SPIGOLATURE
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“Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti ricompensano i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a ‘consolazione’ e a mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne smussa la punta, la si avvilisce”. (Lenin)
Non credo vi siano molti commenti da fare. Buona parte (non tutta) della cosiddetta Marx renaissance odierna corrisponde a quanto qui affermato. Ma anche in un recente passato si usavano marchingegni appena diversi. Tra gli anni ’70 e ’80, era soprattutto in uso unire a Marx qualche altro pensatore, detto rivoluzionario. In realtà, lo era nell’ambito di un pensiero confacente alle classi dominanti, che non sono così rozze nell’esercitare la loro egemonia culturale; esse si dividono in tanti gruppi fra loro in conflitto così da far credere che, in fondo, alcuni di questi vogliono “rivoluzionare” la società capitalistica (a volte, si tratta in effetti della rivoluzione dentro il capitale). Così abbiamo assistito a: Marx+Nietzsche (o Heidegger), Marx+Weber, Marx+Foucault, Marx+Luhmann, Marx+Bateson, Marx+Prigogine, Marx+vattelapesca, impossibile ricordare tutte le commistioni effettuate. Si è battuta anche la grancassa sulla grande diffusione del marxismo negli USA, in ambito prettamente accademico e addirittura unendolo al pensiero neoclassico (il “diavolo e l’acqua santa”), come ha fatto il marxismo analitico (di origine appunto anglosassone).
Sia chiaro che alcuni dei personaggi sopra citati sono dei classici del pensiero che vanno più che apprezzati e studiati a fondo; ne aggiungerei anche molti altri, tipo l’economista Schumpeter o il filosofo Bergson, per i quali ho viva “propensione”. La banalità dei “grandi intellettuali”, che si sono inventati a quell’epoca il Marx più qualcun altro, è consistita proprio in queste commistioni, puri accostamenti superficiali e spesso eclettici; inoltre, essi mutavano ogni anno il “pensatore di turno” per “cambiare vestito” senza cessa, senza mai dedicarsi ad approfondire una qualche seria linea di ricerca, che sfociasse infine in qualcosa di veramente originale e di produttivo di nuova conoscenza. Li muoveva solo la smania di essere sempre sulla cresta dell’onda, con tanta spuma e niente sostanza. E ciò bastava per occupare stampa, riviste ed editoria di una classe dominante come quella italiana, notoriamente “stracciona” tanto quanto gli intellettuali che blandisce e che la servono (ma anche in Francia non si scherza!). E’ una legge notoria: i simili si cercano, si annusano e si riconoscono dalla puzza. Ve n’è anche un’altra, altrettanto nota: la moneta cattiva scaccia quella buona (Gresham)
Adesso, da qualche anno, c’è l’ulteriore furbata di “restare ammirati” dalle divinazioni profetiche marxiane, che avevano anticipato – pensate un po’ ! – la globalizzazione (mercantile) quale portato del capitalismo. Che genio questo Marx! Aveva qualche, oggi ingiustificata (non per me ovviamente), perplessità di fronte alla virtuosità della “mano invisibile”, ma era giunto alla conclusione che essa avrebbe retto l’intero gioco delle relazioni economiche internazionali, evento che si sarebbe realizzato compiutamente – sempre per certi nostri “grandi intellettuali” – nell’epoca attuale (evidentemente non ce ne siamo resi conto, ma forse tale tipo di relazioni è anche quello esistente tra Usa e Irak o Afghanistan o Iran; e pure quello tra Usa e Russia e Cina). Trattandosi di spigolature da blog, non insisto sulla stupidità di questi pensatori da “isola dei famosi” che, come già rilevato, hanno a disposizione l’intera stampa ed editoria dei dominanti per propalare le loro “spiritose invensiòn” (quelle dette da Lelio, figlio di Pantalone, nella commedia Il bugiardo di Goldoni).
“L’onnipotenza della ‘ricchezza’ è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il miglio-
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re involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito…..di questo involucro – che è il migliore – fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo”. (Lenin)
Tale passo marchia a fuoco i coglioni della sinistra attuale – ivi compresi i cialtroni ancora dediti a sputtanare il nome di “comunisti” – che trovano la loro unità nel servirsi dell’involucro suddetto per mangiare a quattro palmenti (e mangiarsi l’intero paese), gridando che, se non si comportassero così, tornerebbe la “dittatura” di Berlusconi, l’orco Tremonti sostituirebbe l’angioletto Visco e il “buon’uomo” Padoa-Schioppa. E via dicendo, in un’orgia di idiozie da parte di autentici “succhia-sangue” (di gran parte della popolazione).
Oggi, tuttavia, a correzione di quanto scritto novant’anni fa da Lenin, bisogna rilevare che la repubblica democratica – in un capitalismo non più borghese – non ha nemmeno l’aspetto (l’involucro) della democrazia; è una macchina manovrata da mignatte, incompetenti quanto prive di ogni freno nel devastare la società a loro totale beneficio. Tra la Corte delle vecchie monarchie assolute europee e i governi e parlamenti di queste repubbliche (sedicenti) democratiche corre lo stesso rapporto esistente tra una modesta pompa aspirante, di quelle usate in piccole cantine, e le idrovore delle più grandi dighe del mondo. Saprete, mi auguro, qual è il modo migliore di staccare le sanguisughe dal corpo a cui si sono appiccicate. Qualcuno dice di non saperlo? Beh, si tagliano in due con un paio di grosse forbici; ne esce tanto sangue come si fosse in macelleria, ma a quel punto si tolgono con una facilità e sollievo estremi.
III. “….che la violenza abbia nella società ancora un’altra funzione [oltre al male che essa produce; nota nel testo], una funzione rivoluzionaria, che essa, secondo le parole di Marx, sia la levatrice di ogni vecchia società gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e morte [sembra si parli dell’Italia odierna!; nota mia], di tutto questo nel sig. Dúhring non si trova neanche una parola. Solo con sospiri e gemiti egli ammette la possibilità che per abbattere l’economia dello sfruttamento sarà forse necessaria la violenza….purtroppo! Infatti [secondo lui] ogni uso di violenza demoralizza colui che la usa. E questo di fronte all’elevato slancio morale e intellettuale che è stato il risultato di ogni rivoluzione vittoriosa [perfino di quelle dentro il capitale; nota mia]. E questo in Germania [figuriamoci in Italia; nota mia], dove una violenta collisione, che potrebbe essere imposta al popolo [infatti, il popolo si è sempre solo ribellato a condizioni insopportabili; nota mia], avrebbe almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che….ha permeato la coscienza nazionale [questa affermazione va moltiplicata per cento nel caso dell’Italia; nota mia]”. (Engels)
Questo è un passo veramente importante e le giuste argomentazioni che ne trasse Lenin hanno dato luogo a tanti fraintendimenti; quasi che i comunisti marxisti siano fautori della cieca violenza, adorino il sangue, l’eliminazione fisica degli avversari (diciamo pure: nemici). Engels è molto chiaro in proposito; una collisione violenta potrebbe essere imposta al popolo. Non si cerchi di “lavorarsi” il passo a proprio uso e consumo. C’è qualcuno che, con malizia, afferma: la violenza potrebbe essere imposta al popolo ma potrebbe anche avvenire il contrario ed essere il popolo a imporre la violenza. Non è affatto questo che intendeva Engels. Egli ammetteva la possibilità – dimostratasi in tutto il XX secolo del tutto irrealistica – che il popolo riuscisse a impadronirsi del potere senza particolare violenza. E pensava esattamente che ciò fosse possibile in Germania dove, quando scriveva quelle righe, il movimento operaio era in forte ascesa; e forse anche negli Stati Uniti di allora, nelle “regioni dell’America del Nord in cui, nel periodo preimperialistico, predominava il colono libero”. Così commentò Lenin, in Stato e rivoluzione, aggiungendo però che le affermazioni di Engels risalivano al 1890 quando “l’evoluzione verso l’imperialismo … era appena ai primi albori”, soprattutto “in America e in Germania. Da allora la ‘concorrenza nelle conquiste’ ha fatto passi da gigan-
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te”; i decenni successivi furono infatti caratterizzati da un imponente “processo grazie al quale un potere statale vorace ‘minaccia di inghiottire’ tutte le forze della società”.
La possibilità che i dominanti lasciassero il potere, senza usare i più feroci metodi repressivi, veniva quindi ormai soltanto predicata, quando Lenin scrisse questi passi, dagli opportunisti alla Kautsky. Di dimostrazioni ce ne sono state quante se ne sono volute negli ultimi cento e passa anni, tra colonialismo, guerre mondiali, nuove avventure neocoloniali; e oggi basta appena appena guardarsi attorno. Usa ed Europa non fanno testo al momento perché da lunga pezza non vi è alcuna lotta per il potere da parte dei dominati (o non dominanti), bensì semplici conflitti di tipo redistributivo (non solo in termini di reddito).
Vi è però un importante accenno nel passo di Engels sopra riportato, che non va lasciato cadere. Egli ricorda che le rivoluzioni – in cui si scatena l’energia, appellata troppo genericamente violenza – imprimono alla popolazione, comunque a quote non minimali della stessa, un forte “slancio morale e intellettuale”. Questo è un punto decisivo. La violenza – malgrado si usi sempre, in contesti diversi, lo stesso termine – ha significati assai diversi a seconda di come viene impiegata e di quali sono i suoi esiti. Pensiamo alla bella espressione di Schumpeter: distruzione creatrice, che è il risultato dell’attività degli imprenditori tesi all’innovazione. Distruzione e creazione si implicano reciprocamente: impossibile creare qualcosa di nuovo se nel contempo non si distrugge il vecchio; ed è impossibile liberarsi del ben noto “mort qui saisit le vif” senza distruggere il “morto” per lasciare finalmente libero di esprimersi creativamente il “vivo”. Non insisto qui sulla metafora dello zombi, che è tuttavia a mio avviso di una chiarezza esemplare (per cui “La notte dei morti viventi” è uno dei film con maggiori implicazioni politico-sociali).
In assenza di energia, apportata dall’esterno, tutto decade a causa dell’entropia (disorganizzazione) crescente. Ma l’esterno non è detto debba essere qualcosa che viene “da fuori” rispetto all’agire di un particolare corpo (ad es. umano o sociale, ecc.); spesso è invece la consapevolezza di quell’agire, lo scopo posto a quell’agire. Il fuoco, lasciato divampare senza controllo secondo il suo andamento “naturale” e “spontaneo”, provoca solo distruzione e morte; se utilizzato con intelligenza, e senza mai “lasciare le briglie”, produce comunque effetti costruttivi; non sempre, anzi quasi mai, proprio quelli voluti da una coscienza, ma in ogni caso nuovi. Del resto, non si è parlato anche di rivoluzioni scientifiche che rompono con la scienza normale, usuale, routinaria? Il nuovo nasce sempre dall’immissione di una energia, concentrata in poco spazio e/o in poco tempo. Senza questa immissione concentrata non si ha ristrutturazione del sistema in cui essa viene introdotta; e la ristrutturazione non si verifica nemmeno se l’immissione è lenta e graduale. La novità, la creazione (che ovviamente non proviene dal nulla) implicano una certa puntualità (appunto, spazio-temporale). In fondo, l’idea del big bang mi sembra assai vicina a questa; non a caso è una singolarità, nel cui intorno non vigono le solite “leggi” della fisica; perché le leggi sono la normalità, l’usualità, la ripetitività, il contrario della creazione, della novità.
Il comunismo era sicuramente una novità rispetto alla “normale” società così come essa è conosciuta da secoli, da millenni. E’ dunque chiaro che il cambiamento doveva essere puntuale, concentrarsi in un “luogo” e in un “tempo”; solo gli opportunisti, quelli che in realtà vogliono “cambiare tutto affinché nulla cambi”, cioè ingannare con mere illusioni ottiche i subordinati, solo questi autentici filistei pensano al mutamento graduale e senza scosse; essi propugnano cioè un finto cambiamento senza concentrazione di “energia”, senza nemmeno puntare “il fuoco” su un preciso punto (il “cuore”) dell’ordinamento sociale difeso dai dominanti. Ora, questa concentrazione di energia, questa introduzione della novità in un ordine normale e usuale, questa distruzione creatrice, è precisamente esercizio di violenza, che non è affatto dunque lo scatenamento di forze cieche e primordiali come i farisei tentano di far credere. In ciò purtroppo aiutati – è necessario ammetterlo – da quei “giovanottoni” deficienti che cercano lo scontro per lo scontro, che credono di abbattere il capitalismo fracassando i suoi “simboli”. Ma se ci sono degli individui con l’encefalogramma piatto, ciò non significa che la violenza rivoluzionaria di cui parlavano i comunisti fosse moralmente esecrabile; essa era anzi il massimo dello “slancio morale e intellettuale”, era la novità, era in effetti un
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ordine nuovo (come disse uno dei pochi, direi quasi l’unico fra i comunisti italiani, che si sia dimostrato veramente grande; e non lo nomino perché non deve essercene bisogno, altrimenti povera Italia!).
Lo ripeto: la violenza (quella effettivamente rivoluzionaria) produce un ordine nuovo, non il caos movimentistico dei disadattati e asociali, che in Russia, dopo il ’17, ebbero un trattamento “di barba e di capelli”. L’energia, che una rivoluzione sprigiona, conduce ad una organizzazione del nuovo (o ad una novità organizzata, strutturata). Certo, si tratta delle intenzioni che sottendono l’estrinsecarsi di tale energia, puntualmente direzionata. E si deve avere il coraggio di ammettere il fallimento degli obiettivi prefissatisi, quando esso si palesa senza più ombra di dubbio. Tale ammissione non deve però significare la condanna della violenza (quella organizzatrice, quella che dà “slancio morale e intellettuale”), così come nessuno degli ideologi dei dominanti si sognerebbe di condannare l’attività innovativa dell’imprenditore che crea distruggendo, cioè esercitando il massimo di violenza contro i vecchi sistemi di produrre e mandando in fallimento gli imprenditori che si accaniscono nella normalità e nella gradualità. Se l’attività innovativa fallisce, mica tali ideologi (salvo i perfettamente reazionari) si mettono a gridare: non si doveva innovare, “chi lascia la via vecchia … ecc.”! Per quale motivo, allora, ciò che è lecito all’agente dominante capitalistico viene proibito al dominato che vuole un nuovo ordine (un ordine nuovo)? Il perché lo si intuisce al volo, ma non deve essere accettato.
Va legnato il “giovanottone” deficiente che crede nella “rivoluzione” come caos, come disordine, come “Movimento” (se poi è anche “Movimento dei movimenti”, le legnate debbono essere centuplicate); va criticato chi non ha ancora capito che il vecchio “comunismo” (che fra l’altro nemmeno era tale, poiché era uno sciocco e ottuso statalismo) è da consegnare ai “ferri vecchi” della storia. Ma va ribadito, come fondamento di ogni ricerca del nuovo, come autentica spinta all’esercizio di creatività, il principio della violenza rivoluzionaria (non “casinista”, cioè puramente nichilista). Sul c …. degli opportunisti, oggi quasi tutti i politici “sinistri”, andrebbe marchiata a fuoco l’affermazione di Lenin, imperitura per quanto attiene ai principi, sulla “necessità di educare sistematicamente le masse in questa – e precisamente in questa – idea della rivoluzione violenta”.
Nessun estetismo dannunziano in tale affermazione; anzi scientifica precisazione che non sussiste alcuna novità senza applicazione di energia concentrata puntualmente (spazio-temporalmente); dunque senza esercizio di violenza organizzatrice. Da tale esercizio nasce la novità, la “creazione”; non credo che i dominati (o non dominanti, comunque quelli che mai possono prendere le decisioni che più pesantemente coinvolgono la loro esistenza: individuale e sociale) debbano accontentarsi del riprodursi del normale ordine capitalistico odierno. Ovviamente, se si accontentano, inutile agitarsi e creare puro caos “marginale”. Però, coloro che non sono soddisfatti di questa società hanno diritto di fare propaganda per il suo cambiamento. E debbono dire per onestà a coloro che cercano di convincere che quest’ultimo non sarà indolore, privo di perdite per quanto più che compensate dai guadagni; per creare bisogna, appunto come disse uno studioso non comunista, distruggere. Naturalmente, è necessario ripensare sia a ciò che si vuole distruggere sia a ciò che si vuole creare (che deve essere migliore). Resta inalterato comunque il principio generale – cui “educare sistematicamente le masse” – che senza violenza, senza energia, senza “il fuoco”, non c’è alcun ordine nuovo possibile. Tutto lì! O qui!!
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