PUBBLICO O PRIVATO: LIBERARSI DI UN FALSO DILEMMA
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1. A circa 40 anni da quando Althusser criticò la coppia ideologica privato/pubblico, si è ancora schiavi d’essa. I liberal-liberisti vedono come fumo negli occhi ogni diretto intervento statale nel mercato, considerato più o meno come fossimo rimasti alla ben nota “mano invisibile” secondo la definizione di Adam Smith. Quelli che ancora propugnano il socialismo, o quanto meno la necessità di piegare il mercato a fini di socialità, sono ancora fermi all’idea che nulla è meglio dell’intervento dello Stato. Naturalmente, solo pochi “sopravvissuti” pensano che il socialismo (come obiettivo finale o invece soltanto primo passo verso il comunismo) s’identifichi con la proprietà statale dei mezzi produttivi. In genere, ci si limita a riferirsi a una sorta di “socialismo di mercato” (in cui in realtà lo Stato e chi lo governa la fa ancora da padrone) o al mercato corretto a fini sociali dall’intervento (statale), o ad un mercato lasciato al libero esplicarsi degli animal spirits imprenditoriali ma in una cornice generale – l’intelaiatura delle regole formali secondo cui si svolge il “combattimento nell’arena” – costruita dall’organo, che si presume rappresenti per sua intrinseca natura l’interesse del popolo in quanto soggetto collettivo, o che invece esprima la volontà di una maggioranza espressasi in “libere e democratiche” elezioni.
In generale, si può dire che la coerenza non è stata molto rispettata da nessuna delle correnti ideologiche in campo. I liberisti, in genere identificati con la destra politica, quando è stato necessario hanno fatto abbondante ricorso agli strumenti “pubblici” per governare (o credere di governare) il sistema economico. Gli “statalisti” (presunti di sinistra), oggi quasi sempre assai moderati, hanno spesso contribuito a smantellare la proprietà “pubblica” per liberare i suddetti animal spirits credendoli capaci, in linea generale e di principio, di dare impulso allo sviluppo economico, spesso identificato tout court con quello sociale. Con dubbia (secondo me) interpretazione di Keynes – comunque anche lo interpretassero correttamente, il problema sostanziale non cambia – si sono alla fine limitati alla credenza che ci si dovesse impegnare nel sostenere una vasta spesa pubblica, usando il volano fiscale: nelle situazioni di crisi andando pure in deficit di bilancio (spendendo in termini “pubblici” più di quanto ricavato dalle imposte) e recuperando poi con manovra inversa durante le “vacche grasse”.
L’intervento dello Stato è stato giustificato a volte con nettamente prevalenti considerazioni di giustizia sociale, da realizzare mediante l’imposizione progressiva e la redistribuzione del reddito; in ciò si sono trovati spesso alleati i minoritari marxisti (solo approssimativamente tali), che almeno pensavano il profitto quale mera estorsione di plusvalore (pluslavoro), e gli economisti “riformisti” predominanti che in ogni caso, sia di crisi che di crescita, hanno creduto ad un sistema economico spinto dal lato della domanda (dei consumi soprattutto; o al massimo degli investimenti in sé e per sé, in quanto domanda di una specie particolare di beni, quelli strumentali e di produzione). Al proposito di conseguire la giustizia sociale è stata quindi, pressoché subito, affiancata la tesi del vantaggio anche economico dell’intervento statale tramite la leva della spesa pubblica. Il tema schumpeteriano dell’innovazione, e dunque dello sviluppo in quanto differente dalla mera crescita, è stato bellamente trascurato.
Alla fin fine, con l’appoggio sempre secondario dei marxisti (più spesso dei neoricardiani, confusi con i precedenti in una delle varie aberrazioni teoriche del secondo dopoguerra), i “keynesiani”, al vertice delle Università e organismi economici (nazionali e internazionali), si sono trovati con inflazione crescente, spesa pubblica e dunque deficit e Debiti Pubblici di grande consistenza. Da ciò è in buona parte derivata la reazione “liberale” di destra (Thatcher-Reagan con nuovo predominio accademico, e non solo accademico, dei neoliberisti); non sempre, come già rilevato, coerente con gli assunti teorici. In ogni caso, minimo per non dire inesistente è stato in moltissimi paesi il sollievo circa la spesa pubblica, il deficit, il Debito, ecc.
2. Se si cercasse di seguire tutto questo caos – sarebbe utile e interessante, ma occorrerebbe un lavoro anche storico di vaste proporzioni e non alla portata di uno solo – ci si perderebbe subito in una “selva oscura”. Atteniamoci invece al minimo di osservazioni possibile, pur avvertendo che si tratta solo di prime approssimazioni, tuttavia a mio avviso essenziali.
Balza subito agli occhi che dietro la confusione tra pubblico e privato ci sta quella sul concetto e le funzioni dello Stato. Ancor oggi, lo Stato è trattato in veste di soggetto compatto ed unitario che agisce alla guisa di un individuo. Per di più si finge che esso sia il rappresentante dell’insieme dei cittadini, in quanto singoli dotati di pari diritti e tutti eguali fra loro. A volte si considera lo Stato come ostile alla collettività, ad esempio quando esagera con l’imposizione fiscale. Ancora una volta, si è convinti che tale ostilità si manifesti in generale nei confronti dell’insieme dei cittadini o anche verso alcuni raggruppamenti (ad esempio il lavoro “autonomo”, per certuni, o invece il lavoro dipendente, per altri); ma sempre con l’idea che si tratta di distorsioni temporanee, legate al fatto che in quel dato periodo transitorio il governo, in quanto supremo organo esecutivo dello Stato, è diretto da queste o quelle forze politiche. Tali differenziazioni restano nell’alveo di una comune concezione neutralista dello Stato, cui al massimo alcuni schieramenti apporterebbero temporaneamente qualche distorsione, ora in un senso ora in un altro. In generale, comunque, lo Stato viene pensato quale organo di rappresentanza della collettività nazionale. E addirittura, oggi, si preconizza uno Stato che diventi rappresentante neutrale di comunità sovranazionali.
Contro questa falsa rappresentazione dello Stato si erge – decisamente meno irrealistica, più robusta ed efficace – la concezione marxista che in quest’organo vede lo strumento della classe dominante; esso si porrebbe apparentemente al di sopra dell’intera società, proprio per fingersi garante di quest’ultima e impedire lo scontro violento tra dominanti (estrattori di pluslavoro/plusvalore, quindi sfruttatori) e dominati (i fornitori di tale plusvalore, dunque sfruttati). In realtà, lo Stato serve a garantire l’applicazione delle regole del “libero scambio mercantile”, in cui viene difeso l’equilibrio dello stesso, che deve svolgersi rispettando, in media, l’equivalenza tra le merci scambiate, senza “furti” da parte di nessun contraente mediante imbrogli o uso della forza; giacché è proprio rispettando l’equivalenza (nello scambio della speciale merce forza lavoro) che i dominanti ottengono, in forma di profitto (e rendita, interessi, ecc.), il pluslavoro estorto ai dominati.
Tali regole dell’ordinato “sfruttamento” sono garantite da una serie di apparati coercitivi: corpi speciali in armi, tribunali, galere, ecc. Solo in ultima istanza, però, questi funzionano a fini di repressione nei confronti dei dominati; in genere, servono proprio al rispetto delle regole del “libero scambio”, si rivolgono quindi spesso contro gli imbrogli e malversazioni di gruppi di dominanti quando questi – si pensi a quanto accade durante le crisi finanziarie – provocano danni alla “classe” dominante nel suo insieme, poiché viene messa in luce una serie di gravi malformazioni dell’ordine legale che rende possibile l’uso del raggiro, inganno, furto, prevaricazione, ecc. In questo senso, il marxismo vede lo Stato in quanto rappresentante dei dominanti nel loro insieme (classe); esso garantisce pienamente quella competizione concorrenziale che consente l’aumento del profitto (in quanto plusvalore relativo soprattutto), ma impedisce tutto ciò che incrinerebbe la fiducia dei “cittadini” (in particolare dei dominati, dei fornitori di pluslavoro) nel “libero scambio” e nella parità di diritti in quanto possessori di merci.
Fondamentale diventa quindi la difesa della credenza circa questa eguaglianza di diritti, circa la possibilità, pur mediante lotte pacifiche e legali, di migliorare le condizioni di vendita della propria merce, quindi il proprio reddito e tenore di vita. Importante diventa allora la cosiddetta egemonia ideologica, assicurata da un ceto intellettuale che diffonde la concezione della neutralità dello Stato (salvo deviazioni dovute all’imperfezione delle istituzioni “umane”) e delle virtù del libero scambio tra merci (addirittura sul piano mondiale), anche qui con le imperfezioni “umane”, che si manifestano soprattutto quando gli individui manovrano l’oro, oggi il denaro (anche virtuale), provocando – ma solo per loro cupidigia, che si provvede a punire – gravi alterazioni nel funzionamento “normale”…..dello sfruttamento (plusvalore come profitto) e del predominio.
Smascherando questa ideologia, e ponendo in luce la diseguaglianza reale celata dallo scambio mercantile, il marxismo sta comunque dieci passi avanti a tutte le chiacchiere sulle disfunzioni della finanza, sul signoraggio e altre fanfaluche di quei critici dei dominanti, che servono, nelle situazioni di crisi, a mantenere inalterata l’egemonia ideologica di questi ultimi, riempiendo la testa dei dominati di pure illusioni circa la possibile neutralità dello Stato e il possibile ripristino della giustizia nello scambio di equivalenti, ove venga sempre combattuto il “crimine” e ripristinato l’“ordine normale” della riproduzione dei rapporti capitalistici1.
Ci sono però momenti, tipo l’attuale in Italia (che dura da vent’anni) in cui gli ideologi appaiono per quello che sono: incapaci di esercitare egemonia. Allora subentrano gli apparati dello Stato: o la polizia o, come nel caso specifico, la magistratura che funzionano cercando di diffondere per altra via la medesima ideologia della legalità neutrale dello Stato e del “libero scambio”, spudoratamente alterato invece da manovre politiche di tutti i generi. Tuttavia, non sempre, malgrado tutte le prove, cade la maschera e si arriva allo scontro; e se ci si arriva, pure questo può essere deviato da altre ideologie di inganno e distorsione della realtà.
3. Con la fine del predominio, tendenzialmente monocentrico, dell’Inghilterra, e l’apertura dello scontro tra le nuove potenze (in particolare Usa, Germania, Giappone) che caratterizzò l’epoca detta dell’imperialismo, Lenin in particolare apportò delle correzioni di fatto alla concezione marxista dello Stato, pur se non mi sembra che esse siano state teorizzate esplicitamente. In Stato e rivoluzione egli dichiara apertamente di voler ripristinare l’effettivo pensiero di Marx ed Engels, rivalutando la funzione dell’atto rivoluzionario con cui viene “distrutta la macchina statale borghese” per costruirne una nuova (detta di dittatura del proletariato, pesantemente connotata in senso ideologico), adeguata alla transizione al socialismo e comunismo. In realtà, il riferimento alla lotta tra “predoni capitalisti”, l’interpretazione dell’imperialismo non come semplice colonialismo ma proprio come questa lotta tra potenze, muta qualcosa della vecchia interpretazione. Intanto, l’imperialismo non è identificato con la conquista di colonie (come pensò invece l’ortodosso Kautsky), ma nemmeno la esclude; la ingloba invece in una visione più ampia di tendenza alla supremazia mondiale di ognuna delle varie potenze in conflitto.
Certamente Lenin pensa che la lotta interimperialistica avrebbe aperto l’epoca della progressiva rivoluzione proletaria mondiale, con superamento del capitalismo giunto, così i marxisti pensavano, al suo ultimo stadio. Tuttavia, tenuto conto che invece gli Usa diventeranno predominanti nel mondo capitalistico (tradizionale) nel 1945 e, più generalmente, nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss, si capisce infine che lo scontro interimperialistico è una fase policentrica in cui ogni potenza mira alla supremazia, dunque ad un nuovo monocentrismo; sempre tendenziale e, nel caso degli Stati Uniti dopo il “crollo socialistico”, messo presto in crisi all’inizio del nuovo secolo e millennio. Nello scontro imperialistico (più precisamente policentrico, o multipolare in quanto fase d’avvio a quest’ultimo), lo Stato assume nuovi aspetti, poiché fra i vari “distaccamenti speciali in armi” (che rappresentano ciò senza di cui non esiste Stato in quanto organo cui è demandato l’esercizio “legale” della violenza) diventa via via più rilevante e mastodontico quello militare (l’esercito) e bellico in senso lato (con i servizi segreti e spionistici, il finanziamento di vari organismi politici, a volte mascherati da un addobbo culturale, che si servono sempre di ben finanziate quinte colonne interne ad altri paesi, perfino interne alle potenze avversarie, ecc.).
Si noti che in Lenin alla di fatto nuova connotazione dello Stato – non più soltanto strumento di dominio della classe proprietaria (dei mezzi produttivi) nel suo complesso al fine di garantire l’ordinata riproduzione dei rapporti dell’eguaglianza formale (nello scambio mercantile) per consentire l’estrazione di pluslavoro/plusvalore dai dominati, in ogni caso tramite competizione concorrenziale intercapitalistica (tra gruppi di dominanti) – si accompagna il passaggio dal concetto di modo di produzione (capitalistico) a quello di formazione economico-sociale2, quale articolazione di più modi di produzione, nel cui ambito quello capitalistico assume, ma non in ogni congiuntura storica, una posizione dominante3. Non posso qui mettere in risalto l’importanza di questa novità concettuale – anch’essa un po’ confusa così come lo è la nuova interpretazione dello Stato – ma comunque si comprende che essa si stacca dalla semplice formulazione di un modo di produzione “a due classi” antagoniste decisive, una sfruttatrice ed una sfruttata, alla cui lotta Marx affidava il corso del futuro processo storico ineluttabilmente diretto all’avvento del comunismo.
Nell’epoca dell’imperialismo (policentrismo), il conflitto è nettamente più complicato e vede in primo piano quello intercapitalistico, tra dominanti. Per Lenin, come successivamente per Mao, solo quando lo scontro tra questi ultimi diventa al “calor bianco” – e, non dappertutto ma intanto in un anello debole della catena imperialistica (del dominio capitalistico) si produce una brusca rottura sociale con crollo delle istituzioni, statali in primo luogo (perciò anche dei corpi speciali in armi) – si è in grado, per merito di una “avanguardia” ferramente organizzata e strategicamente attrezzata, di provocare il fatto rivoluzionario; considerato proletario, ma che vede in realtà in primo piano le masse contadine (dunque precapitalistiche; ancora una volta, si constata l’importanza del concetto di formazione economico-sociale al posto di quello di modo di produzione!).
I comunisti non hanno mai capito (io stesso debbo procedere dopo anni “di buio pesto” a tentoni) quel che avvenne nei paesi a capitalismo relativamente (Italia) o altamente (Germania) avanzato, già caratterizzati da grossi strati di “ceto medio” – non compreso in base al semplice concetto di modo di produzione con due sole classi decisive, borghesia e proletariato, tutto il resto essendo o residuo del passato o gruppi improduttivi (non inutili), alimentati dal plusvalore operaio o proletario – e da sedicenti aristocrazie operaie, nulla più invece che i livelli superiori di raggruppamenti sociali in via di tendenziale miglioramento delle loro condizioni di vita e di status sociale. In tali paesi si sono prodotte, con fascismo e nazismo, due rivoluzioni di tipo diverso da quella verificatasi in Russia, ma pur sempre messe in moto dal disfacimento delle strutture istituzionali a causa dei conflitti interdominanti. Non c’entrava proprio nulla la “reazione” del capitale finanziario o addirittura di quello agrario (non è decisivo accertare da dove provengono certi finanziamenti per capire il carattere di un processo rivoluzionario; altrimenti bisognerebbe fare le pulci pure a Lenin e ai bolscevichi). Nei paesi a capitalismo più avanzato, le “avanguardie” rivoluzionarie si accordarono con i gruppi dominanti del grande capitale. Qui si apre un discorso ancora una volta rilevantissimo, soprattutto facendo un paragone con la veloce “accumulazione originaria” operata in un paese capitalisticamente arretrato come l’Urss; discorso che devo tuttavia lasciare ancora una volta al futuro.
Lo Stato della fase imperialistica – più ancora che strumento di organizzazione dell’ordinato sfruttamento dei dominati da parte della classe dominante nel suo complesso (con apparati ideologici e di eventuale coercizione all’uopo forgiati) come si deve concludere se ci si basa sull’utilizzazione dell’ormai semplicistico e fuorviante concetto di modo (e di rapporti sociali) di produzione – è dunque soprattutto apparato attrezzato al conflitto tra paesi (nazioni), così come lo è ancor oggi, all’inizio della nuova fase multipolare, malgrado le ciance di intellettuali privi di intelletto. Lo Stato diventa “esercito in marcia”, organizzatore di manovre di aggressione e/o di sovversione interna ad altri paesi, promotore di egemonia ideologica non semplicemente “di classe”, bensì di “nazione”; un dato paese può inoltre cercare di uniformare una certa area con strutture socio-economiche similari (o invece da esso dominate direttamente), ma che ancora mantiene caratteri culturali difformi.
4. E’ evidente che occorre andare ben oltre la normale e banale considerazione dello Stato quale organo unitario, sistema di apparati da trattare quale soggetto quasi individuale dotato di volontà ed emanante decisioni che da quest’ultima promanano. E’ fuorviante e mistificatorio – atteggiamento tipico degli ideologi più ipocriti e falsamente “etici” dei gruppi dominanti – concentrarsi sulle procedure formali tramite cui dovrebbe formarsi una “equilibrata” volontà decisionale attraverso il controllo reciproco di più organi, che spesso solo si intralciano fra loro, creando “rumore” invece che “informazione” per la collettività dei presunti “cittadini” (tutti eguali secondo questa liturgia da filistei). Sia chiaro che non si tratta di aperta malafede (spesso anche si) ma dell’aggirarsi e inutile agitarsi degli agenti ideologici dei dominanti – seguiti oggi da comunisti ed ex comunisti, marxisti ed ex marxisti divenuti, come in nota ricordato, aperti reazionari e perfino cultori di una vuota Carta Costituzionale – sperduti nei meandri dell’inganno da essi stessi creato, con il cervello ormai ridotto a un acquitrino melmoso e maleodorante.
Lo Stato non è affatto un organo “essenzialmente” unitario e compatto alla guisa dei reali individui dotati di effettiva volontà (sia pure conformata dall’intreccio di rapporti sociali in cui sono inseriti e agiscono). L’unità dello Stato consiste sempre nella latente minaccia, che solo in date occasioni si presenta materialmente in tutta la sua evidenza, di uso dei suoi apparati di forza e violenza; quelli ideologici servendo soltanto durante lo scorrimento normale e oliato della vita sociale nei periodi in cui i “cittadini” vivono nell’illusione dell’identità tra rispetto delle regole formali – che, così si dichiara, garantiscono la parità di diritti per tutti – e una reale eguaglianza. Meglio poi se, con le “libere elezioni”, sono pure convinti di partecipare alla formazione delle decisioni prese da quest’organo “metafisico”, che sta sempre in ogni dove, avendo però sede in materiali luoghi ed edifici, in cui specifici corpi lavorativi (le burocrazie) svolgono le varie pratiche esecutive delle decisioni in oggetto. Che il disbrigo di tali pratiche sia efficiente o meno, di gradimento o di irritazione dei “cittadini”, questo è problema secondario per la “teoria” dello Stato: “nessuno è perfetto”.
A parte il tipo di unitarietà dello Stato appena considerato, quest’ultimo è in effetti, proprio “essenzialmente”, sostanzialmente, disunito, disorganico. Ecco perché sono fatui e sciocchi coloro che blaterano di Stato come se fosse un organo di gestione degli affari generali della società. La società – e non solo quella capitalistica, ma comunque di questa stiamo adesso trattando – non ha semplici affari generali da curare. Non vi è alcun affare trattato nominalmente per conto della “società tutta” che non sia realmente connotato dalla prevalente impronta impressa dall’azione di un qualche gruppo di agenti sociali. La società è un fitto intrico di rapporti tra gruppi e raggruppamenti, a trama sempre più “fine” fino al complesso dei rapporti interindividuali. L’unitarietà dell’intera società, trattata quasi fosse un soggetto individuale, è una finzione; utile, perfino necessaria per dati scopi, ma da non pensare mai come reale, altrimenti si prendono cantonate colossali. L’unica unitarietà è quella attribuita allo Stato tramite il “monopolio della forza” (non è certo una mia definizione) e dunque mantenendo sempre sullo sfondo – anche se più spesso in latenza; o in forme celate, mascherate, dal ben noto “guanto di velluto” – l’uso dei “corpi speciali in armi” per livellare e uniformare con la violenza la “volontà sociale”.
Lo Stato non è dunque realmente unitario; non però perché consta di tanti apparati di vario tipo: di coercizione, di egemonia ideologica, di organizzazione e gestione, di esecuzione di politiche penetranti nella sfera economica, e via distinguendo sempre più finemente le varie mansioni e finalità. Nemmeno è decisivo che vi siano apparati la cui azione si dirige verso l’ambito interno o invece affronta i problemi inerenti all’inserimento del paese nell’agone mondiale. Lo Stato non è unitario perché – prima (logicamente prima) che gli venga attribuita la caratteristica (“monopolistica”) della sua apparente unità – è una rete di conflitti tra vari gruppi sociali; di cui quelli decisivi sono i dominanti (nella versione marxista, sarebbe stata la mera classe proprietaria), in cui, nelle condizioni della normale riproduzione dei rapporti capitalistici, sono cooptati certi dirigenti dei dominati. Ecco perché, e necessariamente fino a quando non si producono gli sconquassi impedienti tale normale riproduzione nel famoso “anello debole”, i sindacati dei lavoratori sono, a tutti gli effetti, apparati dello Stato nei paesi capitalistici, pur se formalmente non vengono considerati tali. Partiti, sindacati, lobbies varie, ecc. stanno fra i gruppi di decisori, di vertice, il cui intreccio conflittuale costituisce la tramatura essenziale di quello che denominiamo Stato.
Questa rete è però “invisibile”; non perché i gruppi in lotta siano paragonabili a microparticelle (nel qual caso sarebbe sufficiente possedere un buon “microscopio” per vederli). Di tali gruppi sono ben visibili (macrovisibili) i corpi (chi non vede i partiti e altre associazioni? Ma anche molte delle lobbies e gruppi di pressione sono visibilmente organizzati; e pure le massonerie non sono certo “microscopiche”, soltanto più “discrete” nella loro “pesante” presenza). Tuttavia, quel che conta non è la loro “massa”, bensì l’“energia” che sprigionano nel conflitto reciproco, e che fa pendere lo squilibrio (sempre presente) da una parte o dall’altra o dall’altra ancora (perché lo scontro non è affatto tra due entità soltanto come nel modellino marxiano del modo di produzione; ancora una volta si constata che il concetto di formazione economico-sociale tentava pur confusamente un approccio più complesso e pregnante di quello marxiano). Da questo multilaterale intreccio della battaglia, che sprigiona energie da più parti, nascono le alleanze (in orizzontale, tra gruppi dominanti) e i blocchi sociali (in verticale, con egemonia di dati gruppi dominanti su determinati raggruppamenti di dominati).
Certamente, pure l’energia si rileva materialmente, ma non con il microscopio. Inoltre, essa non può agire “in libertà” (altrimenti, parlando sotto metafora, abbiamo la distruzione della bomba atomica, non l’uso della medesima energia nelle centrali nucleari). Quindi, è logico che tale energia si “rapprende” negli apparati il cui sistema è detto Stato, e all’interno dei quali prestano la loro opera speciali corpi lavorativi (con la loro organizzazione gerarchica), funzionanti seguendo determinate regole; e comunque anch’essi soggetti al giudizio di efficienza o meno nell’espletamento delle loro specifiche mansioni. Essi rappresentano in ogni caso il rapprendersi dell’energia sprigionata dal conflitto tra più gruppi (dominanti, se siamo nel periodo dell’ordinata riproduzione dei rapporti capitalistici). Anche quando apparentemente non vi è alcun mutamento materiale degli apparati (né dei loro corpi lavorativi né della loro organizzazione), l’energia conflittuale è sempre all’opera e produce spostamenti, modificazioni, di carattere minimo, per piccoli “salti discreti” (tutto il chiacchiericcio di intellettuali pieni di prosopopea sulla “costituzione materiale”, che via via differisce sempre più da quella “formale”, trova qui il suo fondamento e reale spiegazione).
In definitiva poi, come già sappiamo, deve essere presentata “al pubblico” l’unità di questo sistema di apparati – denominato Stato e caricato dei “più alti fini etici” e di “rappresentanza generale” della Società dai filosofi dei dominanti (che lo sono anche quando si credono “critici critici”), che quanto a rodomontate non si tirano mai indietro, megalomani e narcisisti quali sono – altrimenti viene svelato l’arcano ideologico del suo essere luogo e precipitazione (quindi spazio e tempo) di un conflitto tra dominanti per la supremazia. E simile unità è assicurata, affidando a quest’organo il monopolio dell’esplicazione della forza “armata”, al cui esercizio sono adibiti “corpi speciali”, senza i quali – e senza la costante potenzialità, con attuazione assai più rara, dell’uso della violenza per reprimere e rendere coercitiva la riproduzione del rapporto capitalistico – non esiste lo Stato; esso si dissolverebbe e resterebbe la famosa lotta non proprio di ognuno contro tutti, ma di ogni gruppo dominante (con le sue alleanze sempre labili e mutevoli e il suo blocco sociale sempre in procinto di sgretolarsi) contro ogni altro. Altro che primato dell’egemonia ideologico-culturale; se questa, come diceva Gramsci, non è supportata dallo scudo coercitivo, addio predominio di dati gruppi dominanti, addio coesione sociale; solo anarchia e caos, sempre promossi non a caso da coloro che cercano di rovesciare “l’ordine esistente” per portare al potere, il più delle volte, nuovi gruppi dominanti; solo raramente, e per brevi periodi, i dominati (comunque sotto la guida di gruppi dirigenti quanto meno ambigui: non sempre soggettivamente ma oggettivamente per le vicende storiche specifiche in cui agiscono).
5. Abbiamo adesso finalmente in mano, sia pure tramite uno studio a volo d’uccello, i termini della questione “pubblico/privato”; poiché questa si risolve solo se si ha una corretta concezione dello Stato, senza farsi fuorviare dalle forme giuridiche (del diritto pubblico e costituzionale, e del diritto privato), forgiate dai filistei per il “godimento” dei dominanti4. Il gioco formale della proprietà non dice oggi più nulla.
Intanto, quando si parla di proprietà di diritto privato, dietro le regole giuridiche che vi si applicano vi sono rapporti sostanziali diversi. Con la società per azioni (e tutte le grandi imprese, leader nel mercato, lo sono), in certi casi esistono gruppi proprietari che hanno la maggioranza assoluta del pacchetto; e anche così rimane una grossa quota di proprietari con poca voce in capitolo, anche durante le decisioni della distribuzione del “mitico” profitto, su cui sono appuntati gli occhi di tutti i superficiali economicisti (fra cui i critici marxisti, che non conoscono Marx). In altri casi, con una proprietà ben spalmata su migliaia di azionisti, basta a volte il 5-10% azionario per avere il controllo dell’impresa; gli altri titoli, formalmente proprietari, sono sostanzialmente dei titoli di credito ad interesse variabile (a seconda della decisione circa la distribuzione degli utili). Infine, nella formazione dei funzionari del capitale, di impronta americana e affermatasi più generalmente dopo il predominio statunitense post 1945, la distribuzione della proprietà azionaria ha a lungo (e ancora adesso è tutt’altro che finita quest’epoca, malgrado le ciance sulla “irresponsabilità” dei manager) favorito il predominio imprenditoriale del management; per cui la proprietà (dei mezzi di produzione) si è mutata semmai in un più generico potere di disporre degli stessi.
Anche la proprietà pubblica ha svariate forme; intanto statali o “municipalizzate” (cioè di enti locali) . La proprietà statale può implicare l’effettivo potere di disporre da parte di chi è al governo in quel dato periodo oppure, per dare maggiore stabilità e durata all’unità di comando, viene di fatto trasferita, più o meno ufficialmente o ufficiosamente, al management. In altri casi, si procede ad una ampia privatizzazione, mantenendo però poteri speciali (golden share) agli ambienti governativi. Vale la pena di seguire le diverse organizzazioni giuridiche? Domanda retorica per chi bada “al sodo”. Si è voluto spendere molto tempo e molto studio intorno all’organizzazione dell’impresa, della sua gestione, dei livelli di comando e di trasmissione degli ordini (garantendo la via inversa delle trasmissioni verso il centro delle informazioni circa il successo o meno di quegli ordini). A seconda delle fasi e congiunture, si è messo in luce il verticismo (e rigidità) di certe organizzazioni o invece la loro flessibilità e il decentramento dei poteri di disposizione e di comando. Si è arrivati a teorizzare l’impresa, fortemente decentrata, come una rete di contratti di scambio (delle prestazioni), quasi sciogliendo la sua organizzazione nella fluidità dei rapporti intercorrenti nel mercato5.
Siamo sempre all’impostazione tipica dei tecnici del diritto e dell’economia. Nessuna prevenzione sul fatto di utilizzare pure gli studi di questi tecnici per aggiustare problemi particolari e di breve momento, per “tagliare alberi” e “sfoltire la foresta” (o invece, al contrario, per “piantare e rimboschire”). Tuttavia, credo sia ora di studiare meglio “la foresta” quasi fosse un organismo “vivente e pensante” nella sua composizione complessiva. La forma giuridica della proprietà, pubblica o privata, l’organizzazione dell’impresa (verticale o decentrata), e via dicendo, non sono fenomeni irrilevanti, non vanno affatto trascurati nelle pratiche concrete, anche della lotta tra differenti raggruppamenti sociali; tuttavia, devono essere inquadrati in discorsi più sostanziali, che forniscono il quadro generale delle dinamiche sociali.
Non ho più molto spazio, una serie di discorsi vanno necessariamente rinviati al futuro; ad esempio la continuazione dello smascheramento di teorie simili al neoliberismo o neokeynesismo, o antiutilitarismo, ecc. La contrapposizione tra una teoria della prevalenza della produzione (e quindi dell’offerta) o invece del consumo (anche produttivo, e perciò della domanda o investimento in mezzi di produzione) andrà viepiù criticata in quanto stucchevole disputa tra concezioni complementari dell’ideologia dei dominanti, poiché sono le classiche due facce della stessa medaglia. Adesso concludiamo provvisoriamente.
Non esiste affatto, in linea generale, la superiorità del pubblico – poiché rappresenterebbe l’interesse generale di una collettività – o del privato, perché lascerebbe invece libera esplicazione ai creativi animal spirits di individui che, lottando per se stessi, procurano un vantaggio (“di godimento” e soddisfacimento dei propri bisogni) per tutti6. Da questa falsa contrapposizione si deve uscire. Se il sottoscritto critica lo smantellamento dell’industria pubblica italiana, decisa da precisi personaggi della (finta) sinistra nella famosa riunione sul “Panfilo Britannia”, se egli difende gli scampoli di tale industria nella figura dell’Eni e di poche altre imprese, non è certo perché pensa che queste si dedichino agli interessi generali del popolo italiano. Guai se lo facessero; indubbiamente sarebbero messe fuori mercato, permanendo il sistema capitalistico; e finora non mi consta che nessuno sia riuscito ad abbattere quest’ultimo o a trasformarlo se non per linee interne, solo dando vita a diverse forme storiche dello stesso, forme legate alla lotta per la supremazia in cui, in epoche successive, sono divenute preminenti formazioni caratterizzate da differenti configurazioni dei rapporti sociali capitalistici.
Ciò che conta è la trama generale del conflitto (in cui si utilizzano strategie mutevoli) tra gruppi e raggruppamenti sociali; e perfino conflitti interindividuali, andando alla loro trama più fine. Tuttavia – tanto per fare un esempio, come per i gas – diventa difficile seguire le tendenze relative all’interazione tra singole in(de)finite particelle. Si deve arrivare a sintesi più complessive quali sono le variabili riguardanti pressione, calore, ecc. Nella società diventa decisiva l’analisi della differenza di queste variabili in diversi comparti, a tramatura più grossa (ad esempio sul piano globale o mondiale) o più fine (all’interno di un paese o nazione), ecc. Soltanto una simile analisi consente di trarre alcune indicazioni generali, che sono quelle reperibili in molti trattati di strategia; e che tuttavia non devono trarre in inganno perché poi – ancora una volta imbattendoci nella grandezza del più notevole teorico della politica (non pragmatico, ma proprio teorico, come ha capito meglio di tutti un non comunista, un non marxista, come Cossiga) – ci si deve concentrare sulla leniniana “situazione concreta”, sulle sue determinanti specifiche che esigono considerazioni altrettanto specifiche. Non si può agire se non ci si rifà a “guerre” del passato; ma poi, in quella determinata “guerra”, in ogni sua particolare “battaglia”, è necessario fissare meglio l’attenzione sul suo effettivo svolgersi e sulle tendenze e svolte che la caratterizzano.
Il guardare la foresta e non l’albero non significa per nulla voler imprimere uno stampo generale – e inutilmente unitario – su una realtà a-storica: la Società, l’Uomo, lo “Spirito umano” (o una sua Epoca), ecc. Il problema è conoscere la storia di un evento o serie di eventi: quella passata, indispensabile per poi fissare l’attenzione su una data congiuntura di quella determinata realtà presa in esame (regionale, nazionale, continentale, mondiale; si tratta solo di esempi, i “tagli della realtà” possono essere assai diversi). Decisivo è, per ogni realtà (situazione) specifica, articolare quest’ultima secondo alcuni suoi fattori (variabili), considerati prevalenti nell’orientarne il movimento in (storicamente) particolari direzioni; un’articolazione al cui interno vanno gerarchizzati i fattori stessi in base agli effetti dinamici da essi provocati. L’unico principio generale da seguire è quello di posizionare al vertice quelli strategico-politici, quelli del conflitto per la supremazia, assai diversi però fra loro quando si tratta del conflitto fra paesi nel consesso mondiale (o di una sua area parziale), o invece fra imprese in un mercato (mondiale, nazionale o di dimensioni diverse), o fra partiti, gruppi di pressione, alleanze di dati gruppi contro altre, fra blocchi sociali, ecc.
Non si tratta di sottovalutare, tanto meno di ignorare, i cosiddetti fattori economici; e fra questi quelli finanziari. Nella società detta capitalistica, essi hanno senza dubbio speciale rilievo. Lo hanno tuttavia proprio perché nel processo che Marx denominò accumulazione originaria del capitale – processo null’affatto meramente quantitativo e di carattere solo economico in quanto fu invece un grandioso processo di trasformazione dei rapporti sociali nella transizione dalla formazione feudale a quella capitalistica – si verificò un fenomeno storico-specifico: l’estensione dei principi e metodi delle strategie del conflitto nella sfera economica. Essendo quest’ultima divenuta produzione generale di merci, avvenne la sua duplicazione in produttiva e finanziaria (dedita quest’ultima alle manovre della moneta in tutte le sue varie configurazioni e rappresentazioni, anche come monetizzazione della proprietà e delle sue rappresentazioni in titoli, ecc.).
Produzione e finanza (sottosfere di quella economica) sono fra loro in stretto intreccio e, nel contempo, si autonomizzano fra loro, la seconda divenendo quella più mobile e suscettibile di espansione anche figurativa, data la sua “liquidità”. Tuttavia, l’aspetto decisivo, che le ideologie dei gruppi dominanti in questa formazione sociale tendono a mascherare, è quello del conflitto tra strategie ai fini della supremazia. L’economia, e la finanza in specie, diventano strumenti rilevanti di questa strategia. Restano però strumenti. L’aspetto fondamentale è sempre la politica del conflitto, di cui quella che chiamiamo guerra è un caso particolare. Su questo aspetto va accentrata l’attenzione.
Quanto detto è specialmente valido quando si parla di pubblico o privato; e, soprattutto, quando tali caratterizzazioni, giuridico-formali, servono a segnalare particolari comparti della sfera sociale economica (produttiva e finanziaria). Anche in tal caso, l’ideologia dominante si scatena in orge di fraintendimenti sostanziali. Nessuno vuol negare l’importanza delle forme giuridiche nelle concrete azioni (“a spizzico”) che possono essere intraprese per utilizzare questa o quella parte delle diverse sfere sociali. Tutto va poi però ricondotto allo scontro tra gruppi dominanti per imporre la loro preminenza mediante l’applicazione della politica e delle sue strategie. Futile appare, a tale riguardo, la convinzione che la nazionalizzazione (statalizzazione) sia sempre positiva, rappresenti un passo in avanti verso il conseguimento di interessi generali riguardanti l’intero complesso sociale (senza distinzione di stratificazioni e segmentazioni fra loro in contrasto di interessi). Altrettanto futile appare l’identificazione dell’interesse privato con la maggiore efficacia di date attività che, allora, conseguirebbero sia pure indirettamente il fine di soddisfare i bisogni della collettività (o della sua maggioranza).
Bisogna proprio cambiare registro di analisi. Pubblico e privato appaiono determinazioni secondarie, accessorie; che interessano solo le scelte o obbligate o contingenti o di facilitazione di certi rapporti tra sfera politica ed economica, ecc. Per le questioni sostanziali, si vada oltre; si lasci perdere la forma giuridica della proprietà e si guardi alla politica e alle sue strategie. E si individui dove sono situati i centri decisionali strategici, che più contano ai fini dei rapporti di forza tra gruppi e tra raggruppamenti; sia all’interno delle formazioni particolari (in genere paesi) sia sul piano mondiale.
Finito il 15 aprile 2010
1 Si sentono fischiare le orecchie gli italvaloristi, i grillini, i micromeghini e i ciarlatani vari che circolano in internet, questi autentici mentecatti e disonesti distruttori di ogni pensiero critico-razionale, certamente non antitetici, bensì coadiutori dei dominanti, che ben li remunerano in tanti sensi e concedono loro incredibili spazi mediatici?
2 Da non confondere assolutamente con “la formazione economica della società” di cui parla Marx e che è semplicemente il processo di conformazione di un’intera società da parte dei nuovi rapporti sociali produttivi (base economica), in fase di prevalenza sui vecchi ormai superati e divenuti catene per lo sviluppo delle forze produttive; quest’ultimo allora romperebbe “le catene”, i vecchi rapporti, facendo emergere il nuovo dalla vecchia scorza ormai in pezzi (la rivoluzione è quindi per Marx “la levatrice di un parto ormai maturo nel grembo” della vecchia forma di società, dei rapporti sociali di produzione). Con il concetto leniniano di formazione economico-sociale si può pensare alla rivoluzione in una formazione sociale in cui hanno ancora un ruolo progressivo (in tema di sviluppo delle forze produttive) i rapporti dei vecchi modi di produzione. E’ dunque la rivoluzione – la politica al posto di comando – che spinge in avanti verso il predominio dei rapporti del nuovo modo di produzione. I vecchi rapporti non sono catene, senza la cui rottura la società non si sviluppa per cui tutti (salvo una ristretta classe di rentier parassiti) avvertirebbero il bisogno della rivoluzione per affermare i rapporti del nuovo modo di produzione. Se i rivoluzionari non stanno attenti, la rivoluzione arretra; e qui subentra il problema degli apparati rivoluzionari coercitivi, della battaglia ideologico-culturale, della formazione delle alleanze e dei blocchi sociali, ecc. Un orizzonte enormemente più ricco e più vasto di quello consentito dal più elementare modello marxiano del modo di produzione a due classi. Per questi motivi Lenin – e non semplicemente perché viene dopo Marx, in una nuova fase storica – è in grado di vedere “di più” del suo “Maestro”, rappresenta un gradino più alto nell’elaborazione di una teoria della rivoluzione. E non necessariamente una teoria marxista “ortodossa”. Lenin vede più di Marx perché è politico; tutto in lui, anche quando si crede che affronti problemi filosofici, è invece strategia di lotta politica. Quindi Lenin – anche se per motivi storici particolari (il tradimento delle socialdemocrazie nella prima guerra mondiale) gioca il ruolo dell’ortodosso, di colui che ripristina il pensiero di Marx (e perfino di Engels) – è al contrario il primo (e l’unico dei “marxisti”) ad iniziare la fuoriuscita dal pensiero di Marx; ma, lo ribadisco, fuoriuscita da quella porta, non da altre. E la fuoriuscita ha effetti pratici sconvolgenti perché Lenin comprende che il problema centrale è la politica, cioè la concezione del conflitto strategico per la supremazia. Non a caso è il primo (seguito poi da Mao) a porre in rilievo come la rivoluzione non riesca laddove si pensa sia più forte; essa germina, scoppia e vince laddove i dominanti sono più deboli perché dilaniati dal loro conflitto per la supremazia (mondiale). Quindi non il semplice conflitto classe contro classe (dei meschini ripetitori di giaculatorie marxiste), bensì quello di un paese imperialistico contro altri paesi imperialistici, è il migliore viatico per lo scoppio della rivoluzione. Ma questo discorso è di tale rilevanza che merita ben più di una nota. Lo riprenderò a parte.
3 Subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, e anche durante gli anni della Nep, il modo di produzione pensato come prevalente in Urss fu quello della piccola proprietà, spesso non ancora capitalistica. Che la forma capitalistica fosse aiutata a divenire predominante per un certo periodo di tempo era considerato necessario, pur sotto il controllo della sedicente dittatura proletaria, per riuscire ad innescare la vera fase di transizione (al socialismo intanto, quale primo gradino del comunismo). Naturalmente, si doveva anche dare impulso alla crescita del settore della proprietà statale, in una prima fase almeno (penso per merito di Lenin, pur malato) non immediatamente identificata con la proprietà socialistica; semplicemente una sorta di modo di produzione a capitalismo di Stato. Dopo il 1929, l’indubbiamente necessaria accelerazione del processo di accumulazione, a carattere industriale e pianificato dal centro, prese il davanti della scena e, alla fine, si pensò a tale processo come “costruzione del socialismo” pura e semplice. Il concetto leniniano di formazione economico-sociale fu di fatto abbandonato. Esso fu invece importante, pur se ancora invischiato nella tematica della predominanza dei rapporti sociali in ambito produttivo (modalità, sia pure attenuata, di economicismo), per pensare la rivoluzione in un paese non caratterizzato dal modo di produzione capitalistico (a due classi fondamentali e decisive nella loro semplicistica lotta antagonistica), l’unico di cui Marx, sul modello del capitalismo inglese, pienamente sviluppato ai suoi tempi e predominante mondialmente, avesse costruito la trama di relazioni considerata “essenziale” e base portante dell’intera formazione sociale. Non c’è nulla da fare: Lenin lascia a diverse lunghezze Marx; è l’autentico teorico della Rivoluzione; e non semplicemente “proletaria”, mera superfetazione ideologica, legata ad un dato tempo storico, ad una data fase del conflitto. Questo fu mondiale (geopolitico), ma dovette essere ridotto per le esigenze del momento a quello della “classe contro classe”; da ciò la sua inevitabile involuzione, sconfitta e crollo. Guai a chi (si) inganna sulla posta in gioco, sulle forze nel campo della lotta. Per questo, oggi, comunisti e marxisti sono reazionari, stanno con i peggiori predominanti; la loro involuzione era necessitata dall’errore storico commesso. Lenin fu giustificato nella congiuntura in cui visse e agì; i comunisti e marxisti odierni non più, sono nemici (non semplici avversari) da combattere, perché hanno fatto strame di prassi e di teoria. Chi non capisce il mutamento dei tempi, da progressista diventa il peggiore dei reazionari.
4 Anche se alcuni, con specifico riferimento all’Italia, si mettono ad adorare la “Costituzione antifascista”, sono filistei, anzi i peggiori e più mentitori fra questi; in genere i più fasulli, per nostra fortuna. Sono però talmente meschini, e sono ancora una volta generati dal degrado storico del comunismo e marxismo, che sono i più irritanti, quelli da disprezzare senza un attimo di sosta. Un conto sono i grandi “reazionari” (che poi sono “rivoluzionari”; mettiamo un Carl Schmitt), un altro questi non pensatori vendutisi per una “pipa di tabacco” (i “trenta denari” erano per Giuda, un personaggio di buona taglia); il deserto del loro cervello è una vista sconsolante come assistere a certi talk show in TV.
5 Quest’ultima teoria (ideologia) dei dominanti è particolarmente utile oggi, entrando in un periodo di sostanziale stagnazione con sviluppo e trasformazioni interne dei vari paesi (e modalità sociali dei capitalismi), per giustificare la prassi imprenditoriale, nelle formazioni dei funzionari del capitale, di espellere all’esterno buona parte del lavoro salariato rendendolo formalmente (giuridicamente) autonomo, mentre è sempre soggetto, almeno prevalentemente, agli ordini di quella impresa, se non altro per i finanziamenti (diretti o tramite fideiussioni e garanzie bancarie) ricevuti per restare “autonomi”. Un bel modo per scaricare costi (fra cui contributi pensionistici, sanitari, ecc.), responsabilità, rendendo i lavoratori, non più garantiti nel posto di lavoro, anche più docili. In ogni caso, è certo che tali formalismi creano differenziazioni, e magari frizioni, all’interno della presunta “classe operaia”.
6 Da qui nasce – ammessa (e non concessa) la buona fede (troppi i vantaggi per questi superficiali, le cui mediocri idee sono diffuse da tutti i media dell’establishment) – il bla bla dei decrescisti; come minimo si sono lasciati trascinare nella trappola ideologica (l’utilitarismo) dei dominanti, pronti sempre ad accettare il contrario speculare della loro ideologia, che non fa altro che consolidarli nel loro predominio; sono essi a condurre il gioco, anche quello degli avversari, simili a Don Chisciotte che carica i mulini a vento. Siamo sempre al gioco degli specchi, noiosissimo quant’altri mai e in cui la vincita è, alla fine, sempre del “banco” (non lo sanno proprio i giocatori d’azzardo?).