Il mio sogno estetico? Ascoltare altra musica
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“però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni”
Fabrizio De André – Storia di un impiegato (1973), Nella mia ora di libertà
Lo confesso. Ascoltando per la prima volta l’ultimo album di Caparezza Il sogno eretico, ciò mi ha lasciato musicalmente indifferente. Mi sono macchiata del grave peccato dell’indifferenza. E la parola ‘indifferenza’ non è qui casuale, in quanto gioca un ruolo importante sia in questo articolo sia nell’album in questione, nonché nelle platee propagandistiche del teatrino politico-canoro italico.
Che fosse quell’incipit “Nessun dorma, nessun dorma”, tratto dalla famosa aria della Turandot, un inconsapevole avvertimento? Forse come dire che il seguito dell’album avrebbe messo a dura prova le palpebre dell’ascoltatore? Ma perché essere prevenuti, mi sono detta, così l’ho riascoltato più volte, prestando molta attenzione alle parole. Ed ecco il miracolo! La tanto temuta indifferenza si è mutata in un sentimento di delusione e di fastidio, sia dal punto di vista musicale sia contenutistico. Che sia un peccato più grave? Non saprei. Ce lo potrebbe dire il nostro ‘eretico’, il quale, abbandonando completamente l’ironia e la fantasia dei precedenti lavori, ha deciso di indossare il saio per propinarci una lunga predica sulla situazione politica italiana.
Dopo il preludio pucciniano, il terzo brano, il migliore dal mio punto di vista, parla della musica: “Io non faccio musica ma il cacchio che mi pare”. È la rivendicazione di un musicista di poter scrivere liberamente le proprie canzoni nell’ambito di un panorama musicale caratterizzato dal controllo e dalle mode, laddove il pubblico è totalmente lobotomizzato dalle tendenze correnti e perciò privo di senso critico.
E fin qui siamo tutti d’accordo. Il pezzo è sarcastico quanto basta e conserva ancora quella graffiante ironia propria del Caparezza dei tempi migliori. Ma andando avanti nell’ascolto, ci si rende conto che il contenuto (totalmente condivisibile) di questo brano entra in contraddizione con lo spirito che affiora dal resto dell’album. Mi chiedo: ma perché un artista, che neanche vuole definirsi tale e che si ritiene puro e libero nel creare, ha bisogno di accodarsi alla propaganda del quotidiano di De Benedetti, La Repubblica (propaganda che peraltro passa in modo pervasivo in televisione)? Poiché Il sogno eretico suona proprio come la trasposizione letterale in musica (mediocre) della propaganda di Repubblica.
In questo album, incoerentemente con quanto egli stesso aveva affermato, l’artista ‘libero’ pare che abbia proprio deciso di schierarsi. E lo ha fatto perdendo, oltre l’ironia e la fantasia (come ho già detto), anche quello spirito dirompente che caratterizzava i precedenti lavori, in particolare Le dimensioni del mio caos. E la perdita di tale spirito si riflette inevitabilmente nella creazione artistica, sia come mancanza di ispirazione sia come abbassamento della qualità musicale. La critica è al contempo estetica e concettuale: dal punto di vista estetico concerne il rapporto tra il linguaggio dell’arte (sentimento, fantasia, ironia, poesia, ecc…) e un contenuto razionale (politico in questo caso); dal punto di vista concettuale la critica riguarda invece l’adesione alla propaganda del grande giornale-partito di De Benedetti.
Che l’album sia ‘politicizzato’ è palese, ma qui non si sta contestando il fatto di trattare tematiche inerenti alla politica, ma del come lo si fa e con che spirito. Infatti, prima di proseguire con l’analisi dei singoli brani, è necessaria una premessa di carattere estetico sulla cosiddetta ‘canzone impegnata’ o ‘politicizzata’. E qui devo ricorrere all’aiuto di un grande filosofo tedesco, Immanuel Kant. Egli, nella Critica del giudizio sosteneva che il giudizio estetico (o giudizio di gusto), cioè quel sentimento che si prova davanti a qualcosa, è un sentimento disinteressato. Cioè la contemplazione del bello è un piacere libero che appartiene agli essere umani in quanto sensibili e razionali. La qualità del giudizio estetico è il ‘disinteresse’ inteso kantianamente come indifferenza all’esistenza dell’oggetto (dal punto di vista razionale). Quando si contempla una ‘forma’ artistica si crea una relazione armonica tra l’opera d’arte e le nostre facoltà mentali suscitando quello che Kant definisce “libero gioco di intelletto e immaginazione”. ‘Libero gioco’ in quanto nella fruizione del bello l’immaginazione è libera dai dettami della razionalità, mentre l’intelletto vi partecipa come forma diversa di conoscenza che non è la conoscenza scientifica/razionale (propria, quest’ultima, della “legislazione dell’intelletto”). Nel bello, secondo Kant, non c’è un concetto ma “universalità di sentimento”, ovvero una sorta di universalità soggettiva: il godimento estetico passa attraverso i filtri della mia percezione (soggettiva) in comunicazione con la ‘forma’ artistica, ma la stessa ‘forma’ può suscitare lo stesso sentimento anche in altri soggetti (universale).1
Kant parlava anche di “finalità senza scopo”: per poter disporsi alla contemplazione della ‘forma’ del bello, tanto da suscitare quel “libero gioco tra intelletto e immaginazione”, lo scopo razionale di quel prodotto artistico, definito da Kant “il concetto dell’oggetto”, non deve essere percepito. O meglio, esso può essere avvertito ma non deve dominare, perché, se così fosse, prevarrebbe l’intelletto sull’immaginazione ed avremmo una forma di conoscenza razionale anziché il godimento estetico.2
Ma come rapportarsi ad una creazione artistica nella quale il “concetto dell’oggetto” (ovvero il contenuto razionale) è molto forte, come nel caso di canzoni che trattano temi politici? Come è possibile che ciò susciti in noi il “libero gioco tra intelletto e immaginazione”? Anche in questo caso la risposta è data da Kant. Nella creazione artistica sia la tecnica sia il “concetto dell’oggetto” sono imprescindibili; 3 ma quello che Kant definisce il “genio artistico” è colui il quale è in grado di trascendere entrambi (pur conservandoli). L’artista o genio è in grado di trovare delle rappresentazioni dell’immaginazione che fanno pensare molto senza che nessun concetto possa essere loro adeguato e nessuna lingua possa esprimerle; ossia, come ci dice Kant, “senza lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato”.4 Ci deve essere cioè un surplus di immaginazione sull’intelletto, cosicché anche nella fruizione l’emozione prevalga sull’indagine razionale.
In sintesi, l’artista è tale in quanto è capace, partendo da un concetto contingente sul quale basa la sua opera, di travalicarlo esprimendo così un sentimento più universale che ha il potere di colpire il cuore e di emozionare coloro i quali fruiscono di quella creazione artistica.
Per queste ragioni, fare arte ‘politica’ è molto difficile e bisogna essere veramente geniali per trasporre nel linguaggio della ‘libertà’ (fantasia) concetti inerenti alla sfera della ‘necessità’ (realtà oggetto di indagine razionale/scientifica). Un esempio della capacità di coniugare queste due sfere così distanti l’ha dato Giorgio Gaber nella sua musica, una sorta di commistione tra la canzone e il monologo teatrale. Egli ha infatti saputo esprimere, attraverso l’ironia e una dolce-amara vena malinconica, tematiche politiche. E lo ha fatto con una profondità, una sensibilità e un’intelligenza tali da oltrepassare la contingenza degli stessi argomenti trattati, conferendo loro un carattere più universale. Lo stesso dicasi per Fabrizio De André nell’album Storia di un impiegato, nel quale lo spirito degli anni ’70 si trasfigurava in un’amara riflessione sul potere.
Ne Il sogno eretico, invece, non si va oltre la sfera del contingente: i contenuti politici (concetto dell’oggetto) ed il linguaggio con il quale vengono espressi (giornalistico, non ironico, non metaforico) offuscano completamente quel surplus di senso e di fantasia che dovrebbe far suscitare emozioni e che poteva essere riscontrato nei precedenti lavori di Caparezza. In sintesi, viene a mancare quel “libero gioco tra intelletto e immaginazione”: l’immaginazione dorme, mentre l’intelletto, male che vada, può sempre dissentire. E vediamo infatti quali sono le argomentazioni del mio ‘intelletto’ dissenziente. Come si diceva in precedenza, l’album è la trasposizione in musica della propaganda del giornale-partito di De Benedetti. Bene, vediamo perché.
Il musicista ‘eretico’, il quale dichiara giustamente di fregarsene “di tutti i mercenari della musica”, successivamente si rivolge alla “pletora di uomini pecora”, priva di identità; siamo nel quarto brano, Il dito medio di Galileo, dove, attraverso la metafora ‘vaffanculesca’, si esorta la massa a ribellarsi:
“Portiamo il dito medio di Galileo
Portiamolo alla testa del corteo”
Ma quale corteo? Poiché l’antagonismo e l’anticonformismo sono vesti pesanti da indossare e richiedono una certa dose di indipendenza per poter essere credibili. Se ci si schiera in linea con i dettami di uno dei due conformismi in competizione, nel caso specifico destra-sinistra (che per chi scrive sono le due facce della stessa medaglia), cadere in contraddizione è inevitabile. Naturalmente le ‘pecore’ appartengono a un solo steccato, quello di destra, quando, guarda caso, ci si dimentica sempre del grande ovile debenedettiano.
Tornando al brano, esso si rivela essere, come il successivo (Sono il tuo sogno eretico), un pezzo contro la chiesa che ottunde le menti e mette all’indice il libero pensiero: anche qui si tratta di un facile anticonformismo, poiché la Chiesa Cattolica, al giorno d’oggi, ha perso quel potere di influire in maniera invasiva sulla vita delle persone; i fondamenti religiosi si sono sgretolati da un pezzo. La chiesa risulta così un facile bersaglio in quanto è un potere secondario o ausiliario rispetto ad altri poteri per quanto riguarda il controllo mediatico e la creazione della cosiddetta pubblica opinione.
Ed ecco comparire, in Cose che non capisco, un tema tanto caro alla ‘sinistra’, quello dell’indifferenza:
“Gomorra best seller
si moltiplica come un porno sul server
a che serve dire che fa affari se ti fai gli affari tuoi da sempre?”
E devo insistere qui sull’indifferenza in quanto l’invettiva contro questo ‘peccato capitale’ è diventata di gran moda sui nostri teleschermi. Come tutti sanno, ciò è stato al centro della manifestazione canora sanremese, laddove è stato letto da due comici (ma con intenti ‘seri’) un famoso passo di Antonio Gramsci, Indifferenti.5 La celeberrima frase “odio gli indifferenti”, completamente decontestualizzata, veniva applicata alle odierne diatribe tra berlusconismo e antiberlusconismo, secondo una prassi che definire scorretta è dire poco. Si è trattato infatti di una vera e propria profanazione dello spessore morale del grande pensatore sardo, il quale, a quest’ora, penso si stia ancora rivoltando nella tomba: suppongo che se avesse saputo di finire a Sanremo non avrebbe scritto neanche una riga. Del resto, se nella teoria gramsciana si prendeva in considerazione la figura ‘dell’intellettuale organico’, perché non dare voce anche ai ‘menestrelli organici’? Sappiamo che Caparezza non ama Sanremo, né tantomeno la canzonetta melodica italica, come ha dimostrato in più occasioni; ma, di nuovo, perché dire “non mi piace Sanremo” e poi ricalcarne la propaganda? È forse un ritorno al passato, una sorta di Miki Mix in versione più matura, adulta….oserei dire ‘gramsciana’?6 Magari la ragione di tutto ciò risiede nel fatto che quest’anno Sanremo è diventato ‘di sinistra’, mentre la scorsa edizione del festival era stata consacrata al ‘canoro principino’ di Savoia (dunque era ‘di destra’).
Vorrei qui soffermarmi sulla questione delle invettive contro l’indifferenza e sulla retorica della partecipazione, poiché ci sono due tipi di indifferenza:
- Una sorta di disinteresse, di apatia che ti rende insensibile a ciò che ti circonda e che ti impedisce di fare qualcosa per migliorare la propria vita e quella degli altri. E sicuramente abbiamo in questo caso un tipo di sentimento non positivo.
- Un sacrosanto sentimento di disinteresse nei confronti di dinamiche talmente degradate che non meritano neanche di essere prese in considerazione. Questo tipo di indifferenza preserva le persone dal partecipare mettendosi al servizio degli interessi di chi ti fotte meglio.
Al contrario di Caparezza e degli echi sanremesi, io sono decisamente una sostenitrice di questo secondo tipo di ‘indifferenza’. Meglio rimanere indifferenti, meglio farsi una bella dormita, tanto per tornare all’incipit pucciniano; perché, se non si fosse capito, “Nessun dorma” era un palese monito contro il grande peccato dell’indifferenza nonché un’enfatica esortazione a partecipare sposando la causa dei ‘buoni’ e del ‘Bene Universale’. E per ‘Bene’ in questo caso si intenda il carrozzone PD-De Benedetti, tessera numero uno del PD, il quale, più che degli interessi concreti del paese, sembra rispondere a quelli della finanza internazionale. Anche Giorgio Gaber sosteneva che “libertà è partecipazione”, ma asseriva ciò in un contesto storico, politico, sociale in cui partecipare aveva un senso. Oggi ‘partecipare’ suona invece come un asservimento strumentale alle due fazioni in lotta nel ‘gioco al massacro’ tra berlusconismo e antiberlusconismo; ‘gioco al massacro’ che non sta facendo altro che condurre il paese allo sfascio.
Ecco che è venuto il momento di parlare di antiberlusconismo, o come io preferisco chiamarlo, di ‘riduzionismo antiberlusconiano’, cioè di quell’ideologia personalistica che riduce le dinamiche politiche al presunto volere di un singolo, astraendole completamente dai rapporti di forza reali. Caparezza, fedele ai moniti sanremesi, indignato, ha deciso di abbracciare la ‘nobile’ causa debenedettiana, di aderirne alle crociate e di innalzarne i vessilli attraverso un pezzo: Legalize the premier. Devo però fare una premessa. Qui non si vuole criticare la scelta di Caparezza di avere scritto un brano contro Berlusconi, cosa che peraltro aveva già fatto in passato in Ninna nanna di Mazzarò. Chi scrive qui, lo ripeto per evitare fraintendimenti, è oltre lo scontro destra-sinistra. La critica, ancora una volta, è sia concettuale sia estetica. Dal punto di vista concettuale essa consiste nel trasporre, senza originalità alcuna, i dettami di un conformismo dominante (la propaganda di Repubblica), strizzando l’occhiolino alla magistratura. Si consideri che quest’ultima si pone come un gruppo sociale ben calato nell’arena politica e che non è affatto al di sopra delle parti. Inoltre non si può nemmeno confondere e mettere sullo stesso piano la giustizia formale della legge e il concetto filosofico o morale di giustizia; sono due cose ben distinte.
Dal punto di vista estetico, il discorso è più complesso, e per affrontarlo è necessario confrontare Legalize the premier con Ninna nanna di Mazzarò. Quest’ultimo era una divertentissima e intelligente satira contro il suddetto personaggio, ma non solo. Il brano, infatti, esprimeva al contempo contenuti più universali, come la derisione della brama di potere e dello spasmodico desiderio di beni materiali (quella che nel mondo classico veniva definita πλεονεξια). Il tutto era reso attraverso una duplice metafora: il richiamo al personaggio di Giovanni Verga come simbolo dell’accumulazione della ‘roba’ e la rappresentazione della prevaricazione e della cupidigia attraverso le fasi della vita (dall’infanzia all’età adulta). Nel brano, estremamente fantasioso e ironico, quel sovrappiù di senso e di immaginazione, reso mediante il gioco e la metafora, scavalcava il contenuto razionale (concetto dell’oggetto), suscitando così il godimento estetico. In Legalize the premier, invece, non c’è fantasia ancor meno originalità, non ci sono metafore ma solo giochi di parole. Non ci sono situazioni surreali capaci di suscitare il riso, ma solamente una noiosa e piuttosto banale trascrizione di discorsi fin troppe volte sentiti nei media e in particolare nelle pagine di Repubblica. In conclusione, non si rimprovera qui a Caparezza di avere scritto un pezzo contro Berlusconi: una feroce parodia di costui è tanto legittima quanto la canzonatura di qualsiasi altro uomo politico, poiché l’intera classe politica italiana, da destra a sinistra fino alla cosiddetta sinistra radicale, è completamente marcia. È una mistificazione vedere in un’unica persona il ‘cattivone’ che è causa di tutti i mali d’Italia, facendo finta di non conoscere quali poteri, ben più alti di una ‘marionetta’ posta a capo dello stato, siano realmente in gioco. Ed è una mistificazione che si accorda perfettamente con gli interessi (nefasti) di una parte di questi poteri.
Proseguendo con l’ascolto, uno dei pezzi peggiori è Non siete stato voi, ovvero una lunga predica rancorosa e moralista che si risolve anch’essa in un ‘osanna’ nei confronti della magistratura. Del resto, se quest’ultima è una porzione consistente dell’apparato statale, ne consegue che porsi sotto la sua ala protettiva possa sempre venire utile per chiunque, anche per i ‘menestrelli organici’; anche per un ‘musico’ così critico al quale quello stesso stato taglierebbe addirittura le corde vocali (testuali parole). ‘Magistratura I love you’: questo feeling nei confronti della magistratura è tanto più deludente se si considera il fatto che, da sempre, il corpo dei magistrati è stato oggetto di avversione da parte degli artisti (si veda De André ne Il gorilla). Ma non è tutto. Infatti, dopo la magistratura è il turno della ‘sviolinata’ sulla costituzione democratica. Anche in questo caso non si può che provare disappunto, poiché è una delusione vedere una persona intelligente e sagace, quale è Caparezza, cadere dalle nuvole e pretendere di credere alla fiaba sdolcinata della costituzione frutto della volontà popolare. Del presunto fondamento dei suoi ‘sacrosanti’ principi era già stata fatta una gustosa parodia da altri musicisti, ad esempio da Frankie HI-NRG.
Dulcis in fundo, ecco la vera ‘perla’ dell’intero album: Goodbye Malinconia. Ovviamente stiamo parlando dell’Italia ed ancora una volta è la propaganda di Repubblica che incalza. Ormai da anni, infatti, il giornale-partito sta battendo il chiodo sulla cosiddetta questione della ‘fuga di cervelli’, ovvero la ‘fuga’ di quei giovani ricercatori universitari che scelgono di espatriare causa il degrado dell’università italiana. Attraverso un leit-motiv trito e ritrito, secondo il quotidiano di De Benedetti le cause della situazione in cui versa la ricerca in Italia sarebbero da addebitare solamente alle riforme degli ultimi cinque anni, come se tutto ciò non fosse imputabile all’operato di qualunque governo (di centro-destra o di centro-sinistra) succedutosi da vent’anni a questa parte (a cominciare dalla famosa Legge Ruberti).
Ma ritorniamo a parlare di musica e del pezzo in questione; di nuovo sono due i punti che vengono qui confutati:
- il contenuto altamente propagandistico del brano
- il linguaggio con il quale esso viene espresso
Dal punto di vista contenutistico, il brano si presenta come un triste affresco di un paese che si sta spopolando (?!), in cui tutti piangono e toccano il fondo: “non ti accorgi ma da qua se ne vanno tutti”. Effettivamente non me ne ero accorta, poiché, statisticamente parlando, non stiamo assistendo a flussi migratori di persone che dall’Italia approdano ad altri più ameni lidi. Ma qui, ahimè, non si riscontra il tentativo di analizzare razionalmente i fenomeni reali (attività che peraltro non compete all’artista); siamo invece di fronte ad un pezzo musicale che è ‘organicamente’ una eco di Repubblica e della trasmissione televisiva Vieni via con me. Il giornale-partito e il programma dell’accoppiata Saviano-Benigni, infatti, stanno portando avanti una campagna di esortazione all’emigrazione (come si può notare dal titolo stesso del programma). Ciò è gravissimo in quanto i gruppi di potere che stanno dietro a questo tipo di propaganda avrebbero tutto l’interesse ad allontanare le forze più giovani e istruite della nazione; in questo modo potrebbero comandare indisturbati, lasciando il paese nelle condizioni più degradate senza la minima opposizione. Ed anche Caparezza, con grande delusione da parte di chi sta scrivendo, ripete il ritornello: “metti nella valigia la collera e scappa da Malinconia”.
Per quanto riguarda il linguaggio, invece, espressioni quali “cervelli in fuga”, “migranti in fuga”, “capitali in fuga”, “rapporti tra Washington e Teheran” parlano da sé: esse non hanno niente a che vedere col ‘vocabolario’ dell’arte ma costituiscono una terminologia di tipo giornalistico o propria della saggistica. Sono termini che quotidianamente leggiamo sui giornali, non c’è nessun tentativo, da parte dell’autore, di caricarli di quel surplus di senso e di sentimento capace di suscitare emozioni (addirittura “Cervelli in fuga” è una farse coniata da Repubblica stessa). Non c’è nemmeno il vago intento di trovare la metafora. Ricapitolando, niente immaginazione, ‘concetto dell’oggetto’ (peraltro discutibile) portato alle stelle; risultato: il nervoso al posto del godimento estetico. Infatti, la reazione delle mie ‘facoltà mentali’ con la ‘forma artistica’ è stata di grande fastidio e non certo di piacere.
Sinteticamente, Il sogno eretico potrebbe essere così descritto: va di moda lanciare anatemi contro l’indifferenza, allora vi si inveisce contro; va di moda l’antiberlusconismo, allora vi si dedica un pezzo; va di moda istigare all’emigrazione, allora si spronano le masse all’espatrio. Il tutto reso attraverso motivetti facili e orecchiabili adatti ad essere ascoltati giusto in discoteca. L’abbassamento della qualità musicale è evidente rispetto ai due album precedenti: altri ritmi, altre sonorità, altra la finezza nell’uso della parola (qui piuttosto involgarito e banalizzato). Io mi auguro che tale caduta sia soltanto momentanea e che Caparezza torni ad essere quello di sempre, graffiante, sagace e pieno di inventiva; spero pertanto che si tolga il saio per indossare nuovamente i costumi da Mago di Oz, per ritornare, insomma, a fare l’artista.
In sintesi, Il sogno eretico è un lungo ‘sermone di sinistra’, musicalmente asettico, “che un domani può venir buono per le elezioni”, citando il grande Gaber. No grazie.
Per concludere si potrebbe così redigere un assioma: quando ci si vende alla propaganda del migliore offerente, l’ispirazione artistica declina inesorabilmente. Il mio sogno estetico? Ascoltare altra musica.
1Immanuel Kant, Critica del giudizio, Analitica del bello, p. 87; par.8 p. 97.
2Immanuel Kant, Critica del giudizio, par. 10-12; p. 73.
3Immanuel Kant, Critica del giudizio, par 49, p. 103.
4Immanuel Kant, Critica del giudizio, par 44, p. 307.
5La Città futura, pp. 1-1 Raccolto in SG, 78-80.
6Qui il termine ‘gramsciano’ è inteso in senso chiaramente ironico.