LA RUSSIA: UNA FORMAZIONE SOCIALE IN UN’EPOCA DI TRAPASSO
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1. Dopo il superamento della tragica fase di dissoluzione del modo di riproduzione sovietico – centrato sulla pianificazione statale dell’economia, quale base “materiale” di sostegno a specifiche strutture sociali e politiche – la Russia è tornata sulla scena internazionale con rinvigorite aspirazioni egemoniche, avendo altresì messo fine, in un tempo relativamente breve, alla maggior parte dei guasti accumulati a partire dai primi anni ’90, allorché assurse al potere la masnada oligarchica dei “liquidazionisti” filo-occidentali capeggiata da “Mr.” Eltsin.
Il gigante dell’est, per una lunga fase e fino all’arrivo al potere di Vladimir Vladimirovič Putin, nominato Primo Ministro dallo stesso Eltsin nel 1999, ha scontato pesantemente le conseguenze di quell’estenuante scontro bipolaristico, durato parecchi decenni, con la potenza alla guida del blocco occidentale (gli Usa), conclusosi con la vittoria di quest’ultima e con l’evaporazione di qualsiasi velleità circa la costruzione del socialismo nell’Est eurasiatico.
Proprio questo conflitto, ad intensità geopolitica “variabile”, e solo occasionalmente sul punto di sfociare in una guerra aperta e virulenta tra i due contendenti “onnimondiali”, accentuò la sclerotizzazione delle basi economiche sovietiche (sottoposte a stress continui, non essendo in grado di sprigionare la stessa dinamicità produttiva del capitalismo, tanto sul terreno degli armamenti che su quello dell’innovazione tecnologica), accelerando inesorabilmente l’ossidazione e lo sfinimento delle sue forze produttive.
Ma il grado di stagnazione di queste divenne pressoché irreversibile allorché il collante ideologico della presunta alleanza operai-contadini dimostrò di non poter operare una sintesi efficace tra concreta forma statale assunta dall’URSS e idealismo rivoluzionario comunista. Anzi, la situazione delle classi e l’allineamento sociale sul quale si fondava il blocco dominante sovietico venne definitivamente allo scoperto durante il periodo gorbaciovano, con la messa in liquidazione di tutta la “baracca” perseguita scientificamente da quelle forze che avevano preso possesso della macchina statale dell’Unione (1).
L’accumulazione socialista, che in un primo momento aveva portato l’edificio sovietico su livelli di crescita inimmaginabili, si era fondata su una pressione, al limite del tollerabile, delle città sulle campagne, sempre garantita dal controllo operaio sui processi decisionali, mentre i propositi di arginare l’influenza dei Kulaki (i contadini ricchi) sulla società rurale, cioè sullo strato dei contadini medi e poveri, solo sporadicamente ottenevano i risultati prefissati, proprio a causa dell’incapacità di modificare radicalmente i rapporti sociali tra le classi in lotta.
Quando Lenin, all’inizio della Nep, insisté sul consolidamento dell’alleanza tra gli strati inferiori della città e della campagna (la Smycka) aveva ben presente il livello dei rapporti sociali e l’andamento delle lotte di classe nella Russia post-rivoluzionaria. Da tale punto di vista, la Nep più che mera politica economica fu uno sforzo rivolto a rinsaldare l’alleanza tra queste due classi, in mancanza della quale sarebbe stato impossibile ottenere un ordine sociale ed economico di qualsiasi tipo (2).
La Russia, quindi, a prescindere dalle intenzioni della sua classe dirigente, divenne una nazione portatrice di un’architettura collettiva del tutto originale, non assimilabile al modello capitalistico occidentale di tipo “tradizionale”. Essa, tuttavia, riuscì, attraverso una proiezione ideologica efficace, a conseguire un obiettivo altrettanto grandioso (ma che col comunismo non aveva proprio nulla a che vedere): l’URSS si era infatti elevata al rango di “grande potenza avrebbe comunque mutato i ‘connotati’ (strutturali, ma in senso geopolitico e non ‘di classe’) del mondo contemporaneo” (3).
Gli Stati Uniti, ebbero successo nel piegare, seppure durante un’intera epoca storica, la formazione statale sovietica, mai realmente in grado di raggiungere gli standard di sviluppo e di vitalità del capitalismo dei funzionari privati del capitale (di matrice statunitense).
Il prezzo che l’Occidente fece poi pagare alla Russia e ai paesi della sua sfera dominante fu elevatissimo in termini di ridimensionamento territoriale, politico e, soprattutto, militare. A lungo le sorti del Paese, negli anni ’90, restarono sospese sul baratro di sanguinose esplosioni etniche e civili, alle quali non scamparono gli Stati più deboli dell’ex area sovietica, dove i conflitti e le divisioni si moltiplicarono generando una spirale inaudita di frazionamenti nazionali e di violenza fratricida.
Attualmente però, messi alle spalle i drammatici eventi del passato, la Russia del XXI secolo è tornata a giocare un ruolo da protagonista sulla scena planetaria, ancora capace di interporsi, col suo peso strategico, nella definizione degli equilibri del potere politico a livello mondiale.
Dunque, non solo potenza che sa far valere le proprie ragioni a livello regionale e continentale ma attore geopolitico di livello intercontinentale che rivendica, orgogliosamente, la sua parte di responsabilità nella gestione degli affari mondiali, nonché un ruolo conforme alla sua “stazza” negli organismi di governancesovranazionali.
Gli homines novidell’attuale establishment russo, rispetto ai quali Putin o Medvedev rappresentano, per così dire, i terminali decisionali, hanno invertito la rotta dei loro predecessori riconducendo le infatuazioni liberiste dell’immediata fase post-sovietica nell’alveo di una più cauta modernizzazione sinergicamente funzionale al modello politico-economico dirigista, costituente la caratteristica più originale della Russia contemporanea.
Il breve periodo unipolare dell’ultimo scorcio del secolo passato, decantato dai circoli militari e politici dominanti americani quale espressione di un destino manifesto e irreversibile (Manifest Destiny) della loro patria, ha trovato, nel giro di qualche anno, una barriera invalicabile nelle profonde contraddizioni geopolitiche, letteralmente esplose allorchè altri sistemi capitalistici, come quello cinese e russo, si sono rivelati all’altezza di proteggere la loro sovranità e di attivare una reazione all’ordine imperiale statunitense in espansione.
In principio, questi processi di riconfigurazione capitalistica a dominanza (statunitense) avevano assunto caratteristiche da grande narrazione rivendute a caro prezzo a quell’umanità dell’est che, sentendosi tradita dal corso degli eventi, si era fatta circuire dalla nuova ideologia della libertà “gratis” (politica ed economica) che il “nuovo secolo” riprometteva di estendere a tutti i popoli.
Tali fenomeni si presentavano sulla superficie sociale avvolti nell’aura della “grandiosa globalizzazione”, intesa quale processo di unificazione mondiale indirizzato a rinsaldare i legami tra i paesi, grazie anche alla condivisione dei medesimi valori, delle stesse procedure democratiche, della liberalizzazione dei mercati e dell’interdipendenza economica.
Ma quel che si mascherava dietro gli idoli post-moderni del globalismo venne presto a galla, allorquando alcuni Stati, non ottenendo i benefici promessi, divennero recalcitranti alle “opportunità” offerte loro dal mondo sviluppato, dovendo con ciò fare esperienza della durezza del pugno di ferro celata nel guanto di velluto delle “vellicazioni” democratiche della prima ora.
Lo spazio del conflitto è andato così infervorandosi, sebbene coperto sotto una coltre di relazioni diplomatiche “felpate”, per il presentarsi sulla scena internazionale di un gruppo di potenze che, in recupero di forza egemonica, hanno rivendicato una maggiore autonomia nelle questioni che le riguardavano.
Proprio il conflitto strategico interdominanti costituisce la caratteristica precipua della formazione globale capitalistica, in quanto esso, attraversandola in lungo e in largo, determina quella segmentazione tra gruppi sociali dominanti, posti ai vertici delle formazioni particolari (paesi e aree), che si contendono la predominanza mondiale.
Fior di analisti e commentatori a la page,dopo aver sprecato fiumi d’inchiostro nel descrivere “i vantaggi comparati” della globalizzazione, dovettero fare un dietrofront intellettuale (almeno quelli più onesti), constatando che pacificazione, distensione dei rapporti tra le Potenze e prosperità generalizzata appartenevano alle pie aspirazioni umane ma non al mondo reale (4).
Tali incantamenti, con l’inasprirsi della crisi economica, hanno finalmente perso il loro rivestimento dottrinale e hanno portato in superficie la matrice imperiale della loro primigenia messa in funzione tesa a riprogrammare ed estendere la predominanza statunitense sull’Est europeo e sull’Asia, cioè su quelle zone del globo in precedenza sfuggite all’egemonia Usa.
In queste aree del pianeta si va sviluppando una formazione sociale strutturalmente diversa da quella americana che condurrà, quasi certamente, dopo un’ulteriore fase di scontro policentrico, ad una metamorfosi radicale della formazione sociale capitalistica così come la conosciamo oggi (tenendo fermo, per il momento, il principio che le sue forme generali economiche, quelle del mercatoe dell’impresa,sopravvivranno anche nel nuovo contesto), la quale verrà soppiantata da una diversa organizzazione sociale, sia pure con caratteristiche strutturali (e culturali) specifiche nelle diverse formazioni particolari.
Uno degli errori più frequenti che si commette quando si parla della Russia odierna, uscita depressa ma non distrutta dalla fase di marginalizzazione internazionale del periodo 1991-1999, è quello di leggere la sua attuale conformazione sociale come connotata esclusivamente da un nazionalismo esasperato di tipo tradizionale. Spesso si è affermato, senza mediazioni concettuali (Hegel parlava al proposito di “furia del dileguare”), che la Russia stesse ritornando alle antiche forme di autorità, ordine ed autarchia che avevano permeato l’epoca pre-rivoluzionaria, negando con ciò dignità ad un periodo storico, 1917-1991, che, invece, va considerato quale momento gestativo di un “parto sociale” i cui effetti si stanno palesando solo adesso, a causa di uno scarto storicamente ineliminabile tra intenzioni dei soggetti agenti e concreti esiti delle loro azioni sulla realtà (eterogenesi dei fini).
Ciò che la Russia rappresenta attualmente è il risultato, storicamente non preventivabile, di un processo di palingenesi sociale iniziato proprio nel ’17. Dopo il naufragio dell’utopia del socialismo in un solo paese, sono venuti alla luce gli effetti autentici di quella trasfigurazione sociale (non più coperti dalle schermature ideologiche della lotta classe e dal solidarismo proletario internazionale) che hanno fatto della formazione russa, benché anch’essa imperniata sui capisaldi dell’impresa e del mercato (5), un sistema politico in grado di produrre “potenza” e di scontrarsi con chi ha interessi contrapposti ai suoi. Dice al proposito La Grassa:
“La formazione detta socialista compì in realtà una accelerata accumulazione originaria sulla base di ‘strutture’ tipiche della sfera economica capitalistica, impresa e mercato, compresse e soffocate ma non invece trasformate dal potere centrale convinto di ‘costruire il socialismo’ – prima con metodi duri e violenti, poi attenuati, infine supposti democratici con Gorbaciov che invece liquidò il tutto, ecc. – come comprese nella sostanza Bettelheim, pur cedendo poi anche lui all’illusione gorbacioviana … Cadute le ‘strutture’ della sfera politico-ideologica presunta ‘socialista’ (in quanto pretesa ‘prima fase’ del comunismo), e passato un periodo (non credo ancora del tutto superato) di burrascoso arretramento e poi assestamento, ci avviamo adesso in direzione di una nuova formazione sociale, tutta da studiare – del resto è ancora da conoscere a fondo quella dei funzionari del capitale, la ‘sostituta’ del capitalismo borghese – che sarà un intreccio particolare tra ‘strutture’ economiche di tipo capitalistico e quelle soprattutto politiche di tipo dirigistico. Una formazione che gli ideologi dei dominanti ‘occidentali’ pensano transitoria, perché sono ancora convinti di poter imporre, con le finanziate ‘rivoluzioni colorate’, la loro ‘democrazia’; seguita nelle nuove formazioni da minoranze, pericolose ma destinate a rimanere tali e a deperire man mano che diminuirà la prevalenza politico-militare del centro (Usa) del capitalismo più ‘tradizionale’ e ci si immetterà, tramite un periodo di transizione caratterizzato dallo sviluppo ineguale, verso una fase policentrica.
Un’ipotesi ugualmente interessante, anche se più accademica, è quella espressa da Sandro Sideri (6) sui processi di transizione apertisi dopo l’implosione dell’Urss.
Per quest’ultimo, con la decomposizione dell’Unione Sovietica il paese si è avviato lungo tre direttrici di cambiamento. La prima riguarda il poderoso ridimensionamento geopolitico, in quanto da potenza mondiale la Russia ha dovuto ricalibrare la propria strategia e ripensarsi quale media potenza o potenza regionale con una popolazione di non più di 140 milioni di persone (dai 350 milioni dell’era sovietica).
La seconda direttrice attiene alla riconfigurazione economica ed al passaggio, tutt’altro che indolore, dall’economia autarchica e pianificata ad un’economia capitalistica integrata con quella del resto del mondo.
La terza concerne, invece, il mutamento della prospettiva ideologica, da paese comunista con una missione storica di rovesciamento del capitalismo a paese con un diverso modello di sviluppo non direttamente ricollocabile nella tipologia capitalistica occidentale. Come si può notare, anche Sideri coglie, dunque, la diversità della formazione sociale russa che si è risollevata dagli errori precedenti non limitandosi ad importare pedissequamente i modelli occidentali ma spingendosi ad elaborare soluzioni più congeniali alla sua storia.
Le tre transizioni in corso generano, ovviamente, forti tensioni sociali, politiche ed economiche ma stanno producendo, contemporaneamente, soluzioni innovative, grazie al razionale bilanciamento tra modelli apparentemente antitetici: il dirigismo statale (che caratterizza le decisioni politiche anche in senso economico) si coniuga qui con la libertà d’intrapresa privata (che garantisce grande dinamicità delle forze produttive nel fondo di più moderni rapporti di produzione).
L’autore commette tuttavia l’errore, al pari della maggior parte degli analisti, di concepire la costruzione statale di questo paese come forgiata da un’inclinazione metastorica del popolo russo a sottoporsi alla decisioni coercitive di uomini forti che incarnano aspirazioni imperiali. Per questo, di fronte alle crescenti tensioni sociali, provocate da diversi fattori (7), i russi reagirebbero chiedendo l’intervento di un governo autoritario che però sarebbe da ostacolo alla modernizzazione delle strutture statali in senso pienamente liberale. In verità, si tratta di una lettura macchiata di “etnocentrismo” laddove non è accertato che l’architettura liberale garantisca, in ogni caso, il miglior equilibrio tra poteri dello Stato e dispiegamento della loro azione sulla società civile.
Sarebbe dunque il momento di sfatare questa mitologia sostenendo, molto più prosaicamente, che lo Stato di diritto potrebbe non essere una risposta universale (o esportabile) alla quale tutti i decisori nazionali devono necessariamente piegarsi. Questa visione omologante non è, peraltro, “innocente” e cela la volontà dell’Ovest di ricondurre su un terreno di regole già definite e non emendabili quelle formazioni sociali potenzialmente pericolose per un determinato assetto mondiale.
2. Indubitabilmente, la Russia ha basato la sua rinascita politica ed economica sulle prospezioni di gas e petrolio, sui dotti costruiti per trasportare tali risorse, per terra e per mare, e sulle rendite energetiche che è riuscita ad ottenere grazie al grande bisogno di idrocarburi dei suoi vicini, Europa in primo luogo. Questa è stata l’indispensabile base materiale che ha fornito “propellente” alla strategia politica della nuova Russia.
Ma tali iniziative economiche hanno avuto successo perché collegate ad un disegno politico di grande lungimiranza con il quale l’establishment del Cremlino ha ridato speranza a tutto il paese, dopo i depredamenti messi in atto dalla casta oligarchica eltsiniana salita ai posti chiave dello Stato con il golpe del ’91-‘92.
Come ha ben detto Carlo Jean (8), Putin ha salvato la Russia dal caos, ha ridato forma alle strutture del potere statale (facendosi assistere da un entourage di fedelissimi silovikiprovenienti dal KGB) ed ha saputo proiettare il paese sullo scacchiere geopolitico mondiale, con tutto il peso della sua storia.
Il cambio di guardia alla presidenza del paese – dopo le elezioni del maggio 2008 (con Putin tornato a fare il primo ministro come nel 1999) che hanno consacrato Dimitri Medvedev sul gradino più alto dello Stato – non ha interrotto la continuità delle scelte strategiche della Russia.
Il neo presidente, benché distante dagli ambienti che hanno istruito l’ex KGB Putin, prosegue sulla stessa strada di scelte politiche orientate al pragmatismo grazie alle quali il Paese ha voltato pagina per ridiventare una grande potenza mondiale.
Tutto ciò indispettirà pure quegli intellettuali europei e americani che avevano voluto interpretare la staffetta Putin-Medvedev come un cedimento, su posizioni filo-occidentali, dei poteri costituiti russi, ma per quanto il linguaggio diplomatico di Medvedev risulti più aperto e disponibile di quello del suo predecessore, nella sostanza i capisaldi strategici sui quali si è articolata l’agenda politica della nazione non sono mai stati in discussione (9).
Medvedev non ha mutato prospettiva rispetto a quanto fatto da Putin in questi anni, la sua diplomazia verso l’esterno resta focalizzata sulla tessitura di relazioni a geometria variabile, spesso sfocianti in accordi bilaterali con i singoli stati, soprattutto in Europa, al fine di aggirare quelli scogli pseudovaloriali (assimilabili a puri pretesti ideologici: democrazia, diritti umani e civili ecc. ecc. (10) ) attraverso i quali l’UE o gli altri organismi internazionali hanno sinora limitato il coinvolgimento della Russia nelle decisioni più importanti, accusandola di non essere compatibile con lo Stato di diritto vigente nel “mondo civilizzato”.
Questo comportamento dell’occidente ha maggiormente avvicinato Mosca agli altri paesi dell’ “ostracismo umanitaristico”, Therean, Bejiing, Pyongyang, Caracas nonché ad alcuni regimi africani ecc. ecc., che cominciano a intrattenere rapporti più saldi tra loro, spesso sanzionati dalla creazione di organismi di cooperazione sulla sicurezza, sull’economia, sulla cultura (vedi la Shanghai Cooperation Organisation), con i quali questi attori dimostrano di saper sostenere mutuamente i propri interessi respingendo i “cattivi” intenti di isolamento della comunità internazionale.
In questa fase non è pensabile, né per la Russia, né per l’Europa e tanto meno per gli Usa, slegare le rispettive scelte strategiche dalle direttrici energetiche in quanto esse rappresentano la via più agile per la securitizzazione della propria sovranità in termini politici ed economici. Se per gli Stati Uniti le manovre riguardanti i gasdotti e gli oleodotti hanno uno scopo offensivo e di limitazione dell’influenza di Mosca sui paesi del suo “estero prossimo” e su quelli dell’Asia Centrale, per il Cremlino si tratta invece di proteggere quella sfera d’influenza senza la quale non è possibile sprigionare alcuna potenza politica o economica, necessaria per affrontare la fase policentrica in avanzamento.
Questi indirizzi strategici si approfondiscono, inoltre, man mano che la lotta tra le potenze si fa più acuta e “multipolare”. Ciò produce gravi sconvolgimenti degli assetti sociali che mettono in atto dinamiche articolate, con quelle economiche e finanziarie che prendono il davanti della scena. Ma quest’ultime non sono quelle decisive per raggiungere la massa critica indispensabile all’espressione della potenza di una formazione sociale. Citando ancora La Grassa: “Occorre la politica – applicata ampiamente nella stessa sfera economico-finanziaria, ma non affatto in questa soltanto – poiché si tratta della principale attività quando si debbano realmente spostare i rapporti di forza fino a “farli pendere” dalla propria parte” (11).
Per questo i poteri costituiti russi puntano a rafforzare un mercato energetico da far agire in sintonia con l’agenda politica della nazione. Quest’ultimo sistema risulta inoltre utile per puntellare la propria sfera strategica “naturale”, imponendo al proprio vicino prossimo, seppure per via economica, una dipendenza politica elevata.
Le ragioni della Russia si fanno tanto più evidenti quanto più gli Usa cercano di debilitare il suo ascendente ad est. Dopo le rivoluzioni colorate in Serbia (2000), in Georgia (2003), Ucraina (2004-2005) e Kirzighistan (2005), senza tener conto degli innumerevoli tentativi di destabilizzazione in Transcaucasia (dove si concentrano cruciali attraversamenti di oleodotti e gasdotti) ultimamente le tensioni sono cresciute anche nei territori centroasiatici con gli Usa ad agire da provocatori, alimentando vecchie e nuove divisioni tra quelle popolazioni. Mosca e Pechino, che su quell’area nutrono interessi geostrategici vitali stanno facendo, al momento, fronte unito contro il comune pericolo (12).
Gli episodi di accerchiamento, insieme alle “provocazioni” di guerra (è il caso dell’attacco Georgiano contro l’Ossezia meridionale dell’agosto dello scorso anno) hanno convito le teste d’uovo del Cremlino ad attivare programmi di sicurezza capaci di opporre una risposta effettiva ed immediata alle manovre di accerchiamento e di destabilizzazione promosse da Washington. L’ultimo documento strategico è stato approvato Presidente Medvedev nel maggio del 2009 e contiene previsioni e scenari sulla sicurezza nazionale per il prossimo decennio.
Il documento, come si apprende da un articolo di Rokas Grajauskas (13) (Analista del Centre for Eastern Geopolitical Studies, Lituania) è stato redatto, in gran parte, dal Segretario del Consiglio di Sicurezza Nicolai Patrushev. Esso apporta interessanti novità rispetto al precedente rapporto strategico del 1997, aggiornato successivamente nel 2000.
Certo non mancano alcune concessioni di “codice linguistico” nei confronti della comunità internazionale, almeno nella parte in cui si accetta il principio per cui lo Stato s’impegnerà a sviluppare la democrazia e le potenzialità della società civile ma, pur sempre, alla “maniera” russa. Si afferma cioè che tali obiettivi non potranno prescindere dal rafforzamento della sicurezza interna, rispetto alla quale tutto il resto dovrà essere embricato. Questo concetto è stato sintetizzato con l’espressione “sicurezza tramite lo sviluppo”.
La strategia del Cremlino definisce le misure per fare fronte, con scadenze temporali di breve (2012), medio (2015) e lungo (2020) termine, a tutti gli obiettivi, alle minacce, ai compiti storici che il gruppo dirigente del paese potrebbe trovarsi davanti.
Inoltre, il principio della sicurezza viene associato ad uno sviluppo stabile, indirizzato ad elevare il tenore di vita delle persone attraverso il consolidamento delle strutture finanziarie ed economiche della nazione. Ulteriori parti vengono dedicate all’innovazione scientifica, alla cultura, alla sanità e all’ambiente.
Dal punto di vista della strategia verso l’esterno il documento si fa più severo poiché il Cremlino percepisce come una grave minaccia alla stabilità mondiale la prosecuzione di una strategia unilaterale e unipolare da parte della Casa Bianca, laddove gli equilibri internazionali si orientano al multipolarismo. In particolare, viene denunciata l’opzione volta all’accrescimento di una supremazia militare, soprattutto nucleare, da parte degli Usa conformemente all’attivazione di progetti attinenti ad infrastrutture militari di tipo “invasivo”, come lo scudo antimissile che gli stessi statunitensi intendono dislocare tra Polonia e Repubblica Ceca.
In questo senso, anche i tentativi della Nato di allargarsi ad altri paesi dell’est costituiscono per Mosca un grave affronto alla luce del suo impegno per l’attuazione di una governancemondiale salda (avendo già offerto il proprio contributo alla lotta al terrorismo, a quella ai cartelli internazionali della droga, del contrabbando ecc, ecc.), in ottemperanza al principio della mutua cooperazione tra est e ovest. Pertanto, gli strateghi russi ritengono inaccettabili i dislocamenti di strutture militari sulle loro frontiere, così come le prove di forza intraprese dall’Alleanza Atlantica, miranti a tenere anacronisticamente in vita un sistema di sicurezza mondiale, a guida statunitense, superato dalla stessa realtà dei rapporti di forza mondiali.
Ugualmente pregnanti risultano le strategie disegnate circa le priorità che la politica estera russa dovrà prefiggersi, soprattutto in materia di rapporti bilaterali e multilaterali con gli Stati che fanno parte del Commonwealth of Indipendent States (CIS) e con gli altri paesi della sua sfera egemonica “naturale”. Mosca sta promuovendo una integrazione regionale e sub-regionale attraverso una serie di organizzazioni come la CSTO (Collective security Treaty Organiztion) e la Ceea (Eurasian Economic Community) per fondare relazioni più friendlycon i suoi vicini.
Questi strumenti rappresentano un tentativo di integrare e di far coincidere, strettamente, istanze di natura geoeconomica e strategie geopolitiche, finalizzate ad elevare il livello della sicurezza regionale, tanto in ambito politico-militare che economico-finanziario.
Mosca starebbe affrontando le questioni economiche secondo un approccio geopolitico “classico” definito da alcuni commentatori sostanzialmente tradizionale e superato: “un potente centro che esercita un controllo sovrano su un territorio ed è pronto ad espandere la propria influenza sugli altri” (14). Un siffatto sistema di valori (controllo sulle imprese di Stato nei settori chiave e acquisto di assetsstrategici sui mercati esteri) è ritenuto fortemente arcaico rispetto “alle forze che attualmente determinano la crescita economica”.
Ciononostante, è innegabile, almeno basandosi sui risultati sin qui ottenuti, che il dirigismo statale ha garantito a Mosca la difesa delle sue prerogative nazionali e di potenza (quanto meno regionale), laddove la pedissequa accettazione delle regole del libero-mercato, nel recente passato, ha, invece, spalancato le porte agli interessi stranieri con conseguente colonizzazione e depauperamento della sua economia.
Tanto più che, anche nel caso in questione, stiamo parlando di un’area sottoposta a forti pressioni esterne dove gli elementi economici, in virtù di un sottosuolo ricco di idrocarburi, veicolano interessi geopolitici legati alla sicurezza. Si tratta di zone dove la concorrenza sulle fonti energetiche e gli approvvigionamenti scatena gli appetiti delle potenze mondiali, richiedendo l’attivazione di opzioni strategiche adeguate (al livello dei rapporti di forza internazionali) e investimenti colossali che non possono essere materia per le singole imprese private. Detto altrimenti, il businessè qui possibile solo se la profittabilità economica è reciproca e non va a ledere gli interessi nazionali, quindi nulla di più distante dalle regole del mercato capitalistico “ideale”. Non per niente, nel documento strategico vengono annunciate maggiori risorse per la modernizzazione delle truppe alle frontiere e per prepararsi ad un possibile conflitto militare. Le frontiere in questione sono quelle del Kazakhstan, dell’Ucraina, della Georgia e dell’Azerbaigian ma anche quelle dell’Artico, del Caspio e dell’estremo oriente russo (LOR).
La volontà di Mosca è orientata alla definizione di una politica estera e di sicurezza nazionale flessibile e multivettoriale. La Russia è consapevole che il controllo sulle fonti energetiche e la fame di risorse dell’occidente apre spazi di manovra inaspettati. Si deve, pertanto, convertire questo potenziale economico nell’esercizio di una maggiore influenza internazionale. Mosca si impegna a fortificare la capacità politica della SCO (Shangai Cooperation Organization) (15) e “prende le misure necessarie a rinforzare la mutua fiducia e il partenariato con l’Asia Centrale”.
La cooperazione con la Cina è essenziale per il pieno dispiegamento di detta strategia multivettoriale, il “mercato” della sicurezza dovrà, infatti, aprirsi alla cooperazione in seno alla SCO incoraggiando l’organizzazione ad accollarsi maggiori responsabilità e funzioni operative in materia di partecipazione politica e difesa comune.
Inoltre, le relazioni diplomatiche tra Russia e Cina si stanno mettendo su binari di intesa eccellenti, dopo le diatribe dell’era sovietica, sospinte dal comune interesse dei due partner a ridurre al minimo le occasioni d’instabilità nell’area asiatica, sulle quali potrebbero installarsi competitorgeopolitici pronti a sfruttare qualsiasi debolezza per scalare posizioni di privilegio.
Sono in gioco unità nazionale e integrità territoriale più volte messe a repentaglio da sommosse, come l’ultima nello Xinjiang, dietro le quali agiscono nemici di ogni provenienza. E non potrebbe essere diversamente poiché, per quanto queste regioni possano ritenersi periferiche, la loro ricchezza di materie prime (gas naturale, petrolio, carbone, ferro) le proietta al centro del palcoscenico economico e (geo)politico globale.
I rapporti sempre più distesi e collaborativi tra l’orso russo e il dragone cinese rinvengono da un reciproco riconoscimento dei vantaggi e del potenziale che entrambe saranno in grado di esprimere, nel medio e lungo periodo, sullo scacchiere internazionale, con particolare riferimento alla condivisa area territoriale euroasiatica.
Se la Cina appare in vantaggio dal lato economico e nella capacità di sviluppare le forze produttive, procedendo speditamente nella sua fase di accumulazione capitalistica, la Russia riesce a condensare una visione globale e strategica, in campo militare e geopolitico (frutto della sua storia di superpotenza mondiale) che ai cinesi difetta ancora. Quindi la collaborazione tra i due paesi, nell’ottica degli assetti mondiali, risulterà estremamente proficua, con le strategie economiche che s’intrecceranno inestricabilmente a quelle politiche e militari. La necessità di securitizzare il settore energetico, porta in auge il ruolo dei rispettivi eserciti la cui collaborazione è indispensabile per arginare la penetrazione americana nella regione. Ciò potrebbe spingere i due paesi ad oltrepassare i limiti della collaborazione per incamminarsi nella direzione di una vera e propria alleanza strategica antimonocentrica.
Il documento elaborato dagli strateghi russi mette, difatti, l’accento sulla crescente importanza dell’energia negli affari internazionali. La competizione per le risorse farà crescere esponenzialmente la possibilità dei conflitti sui vari scenari dove queste risultano più abbondanti.
In particolare, la Russia, dovrà concentrare tutti i suoi sforzi per abbracciare con la sua influenza regioni e “zolle” continentali che vanno dall’Artico all’Asia centrale.
Per la prima volta un rapporto di questo tipo afferma anche l’interesse della Russia su una regione come l’Artico, portata così nell’occhio della contesa internazionale.
Oltre alla Russia vantano diritti sull’Artico paesi come Canada e Danimarca i quali hanno già contestato ai russi la proprietà territoriale della dorsale Lomonosov.
Il Consiglio di Sicurezza russo ha definito le prospezioni per la ricerca di petrolio e gas nell’Artico come un obiettivo nazionale primario ed ha lanciato avvertimenti contro chiunque intendesse limitare questo suo diritto: “In a competition for resources it cannot be ruled out that military force could be used to resolve emerging problems that would destroy the balance of forces near the borders of Russia and her allies” (16). Al fine di dare corso concreto alle sue intenzioni Mosca sta già predisponendo un struttura militare speciale (Il gruppo armato dell’Artico) per difendere le sue prerogative in questa regione dove sono concentrati giacimenti petroliferi per 90 mld di barili (pari al 13% delle riserve mondiali non sfruttate) e 47 trilioni di metri cubi di gas (pari al 30% delle riserve di gas non utilizzate nel mondo).
Un ulteriore tema affrontato nel documento strategico attiene all’evoluzione dell’esercito nella concezione russa della sicurezza nazionale. Secondo i vertici russi occorrerà ridefinire e trasformare le strutture delle forze armate, pur non alterando la capacità strategica nucleare del paese, al fine di migliorare la struttura organizzativa delle forze terrestri e accrescere il numero di truppe in allarme permanente.
Queste iniziative seguono quanto predisposto col piano di riforma militare avviato a metà del 2008. In seguito alla guerra con la Georgia, i quadri responsabili della difesa russa hanno annunciato di volersi impegnare per un ambizioso programma d’ammodernamento da attuare entro il 2020, implementando un sistema militare più efficace e operativo. Tali proponimenti gettano le basi della nuova dottrina militare della Federazione. L’impianto di quest’ultima prevede di mantenere le forze nucleari ad un livello d’allarme elevato pur proseguendo sulla strada della riforma del sistema militare. La riforma contempla, infine, la riduzione del numero delle truppe, da riorganizzazione in una struttura più snella e a costi ridotti, senza tuttavia allentare l’impegno per il riassorbimento dei vari conflitti regionali.
3. Mosca si sta inserendo con efficacia nella maggior parte degli scenari mondiali, approfittando dell’attuale debolezza degli Stati Uniti e della crisi economica. Proprio quest’ultima rimescola le carte dei rapporti tra gli Stati e apre margini di collaborazione tra quelle nazioni che hanno subito le regole dell’ordine mondiale ma che ora non sono disposte a pagare il maggiore scotto della caduta dei suoi pilastri fondamentali.
Si tratta, per i russi, di tornare a contare in quelle aree del pianeta dalle quali si erano ritirati dopo la caduta dell’Unione Sovietica o in quelle a loro precluse in quanto rientranti, nella fase dello scontro bipolare Usa-URSS, nella sfera d’influenza americana.
Tra queste, rivestono particolare importanza l’America Latina, trascinata dal vento neobolivarista e neopopulista di Chavez, e quelle dell’Africa settentrionale e sub-sahariana.
Ci concentreremo soprattutto sul rinnovato interesse di Mosca per quest’ultimo continente, ricco di risorse naturali e con grandi potenzialità di crescita economica, sul quale stanno premendo anche altre potenze emergenti come Cina, India e Brasile.
Non siamo di fronte ad un nuovo scrambledell’Africa, condotto, questa volta, per via prettamente economica, almeno per quanto riguarda le potenze appena richiamate. Queste, difatti, stanno dimostrando di voler stabilire con il continente nero relazioni libere da fardelli ideologici e da pretestuose limitazioni umanitaristiche (arma usata soprattutto dai paesi occidentali per prendere risorse a contropartite ridotte o “condizionate” politicamente), basandosi su una logica di convenienza biunivoca del tipo win-win.
Il continente africano aveva occupato un posto di rilievo nelle strategie sovietiche, e molti dei suoi regimi, nell’era dei blocchi contrapposti, si erano schierati con l’Urss per motivi ideologici.
In cambio di questo appoggio l’Unione sovietica riforniva di armi e di assistenza logistica le nazioni amiche, benché i ritorni finanziari non fossero elevati, anzi tutt’altro.
In questa ottica, non mancavano nemmeno i doni del popolo lavoratore dell’est ai lavoratori africani (per lo più trattori e attrezzi per l’agricoltura, come quelli offerti agli angolani e finalizzati a rinsaldare l’internazionalismo proletario). Anche se questo tipo di solidarietà, fondata sull’adesione ai principi del socialismo, appare oggi superata, la Russia ha un grande vantaggio da far valere nelle relazioni con questa parte di mondo. Essa è difatti estranea a quel passato colonialista col quale altri paesi come Usa, l’Inghilterra o Francia devono ancora fare i conti.
Purtroppo, negli anni ’90, una Russia sempre più depressa e in preda a convulsioni ultranazionalistiche, come quelle fomentate da uomini politici alla Zhirinovsky, aveva impropriamente finito per addebitare le defaillance economiche dello Stato ai costi relazionali non convenienti con l’Africa ed altre zone del cosiddetto Terzo Mondo.
La prima visita ufficiale, dopo la dissoluzione dell’Urss, in Africa è stata quella dall’ex Presidente Putin nel 2006. L’ex uomo del KGB si era recato a Città del Capo per incontrare il suo omologo Thabo Mbeki (il cui mandato è scaduto nel 2008), insieme al quale furono gettate le basi per relazioni simmetriche tese al raggiungimento di accordi commerciali, soprattutto in materia di energia e fonti primarie.
Gli interessi della Russia in Sud Africa sono più che giustificati se si considera il sottosuolo minerario di questo paese: l’80% delle riserve di manganese del pianeta oltre alle enormi riserve di platino, rame, cobalto ecc. ecc.
Tuttavia, la stampa mondiale e quella europea in particolare hanno dato maggiore risalto al periplo in terra d’Africa compiuto, nel giugno 2009, dall’attuale Presidente D. Medvedev, che si è conquistato le prima pagine dei giornali e delle riviste specializzate le quali hanno parlato, con enfasi capziosa, di riconquista del continente da parte dei russi.
Medvedev, si è recato in visita ufficiale in alcuni paesi africani, già legati all’ex-URSS, precisamente in Egitto (17) (mediterraneo orientale), in Nigeria, Namibia, Angola (stati dell’Africa sub-sahariana) portando con sé un messaggio di speranza e di cooperazione: compito dei governi è quello di promuovere lo sviluppo industriale e nuovi legami economici per il bene dei popoli.
Per la Russia e per l’Africa queste istanze si radicano su un terreno di leale reciprocità poiché i rapporti tra la potenza riemergente dell’est e il sud del mondo non appaiono perturbati dai fantasmi coloniali del passato, né gli africani possono lamentare la depredazione delle loro ricchezze naturali da parte dei russi come, invece, deplorano alla maggior parte dei paesi occidentali.
Questi presupposti permettono di allargare la piattaforma cooperativa sulla quale i due popoli potranno incontrarsi, stringendo intese diplomatiche e accordi commerciali redditizi. Le relazioni russo – africane, in prospettiva, potranno dinamizzarsi anche in virtù del coinvolgimento del continente nero sui temi all’ordine dell’agenda politica internazionale, cioè la stabilità e la sicurezza mondiale.
L’ approccio russo finalizzato al ritessimento dei rapporti con l’Africa, sulla scia di quanto già fatto dai cinesi, è stato di tipo pragmatico, a cominciare dalle politiche amichevoli per la riduzione del debito. Solo tra il 1998 e il 2002 la Russia ha dato un colpo di spugna a circa 11,3 miliardi di crediti vantati nei confronti di alcuni Stati africani e ha proseguito su questa strada anche negli anni recenti, riducendo il debito algerino per 4,7 miliardi e quello libico per una cifra quasi uguale, quale prova di buona volontà tesa a solidificare e rinnovare i patti economici con questi paesi.
Inoltre, agli stessi vengono accordati privilegi commerciali, vedi quelli sull’esenzione tariffaria dei prodotti esportati in Russia, che, tuttavia, non sempre procurano reali vantaggi agli africani in quanto i loro beni non si prestano ad essere diffusi su larga scala.
Ciò non toglie che i movimenti della Russia sul continente africano cominciano a preoccupare l’Occidente che ha manifestato una certa inquietudine per questa presenza sempre più ingombrante. L’agitazione si fa caustica per l’intraprendenza di Mosca che, a detta dei governi europei, starebbe mettendo le mani sulle risorse energetiche del continente sviluppando al contempo fortissime cointeressenze geopolitiche, come dimostrato dai legami sempre più stretti attivati con Algeria e Libia.
Allorché la comunità internazionale ha cancellato la Libia dalla lista degli Stati canaglia (rogue states) Mosca si è riavvicinata, così come l’Italia del resto, al paese del colonnello Gheddafi. Gli obiettivi fondamentali del Cremlino sono sostanzialmente due: rinsaldare un’alleanza politico-militare ed economica interrottasi nei primi anni ’90 ed inserirsi sul ricco mercato degli idrocarburi libico.
Sul primo versante, il paese nordafricano ha dichiarato di voler rinnovare i suoi armamenti e Mosca si è fatta avanti per questa commessa del valore di 2 miliardi di dollari, strappando a Gheddafi anche un’intesa di massima per l’istallazione di una futura base navale in Libia. La richiesta libica per lo svecchiamento del proprio arsenale militare ha aperto la strada all’impresa di Stato russa Rosoboronexport, leader nel settore degli armamenti. Sul secondo versante, invece, aumentano i contratti e le intese per lo sfruttamento delle risorse energetiche (petrolio e gas) tra Noc e Gazprom.
L’Algeria, ha intensificato la collaborazione con Mosca a partire dal 2001, allorché il presidente Abdelaziz Bouteflika, in visita ufficiale a Mosca, siglò un accordo di partenariato strategico che aveva come scopo quello di rilanciare le relazioni bilaterali tra i due paesi. Questo summit fu anche l’occasione per annunciare l’ammodernamento dell’equipaggiamento militare algerino risalente al periodo della Guerra Fredda. Anche in questo caso sono stati messi sul banco accordi importanti nel settore degli idrocarburi.
Il gigante energetico russo Gazprom si avvantaggia dell’azione del suo establishment politico per stringere alleanze commerciali e collaborazioni tecniche con le imprese equivalenti di questi paesi. L’Ue e gli Usa sentono “puzza” di cartello in queste iniziative, alle quali partecipa molto attivamente anche la nostra Eni, e lanciano i soliti alti lai contro il tradimento dei principi del libero mercato globale. Questo atteggiamento ipocrita contrasta però con le misure anticrisi ultimamente adottate dai principali governi occidentali, i quali, di fronte alla debacle finanziaria, hanno sospeso, senza troppe remore, le regole del mercato facendo intervenire la mano “visibile” dello Stato per tirare fuori dai guai imprese e banche economicamente fallite.
L’Algeria e la Libia, sono fra i maggiori fornitori di gas naturale e petrolio all’Europa che già dipende dai tubi russi per gran parte del suo fabbisogno. A causa di questa soggezione l’Ue è in allarme e sta tentando di impedire la costituzione di un monopolista internazionale delle risorse energetiche, una sorta di OPEC del gas, che potrebbe condizionare le sue capacità di sviluppo o esercitare pressioni sulle sue scelte politiche.
Tra i paesi arabi del Nord Africa la Russia, come anticipato, ha detenuto e detiene rapporti molto stretti con l’Egitto. Vecchio cliente dell’Unione Sovietica, negli anni ’80 l’Egitto si è avvicinato agli Stati Uniti riconciliandosi anche con Israele, provocando per questo grandi dissensi nel mondo musulmano.
Nonostante la presenza di Washington, l’Egitto continua però a costituire un mercato profittevole per la Federazione Russa. Gli scambi riguardano innanzitutto armi e tecnologie nucleari. Nel 2004 Putin e Moubarak hanno apposto la loro firma su un accordo per la costruzione di reattori e di centrali nucleari nel paese delle piramidi, da sviluppare integralmente con tecnologia russa.
Ovviamente, anche in questa nazione oltre alle lucrative commesse militari, Mosca mantiene forti interessi nel campo delle fonti energetiche: Lukoil e Gazprom effettuano prospezioni per la ricerca di petrolio e di gas nel sottosuolo egiziano.
L’Egitto è stato il primo paese toccato da Medvedev nel suo recente viaggio e diversamente non poteva andare considerando che la Russia ha un volume di scambi con Il Cairo pari a 1,7 miliardi di dollari, tanto che il presidente russo e il suo omologo egiziano si sono convinti a stipulare un accordo per la creazione di una zona di libero scambio al fine di facilitare i loro commerci.
La seconda tappa è stata invece in Nigeria, nazione con la quale si sta cercando di realizzare una solida cooperazione energetica. Questo paese, membro dell’OPEC dal 1970, è il 5° produttore dell’organizzazione e il 10° a livello mondiale. Possiede copiosi giacimenti di gas per cui quasi spontaneamente si è rivolto a Gazprom, il primo esportatore mondiale di tale risorsa, per lo sfruttamento del suo territorio.
Gazprom e la compagnia nazionale nigeriana hanno costituito una joint-venture che s’impegnerà ad effettuare investimenti per 400 miliardi di dollari nella costruzione di un gasdotto di 360 km che collegherà il delta del Niger alla parte nord del paese. Si tratta, tuttavia, di una zona di forti conflitti che chiamerà le parti ad un abile lavoro di controllo e di messa in sicurezza dell’intera area per far procedere speditamente i lavori e garantire la massima efficienza delle estrazioni.
La terza sosta di Medvedev è stata in Namibia, nazione che rientra tra i clienti commerciali principali della Cina. Qui sono stati previsti grandi investimenti per la costruzione di una centrale a gas che esporterà l’elettricità verso l’Africa del sud. Il progetto sarà finanziato da Gazprombank e dalla compagnia petrolifera nazionale Namcor. Infine, è stato firmato un protocollo tra l’agenzia russa della pesca e il ministero namibiano delle risorse marittime per permettere alle navi russe di inoltrarsi nelle generose acque oceaniche di questo paese.
Con la fine della guerra civile, nel 2002, l’Angola ha registrato tassi di crescita invidiabili ed esorbitanti (18% nel 2005 e 26% nel 2006). Questo Stato che ha una fiorente industria diamantifera è il primo partner commerciale della Cina. Medvedev ha fatto scalo sul territorio angolano, quale quarta tappa del suo viaggio, promettendo di contribuire alla modernizzazione dei differenti settori industriali del Paese. In primo luogo, quello delle telecomunicazioni con l’Angola che prevede di lanciare nello spazio, tra qualche anno, un suo satellite chiamato Angosat. L’Angola, oltre a detenere il monopolio dell’estrazione diamantifera, cosa che ha spinto l’impresa russa Alrosa ad installare una sua succursale a Luanda, vanta un’industria petrolifera in piena espansione.
Dal 1 gennaio 2007 l’Angola è diventato il 12° membro dell’OPEC ed è il 2° produttore di petrolio in Africa dopo la Nigeria. A causa dei gravi conflitti che hanno attraversato la società angolana, fino agli anni recenti, le sue risorse energetiche sono state trascurate e sottoutilizzate ma le scelte strategiche dell’establishment del paese africano, che ha puntato sulla ricchezze del sottosuolo per la rinascita dell’economia, si sono rivelate ottimali. La via della nazionalizzazione del patrimonio energetico (a partire dal settore petrolifero) con affidamento dello sfruttamento e della commercializzazione ad imprese di Stato, porta grandi risultati ed evita i problemi di sovrapposizione e di anarchia mercantile che, ad esempio, affliggono la Nigeria dove l’instabilità è accentuata dalle dispute tra multinazionali straniere, dalla corruzione del governo federale e dalle azioni dei pirati del MEND.
A partire dal 2003 la produzione di greggio è letteralmente decollata (900 milioni di barili al giorno) per toccare cifre impensabili, solo qualche anno prima: nel 2005 1,4 milioni di barili, nel 2006 2 milioni di barili, mentre per il 2011 si prevede un ulteriore incremento fino a 2,5 milioni di barili.
Solo si tiene conto del fatto che la Russia sta affrontando questa difficile partnership con l’Africa mentre incombe una pesante crisi finanziaria (che riduce, e di molto, la profittabilità degli investimenti e degli scambi) si può cogliere la portata strategica di questo riavvicinamento, non esclusivamente conchiuso sugli aspetti commerciali.
L’allargamento della cooperazione geografica in Africa costituisce un investimento “politico” per i russi, anche in previsione del ruolo che questo continente potrà giocare nella prossima fase di riconfigurazione policentrica del mondo.
Per questo gli accordi economici precedono o sono contestuali a quelli militari e strategici. Basandosi su queste intenzioni, a partire dal settembre 2008, Mosca ha inviato in Ciad e nella R.C.A. un contingente militare di 200 uomini. A questo si aggiungono i 120 uomini stazionanti in Sudan, a testimonianza dell’impegno fattivo di Mosca e del suo contributo concreto alla stabilizzazione delle aree più irrequiete del continente.
Il lavoro diplomatico da svolgere sarà complicato e lungo in ragione della partita, a più attori internazionali, che si sta giocando sul continente. La Russia dovrà affrontare la concorrenza dell’Europa, degli Usa, della Cina, dell’India, del Giappone e persino della Corea del sud, paesi che sono in Africa da più tempo e che sviluppano una penetrazione aggressiva tanto per accaparrarsi i ricchi giacimenti africani che per motivazioni strettamente geopolitiche. La politica africana della Russia, sebbene sia ancora ai primi “vagiti”, scuote l’Occidente – dagli Stati Uniti all’Europa – che teme il rafforzamento delle posizioni di un concorrente (geo)politico diretto (in un’area strategica per i futuri assetti multipolari) nella corsa alle ricchezze naturali e alla predominanza mondiale.
4. Concludendo occorre ribadire che le tendenze in atto dimostrano chiaramente che i vecchi equilibri mondiali stanno lentamente saltando, per questo, nella prima parte del presente lavoro, si è affrontato il tema delle specificità della formazione sociale russa, quale aspetto sintomatico e inequivocabile delle trasformazioni sistemiche in corso.
Quando si parla, in via astratto-teorica, di formazione mondiale globalesi deve precisare che il contenuto concreto di questo concetto concerne gli spazi geopoliticiin cui si “incastonano” le varie formazioni particolari (da peculiarità politiche, sociali, economiche e culturali) in perenne conflitto tra loro.
Questa conflittualità intercapitalistica definisce le diverse fasi storiche e la “precipitazione” degli assetti del potere mondiale tendenti al monocentrismo al policentrismo , da uno all’altro, attraverso “intervalli” multipolariin cui la lotta tra i funzionari capitalistici internazionali è condotta in maniera più sorda e latente. E’ l’attualità dei nostri tempi.
Se letta all’interno di questo schema teorico, anche la crisi finanziaria può essere spiegata meno contortamente di come fanno gli analisti contemporanei i quali cincischiano con dati e previsioni cadendo costantemente in contraddizione. Essa è, per così dire, l’aspetto più superficiale, manifestantesi nella sfera degli scambi, dello scontro sotterraneo tra falde geopolitiche in accumulo di potenza di attrito. Durante questi periodi si accresce lo sviluppo ineguale dei differenti capitalismiche percorrono soluzioni di sviluppo e opzioni politiche poco coincidenti se non addirittura antitetiche.
Così vengono a formarsi schieramenti geopolitici e blocchi nazionali che si fronteggiano per la supremazia. Nella fase policentrica questa conflittualità diviene acerrima e conclusiva. Lo lotta finale tra “monoliti geopolitici” farà emergere “una nuova forma di capitalismo caratterizzante la maggior parte, o comunque quella più rilevante e sviluppata, del globo quale sbocco del processo iniziato negli ultimi anni – probabilmente caratterizzato da nuovi accesi confronti – perfino se dovessero risultare ancora una volta vincitori gli Stati Uniti” (18). E alla comprensione puntuale di tale trasformazione palingenetica che dovremo rivolgere in futuro la nostra analisi.
* Giovanni Petrosillo, Si è laureato a Bari in Scienze Politiche. Esperto di logistica integrata è il curatore del sito conflittiestrategie creato insieme al teorico marxista Gianfranco la Grassa col quale collabora dal 2006.
1. “ …in URSS sotto Gorbaciov c’è stata una controrivoluzione passiva dall’alto con l’appoggio ideologico decisivo, ma temporaneo, della classe intellettuale intenzionata a diventare un segmento della global middle class mondiale, con un ruolo decisivo da parte del ceto politico-amministrativo costituito dai dirigenti, dai tecnocrati e dai tecnici delle industrie statali, già largamente autonomizzatesi dal piano attraverso l’economia informale parallela e la stessa gestione popolare locale”, C. Preve, A dieci anni dal crollo del comunismo storico novecentesco: 1991-2001, www.intermarx.com
2. Questa è l’idea espressa da C. Bettelheim in “Le lotte di classe in URSS 1917-23 – Milano, Etas, 1974”
3. G. La Grassa, Marx-marxismo, www.ripensaremarx.it
4 La globalizzazione, lungi dall’esser percepita per quello che realmente rappresenta, cioè come l’imposizione, dopo la vittoria del blocco occidentale, a guida statunitense, sui paesi del socialismo realizzato, di uno specifico ordine imperiale, è l’ultima grande narrazione del nostro tempo. Ancora nel 1997, William Greider nel suo saggio “One World, Ready or not” descriveva questo processo come un veicolo mostruoso e sofisticato di tipo autopoietico che estendendosi a velocità supersonica ignorava le frontiere e spianava tutto ciò che gli capitava a tiro. Questo tipo di approccio teleologico alla globalizzazione, quale ultima frontiera dell’umanità, era comune a molti filosofi e commentatori dell’ultimo scorcio del secolo passato (e per la verità non mancano nemmeno oggi i ritardatari che tentano di proporre ancora la stessa “solfa destinale”) i quali non si sforzavano minimamente di adoperare chiavi di lettura meno banali per leggere detto fenomeno, essendo ben lieti dei riconoscimenti con i quali i circoli culturali dominanti li fregiavano. Inoltre, tali fantasticherie acritiche diventavano ancor più insopportabili allorché si cercava di far passare l’idea secondo la quale la globalizzazione non aveva “nessuno al volante” perché nemmeno esisteva un volante. Quest’ultima menzogna ideologica è definitivamente tramontata nel 2001, dopo l’attacco alle torri gemelle, con gli americani che hanno gettato definitivamente la maschera rispondendo con i bombardamenti (Iraq, Afghanistan ecc. ecc.) a chiunque mettesse in discussione il loro potere d’ingerenza mondiale.
5 Gianfranco La Grassa sostiene la necessità di reinterpretare “la costruzione del sedicente socialismo, sforzandosi di afferrare con maggior realismo – e mandando definitivamente in soffitta le sterili e astiose diatribe ideologiche ancor oggi vigenti – i reali sbocchi della rivoluzione autodefinitasi comunista”. Ovvero si dovrebbe porre in evidenza la maniera in cui tale “dinamica trasformatrice della struttura sociale, ‘coperta’ e oscurata nel ‘socialismo’ da una ‘sovrastruttura’ politica (Stato e partito) e ideologica (il marxismo-leninismo ufficiale)” abbia consentito alla Russia di diventare ciò che oggi è. In sostanza, con il crollo di tutta l’impalcatura ideologica del periodo rivoluzionario sono venute allo scoperto basi solide sulle quali sarà possibile attivare processi di crescita nazionale, in termini di potenza (politica, economica, militare) strategica. Prosegue La Grassa: “Sono queste fondamenta, accompagnate da fenomeni politico-ideologici nuovi e ancora non ben definiti (o almeno così sembra), a favorire la crescita di nuove potenze da formazioni particolari diverse da quella dei funzionari del capitale oggi predominante in ‘occidente’”.
6. Sandro Sideri, La Russia e gli altri, Università Bocconi Editore, 2009
7. Oltre ai problemi interni di tipo economico che generano insoddisfazione nelle classi subalterne, occorre anche segnalare i problemi generati dall’esterno con le continue provocazioni lanciate dal cosiddetto vicino esterno (vedi Georgia ed Ucraina) finito nell’orbita europea o in quella di Washington, e i tentativi con i quali gli occidentali cercano di creare scompiglio nella società russa finanziando una serie di ONG che hanno come obiettivo quello di far crescere, artatamente, le contraddizioni della società russa.
8. Carlo Jean, Geopolitica del Caos, FrancoAngeli, 2007
9. I lamenti degli intellettuali occidentali dimostrano di essere del tutto pretestuosi alla luce della loro esaltazione verso i protagonisti della precedente fase “democratica” degli oligarchi del clan Eltsin. Sostiene al proposito C. Jean. “Beninteso, intellettuali occidentali abituati a frequentare i ‘salotti bene’ di Mosca, finanziati da taluni oligarchi, strillano per la fine della ‘democrazia’. Ma essa era in realtà ‘la grande abbuffata’ del patrimonio pubblico avvenuta sotto Eltsin. Gli oligarchi funzionali alla restaurazione di un certo ordine in Russia…appoggiano Putin e sono rimasti al loro posto. E’ strano che l’Occidente, abituato allo spoil system, critichi il Presidente russo per fare più o meno quanto avviene in tutti i paesi”.
10. A tal proposito al Consiglio Mondiale del popolo russo del 2006, è stato sottoscritto un documento che contrasta con i principi della democrazia liberale e che ritiene i valori collettivi di tipo etico, religioso e patriottico come superiori alla libertà individuale, baluardo dei regimi di tipo anglosassone e occidentale
11. G. La Grassa, Bene ma son sospettoso, Ripensaremarx blog, 4 agosto 2009
12. L’analista politico Christian Bouchet ha ben ricostruito le ultime vicende collegate alle rivolte del popolo Uiguro nello Xinjiang le quali, se non arginate tempestivamente, potrebbero produrre effetti imitativi su tutto lo spettro asiatico: “…Geopoliticamente tuttavia, esattamente come in Tibet, [la] volontà di resistenza [degli Uiguri] … viene strumentalizzata per servire gli obiettivi dell’impero del male. È la strategia famosa dell’anaconda concepita dal Dipartimento di Stato americano per contrastare l’opera paziente e continua di tessitura di relazioni speciali tra la Russia, l’India, la Cina, l’Iran ed i paesi dell’Asia centrale, attuata da Putin, e diligentemente proseguita ora da Medvedev. Gli analisti del Dipartimento di Stato hanno identificato nelle regioni della massa continentale eurasiatica le zone di crisi potenziali a causa di tensioni endogene storiche ancora irrisolte, ed hanno definito scenari geopolitici che sono in sintonia con i desiderata e gli interessi globali di Washington e del Pentagono. È in questa prospettiva di operazioni di destabilizzazione e di pressione sulla Cina, la Russia e l’India che si deve interpretare la questione della minoranza del popolo Karen e ‘della sommossa’ color zafferano del Myanmar, la destabilizzazione del Pakistan, il conflitto del Cashemire il mantenimento di una crisi endemica nella regione afgana e… l’agitazione ricorrente del Tibet e dello Xinjiang, nella Repubblica Popolare Cinese. L’importanza di destabilizzare lo Xinjiang si capisce meglio quando si prende coscienza che esso ha una frontiera comune con la Mongolia, la Russia, il Kazakistan, il Kirghizstan, il Tagikistan, l’Afganistan, il Pakistan e l’ India…Destabilizzare questa regione equivale a destabilizzare tutta questa costruzione… Inoltre, nello Xinjiang, ci sono anche prospettive sul gas e il petrolio, senza contare uranio e carbone… Destabilizzare la regione vuol dire rendere queste risorse difficilmente sfruttabili, o meno sfruttabili”. Christian Bouchet, Après les Tibétains, les Ouïgours. www.Geostrategie.com .
13. Quoi de neuf dans la stratégie de sécurité nationale de la Russie en 2009 ? di Rokas GRAJAUSKAS *, 29 juillet 2009. www.diploweb.com
14. S. Sideri, La Russia e gli altri, 2009, Università Bocconi Editore,
15. Per dare un’idea delle potenzialità di questa organizzazione intergovernativa ricordiamo che essa copre quasi 30 milioni di Km2 di Territorio per una popolazione di un miliardo e mezzo di individui
16. “In una competizione per le risorse non può essere escluso che la forza militare possa essere usata per risolvere i problemi emergenti che potrebbero distruggere l’equilibrio delle forze vicino alle frontiere della Russia e dei suoi alleati” http://www.timesonline.co.uk/tol/news/environment/article6283130.ece
17. Per l’Izvestia, l’Egitto è stato inserito come primo scalo nel tour africano da Medvedev in quanto “Al Cremlino considerano questo paese centrale nella politica africana e determinante per l’autorità che gioca nel mondo mussulmano”.
18. G. La Grassa, “Crisi, sviluppo, trasformazione e trapasso d’epoca”, www.ripensaremarx.it