i “salotti buoni” puntano sul ceto politico post comunista rimasto ai margini di quel potere, anche se nella politica economica keynesiana ha trovato il suo forte spazio politico. Ma come accadde anche in India col BJP, allo stesso modo la Lega Nord e Forza Italia, sbaragliando ogni previsione, si presentarono nello scenario politico italiano come prepotenti ospiti non invitati, scompaginando i piani dei “salotti buoni” con le loro politiche ambigue e populiste.
Dopo un primo assestamento, così come il secondo governo Berlusconi, anche il secondo governo di Atal Behari Vajpayee, leader del BJP, fu il primo a durare per tutta la legislatura dopo anni di elezioni anticipate.
Ma una volta al potere il BJP pur continuando a predicare dal pulpito una resistenza swadeshi alla globalizzazione occidentale, continuò in realtà nella linea delle riforme liberiste.
In particolare, in agricoltura Vajpayee lanciò la National Agricultural Policy (NAP) con l’obiettivo pubblicizzato di far diventare l’India il più grande esportatore di prodotti agricoli del mondo. La NAP istituiva due forme privilegiate di conduzione delle coltivazioni: il contract farming e il corporate farming che legavano l’agricoltore agli interessi dei grandi operatori dell’agri-business nazionali e stranieri e privilegiavano le grandi imprese agricole modernizzate.
Ma la sconsiderata e sanguinaria politica antimusulmana del BJP, la delusione popolare dovuto il suo sostanziale disinteressamento per le vastissime masse povere tagliate fuori dalla “Shining India”, e infine l’inaffidabilità del BJP agli occhi del grande capitale nazionale e internazionale per portare a buon fine il compito di traghettare l’India nel nuovo contesto e nei nuovi meccanismi di accumulazione globale, decretarono nel 2004 la fine della prima parte del periodo di transizione e rimisero in sella il redivivo Partito del Congresso guidato da Sonia Gandhi, protetto a sinistra da CPI e CPM, associati all’UPA (United Progressive Alliance) grazie alla sirena del potere e, spesso, alla minaccia di un ritorno dell’aborrito BJP ritenuto poco meno che parafascista. Una versione indiana dell’antiberusconismo.
E anche in India l’iniziale entusiasmo degli strati popolari e degli intellettuali di sinistra per la sconfitta del BJP furono raffreddati in pochissimi giorni, come ci ricorda Arundhati Roy21.
Il primo ministro Manmohan Singh, ex funzionario del FMI e artefice delle prime riforme liberiste agli inizi degli anni ’90, ha infatti dato fin da subito un colpo all’acceleratore delle “riforme” liberiste, solo parzialmente controbilanciate da misure solidaristiche e assistenzialistiche controllate da Sonia Gandhi.
La situazione attuale: un “semi-feudalesimo” al servizio della globalizzazione?
A 40 anni dalla rivolta di Naxalbari la situazione rurale e quella delle tribù di molta parte dell’India non può che definirsi preoccupante. Per quanto concerne il mondo agricolo nel suo complesso, che comprende più della metà della popolazione, possiamo sintetizzare i problemi come segue:
generale subordinazione dell’agricoltura allo sviluppo dell’industria e dei servizi,
accelerazione nelle campagne del processo di sussunzione reale del lavoro e delle forme di proprietà ai processi di accumulazione capitalistica,
accentuata dipendenza alimentare dall’estero.
Nelle ultime due decadi gli investimenti pubblici in agricoltura sono colati a picco mentre è cresciuta a dismisura la dipendenza dall’estero causata dalla conversione delle colture per il consumo in colture per l’esportazione e collegata direttamente anche a specifiche politiche di adozione di monoculture e di colture geneticamente modificate che richiedono basilari input
21 Si veda Amy Goodman, “Arundhati Roy: Back In the U.S.A.”. AlterNet, 25 maggio 2006. http://www.alternet.org/story/36643/
esterni. Le politiche agricole di contract farming e di corporate farming hanno di fatto bloccato a metà le riforme agrarie privilegiando le grandi e le grandissime tenute modernizzate (spesso riassemblate con metodi mafiosi) e facendo desistere i governi dal mettere in pratica la seconda parte delle riforme agrarie, ovvero l’aiuto ai poveri e l’accesso al credito. La “via prussiana” al capitalismo agrario si è così trasformata da residuo “semi-feudale” a organico strumento dell’agri-business internazionale mostrando ancora una volta che una stessa forma può nascondere inaspettati contenuti22.
Come se ciò non bastasse i fattori appena descritti e la sottrazione di terre all’agricoltura a favore delle attività industriali e delle infrastrutture per lo sviluppo, con molta probabilità non potranno che accentuare la dipendenza dell’India dall’estero e dalle multinazionali agro-chimiche e approfondire inoltre il processo di marginalizzazione e di espulsione delle masse contadine. A ciò bisogna aggiungere la devastazione delle terre abitate dai tribali dovute a un rinnovato interesse per le attività estrattive e all’industria energetica.
I prezzi dello sviluppo sono e saranno quindi ribaltati sulle masse contadine e sulle comunità più deboli e meno protette dalla politica istituzionale23.
Il nuovo corso inaugurato da Rajiv Gandhi rischia così di diventare la copia post-coloniale dell’aggressivo regime imposto dal Raj britannico nell’Ottocento con il viceré Lytton, quello che tacciava di “isteria umanitaria” i timidi tentativi del duca di Buckingham, governatore di Madras, di soccorrere i contadini indiani che morivano a milioni durante la carestia del 1876-1879 procurata dalle misure liberistiche del viceré.
In altri termini, così come accadde quando l’Impero britannico soppiantò i Moghul, allo stesso modo il passaggio odierno dallo Stato dello Sviluppo al neoliberismo si accompagna nel mondo rurale alla sostituzione di un concetto di “inclusione” (drammaticamente disuguale e ingiusto) con quello di “emarginazione” dovuta alla sussunzione reale del lavoro agricolo al capitale rimondializzato.
Per molti versi si sta ripetendo in Asia quanto era successo in Occidente con l’estensione del capitalismo tra ‘800
e ‘900. Ma allora il numero degli emarginati dallo sviluppo capitalistico era minore in termini assoluti ed essi avevano a disposizione interi continenti (le Americhe e l’Australia) da colonizzare e dove emigrare; infine, le innovazioni tecnologiche facevano da volano allo sviluppo economico forse in modo più massivo di adesso. Ciò fa pensare che lo “spazio delle soluzioni” dei problemi (compreso quello ecologico) si sia drasticamente ridotto.
22 “Via prussiana” è un riferimento a una nota analisi di Lenin: “Chiameremo quelle due possibili strade dello sviluppo borghese [nelle campagne] la via prussiana e la via americana, rispettivamente. Nel primo caso l’economia dei landlord evolve lentamente in una economia borghese, economia dei landlord Junker, che condanna i contadini per decenni alla più straziante espropriazione e schiavitù, mentre al contempo cresce una piccola minoranza di Grossbauren (“grandi contadini”). Nel secondo caso non c’è una economia di landlord, oppure è frantumata da una rivoluzione che confisca i possedimenti feudali e li suddivide.”. Che la riforma agraria là dove era in vigore lo zamindari abbia in larga parte intrapreso la “via prussiana” per considerazioni di carattere squisitamente politico, è stato ammesso di recente dal governo bengalese quando ha dichiarato nella Economic Survey del 2004 che in risposta alla rivolta naxalita esso aveva adottato le raccomandazioni di Wolf Ladejinsky. Questo notevole e competente personaggio che il governo statunitense aveva sguinzagliato nel dopoguerra praticamente in tutta l’Asia non comunista, aveva come compito quello di suggerire le politiche agrarie per disinnescare situazioni rivoluzionarie. Essendo persona intelligente aveva subito capito che la “via americana” era inattuabile per via del clima politico (egemonizzato dalla triade grande borghesia – commis di stato – grandi proprietari terrieri e dalla debolezza dei contadini) e quindi bisognava ripiegare sulla “via prussiana”.
23 Decine di migliaia di contadini si sono suicidati dall’inizio delle “riforme” liberiste, perché non erano più in grado di garantire la sussistenza a se stessi e alle loro famiglie. I dati della National Sample Survey Organisation mostrano che la quantità di cibo pro capite è passata dai 178 kg del 1990 (ovvero prima delle riforme liberiste) a 155 kg nel 2004, un livello ancora più basso di quello medio durante il periodo coloniale, mentre il consumo di cereali pro capite è diminuito in tutti gli stati tranne che nel Kerala, sia nelle aree urbane sia in quelle rurali, con un tentativo di sostituzione con altri alimenti a più basso contenuto nutritivo e una conseguente esacerbazione della sottonutrizione (confermata dalle misure antropometriche e dal National Nutrition Monitoring Board, specialmente per quanto riguarda i micronutrienti). E i dati sull’assunzione calorica giornaliera mostrano un trend simile.
Se quindi lo Stato dello Sviluppo assicurava la sopravvivenza del mondo contadino ancorché in larga parte in forme semi-feudali, il nuovo regime liberista, per parafrasare Marx, non è più in grado di garantire l’esistenza dei suoi stessi schiavi ora che quelle “forme prussiane”, si stanno adattando bene alle esigenze dell’agri-business internazionale. Certo, lo potrà fare, ma solo se costretto e se sarà in grado di dedicare una quota crescente di surplus a sussidi elargiti in varie forme.
Il Capitale e il Potere
La tesi che abbiamo sostenuto, ovvero la possibilità per il Capitale di utilizzare rapporti sociali pre-moderni e la nostra spiegazione dell’arcano della nozione di “semi-feudalità” assieme all’ambiguità “nazionale/non-nazionale” e quindi la nostra critica all’interpretazione della situazione indiana fornita dai partiti comunisti tradizionali e dai marxisti-leninisti, non possono essere accettate a meno che non si ammetta il fatto che si può parlare di “capitalismo” solo quando il potere territoriale e il potere economico si dividono, come aveva capito Marx in una delle sue opere meno amate dai marxisti, ovvero i “Manoscritti economico-filosofici del 1844”. Allora possiamo subito riconoscere che questa divisione porta a due contraddizioni fondamentali che interagiscono una con l’altra.
“Durante “il corso ordinario delle cose” il processo di accumulazione del capitale e di riproduzione del rapporto sociale capitalistico si basa su meccanismi puramente economici, perché è solo col capitalismo che i rapporti di potere assumono una predominante forma economica. Ma il Capitale, in quanto privo di strumenti organizzativi e coercitivi diretti, per imporsi come rapporto sociale e per riprodurre tale rapporto nei momenti di crisi deve ricorrere al potere territoriale. Il capitalismo è infatti un rapporto sociale intrinsecamente conflittuale, sia in senso verticale (conflitto tra classi in senso lato) sia in senso orizzontale (conflitto tra segmenti di capitale) e l’alleanza con il potere territoriale viene utilizzata dal Capitale per risolvere questi conflitti, ricorrendo ai vari livelli di organizzazione e di violenza di cui gli stati-nazione detengono il monopolio.
Ma a sua volta l’alleanza tra potere territoriale e potere economico è caratterizzata da una sua propria contraddizione. Mentre da un lato il Capitale ha bisogno della forza organizzativa e coercitiva del potere territoriale, dall’altro i suoi processi tendono costantemente a trascendere i limiti giurisdizionali dei singoli stati-nazione. In altre parole, mentre la logica territoriale è definita da uno “spazio-di-luoghi”, quella economica è definita da uno “spazio-di-flussi” (ed è per questo che i due poteri sono divisi). ”24
Ma quanto detto comporta che il capitalismo non sia semplicemente una modalità tecnico-economica di produzione e di accumulazione cui corrisponde meccanicamente una precisa e univoca sovrastruttura politica, ma è anche – e soprattutto – una formazione sociale basata su rapporti intrinsecamente conflittuali e quindi richiedente modalità di scambio politico tra il potere territoriale e il potere del denaro che possono assumere forme differenti. In altri termini, per mantenere i rapporti sociali capitalistici, che nella produzione trovano un’applicazione particolare nella sussunzione – formale o reale – del lavoro al capitale, il potere del denaro deve venire a patti con varie forme di potere territoriale specialmente nel caso, come diceva Marx, che le cose non vadano “per il loro corso”, ovvero non siano governabili dai meccanismi usuali della sfera economica, circostanza che tipicamente si verifica durante le fasi di crisi e nei processi di transizione.
24 Piero Pagliani, “Imperialismo preventivo o impero: domande non eludibili”, Guerre & Pace, n. 107, 2004, pag. 39 I termini “spazio-di-flussi” e “spazio-di-luoghi” sono tratti da Giovanni Arrighi , “The Long Twentieth Century. Money, Power and the Origins of Our Times”. Verso, London., 1994. Trad. it. “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”, Il Saggiatore, 1996.
Non solo, in queste circostanze lo scambio politico tra potere territoriale e potere del denaro acquista una rilevanza particolare, ciò che può portare, come nel caso che abbiamo esaminato, sia a compromessi con forme date di potere e controllo sociale e possibilmente al loro sfruttamento, sia ad una parziale indipendenza del processo di formazione dello Stato dagli immediati interessi delle classi economicamente dominanti e quindi ad un latente conflitto o divergenza d’intenti tra esse e le élite politiche, come è avvenuto con lo Stato dello Sviluppo.
Ne segue che la visione marxista assiomatica e storicista della relazione tra rapporti di produzione capitalistici e organizzazione sociale e politica di tipo occidentale è restrittiva e ingannevole.
Conclusioni
Ormai in India, come in Italia, assistiamo ad una riduzione dello spazio politico come ad una delle principali conseguenze del passaggio dai regimi di sviluppo keynesiano-occidentali o keynesiano-postcoloniali a quelli imposti dai processi di globalizzazione. Usando schemi politici generali, questo processo rispecchia il passaggio da uno Stato che deve rendere conto di un patto costituzionale con la propria nazione ad uno Stato per nulla “estinto” o in via d’estinzione, in quanto è esso il detentore del monopolio della violenza a cui i vari segmenti del Capitale non possono rinunciare, ma che deve innanzitutto rendere conto dei meccanismi mondializzati di accumulazione25.
In questo processo rischia di venir meno quel tanto o quel poco di compromesso sociale che ha retto il sistema durante la seconda metà del Novecento. In un paese socialmente fragile ed esposto come l’India, dove gli ammortizzatori sociali sono limitati sia in ampiezza (per via delle disuguaglianze regionali) sia in profondità (per questioni di budget) e che sono sempre più surrogati da organizzazioni non governative, o non -profit o da gruppi di auto-soccorso, potremmo assistere a lotte epocali.
Il marxismo e i marxisti avranno voce in capitolo in questi conflitti? Avranno qualcosa da dire che vada al di là di una tarda rivendicazione dello Stato dello Sviluppo? Scambieranno questa chimera per una “bandiera lasciata cadere dalla borghesia” e da “riprendere da terra” (tipica metafora terzinternazionalista) o la giudicheranno un capitolo vuoi concluso vuoi incompiuto ma ormai da saltare perché intanto la Storia è andata avanti26?
Avranno qualcosa da dire al di là di gloriose e ormai inutili formule, o si rinchiuderanno in schemi dottrinari e di lotta che non permetteranno loro di incidere in una composizione sociale e in meccanismi economici che anche in India sono diventati sempre più complessi e articolati?
Sarebbe un vero peccato che non riuscissero a svincolarsi dalle rigidità dottrinarie e liturgiche. Sarebbe come se Lenin avesse commesso l’errore di non svincolarsi dal timore reverenziale per il Gran Vecchio del marxismo di allora, Kautsky, o se Niels Bohr e Werner Heisenberg si fossero intestarditi a spiegare i fenomeni quantistici con la meccanica del “caro vecchio Newton”27.
25 Secondo Marx e Lenin, lo stato capitalistico non è descritto dalle sue funzioni amministrative, ma innanzitutto da quelle coercitive (dai suoi “distaccamenti speciali di uomini in armi”). Lo stesso concetto è ribadito da Gramsci quando parla di “egemonia corazzata di coercizione”. Il comunismo dovrebbe, secondo i classici, portare all’estinzione di queste funzioni, perché sono queste e non le prime quelle portanti nello stato capitalistico (come da tempo viene ribadito ad esempio da G. La Grassa nei sui interventi sul sito “ripensaremarx”).
26 Lo Stato (keynesiano) dello Sviluppo in quanto tale e in quanto storicamente esistente è legato a un progetto comune sottoscritto innanzitutto dalle borghesie industriali e finanziarie, in particolare dalle loro élite; un patto in cui le organizzazioni dei lavoratori sono partner subalterni e le “aspettative nazionali” sono solo istanze teoriche che devono fare i conti con le condizioni reali di accumulazione del capitale. Se quindi le élite nazionali sentono la necessità di cambiare i termini di questo progetto comune (disinvestendo e dedicandosi alle manovre finanziarie, comprimendo i salari reali e decentrando la produzione) lo Stato dello Sviluppo così come le “aspettative nazionali” diventano pure chimere.
27 Lenin si svincolò politicamente dall’ortodossia marxista, ma la sua visione rivoluzionaria non bastò a spingerlo ad un reale ripensamento teorico del marxismo. Capì che la soggettività rivoluzionaria poteva sopravanzare le “condizioni oggettive” previste “in generale” e quindi “in astratto” dal marxismo (da qui la sua nozione del partito in quanto organizzazione di “rivoluzionari di professione”, quella di “sviluppo ineguale” e la conseguente nozione di
E sarebbe un peccato perché gran parte dei marxisti indiani, e in special luogo i marxisti-leninisti, sono riusciti a mantenere una tensione morale, una “linea di demarcazione” che li ha sottratti a quel melting pot di ideologie e di teorie che tutto fonde nel “politically correct” e nel radicalismo da supermarket e da talk show dove liberazione della donna e sua mercificazione, opportunismo e idealità, cinismo e buoni sentimenti, diritto e arbitrio, non-violenza e bombardamenti si confondono in una terribile notte in cui tutte le vacche sono nere.
E’ già qualcosa, ma non è sufficiente.
Novembre 2007
Piero Pagliani è autore del libro “Naxalbari-India. La rivolta nella futura terza potenza mondiale”. Mimesis Edizioni, novembre 2007.
“anello più debole” dell’imperialismo). Tutto ciò era conseguenza della sua straordinaria attenzione alle condizioni reali. Ma non mise mai in discussione l’idea del proletariato come classe rivoluzionaria e la connessa ipotesi della contraddizione oggettiva tra sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione. Preferì “nascondere” l’aporia tra la teoria e la sua stessa prassi dietro l’idea del partito come “avanguardia del proletariato”, espandere il concetto di proletariato in quello di “poveri, oppressi e sfruttati” nelle varie condizioni ineguali di sviluppo capitalistico e recuperò l’oggettività del processo rivoluzionario nella concezione dell’imperialismo e della finanziarizzazione come ultimo stadio del capitalismo (quello, per l’appunto, dei capitalisti come “tagliatori di cedole” in monopoli sempre più concentrati come descritto da Marx).