RICORDARE PER ANDARE OLTRE
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1. Chiedo venia al lettore se ogni tanto mi diletto (e mi diletterò) a parlare di questione vecchie e che forse non è in questo momento così urgente risollevare. Tuttavia, non dico di essere stato un protagonista, ma almeno uno spettatore attento di alcuni eventi cruciali. Inoltre, ho partecipato a tanti dibattiti del passato, per cui a volte non posso fare a meno di andare anche ai ricordi di un altro tempo, certo passato e che macina ormai oggi ben poco. Non è comunque questione di nostalgia, che capisco ma non coltivo. Solo credo si debba evitare che i ricordi siano troppo alterati perché questo può avere ancor oggi effetti negativi.
Ho criticato spesso e anche aspramente certo marxismo; anzi, è bene dire che ho sostenuto, in generale, la necessità di uscire da questa teoria pur tenendo conto che essa ha molte sfaccettature. Fra l’altro, bisognerebbe tenere presente che il marxismo, su cui si è dibattuto fin da quasi subito e per tutto il XX secolo, non è un tradimento, ma certo contiene alcuni cambiamenti essenziali rispetto a quanto sostenuto da Marx. Si può capire che cosa significa socialismo (prima fase del comunismo) e poi vero e proprio comunismo solo se si tiene presente la previsione di Marx circa la tendenza – intrinseca alla dinamica del capitalismo, anzi per l’esattezza del modo di produzione capitalistico; un’esattezza è necessaria per non parlare a vanvera – alla formazione dell’operaio combinato (o lavoratore collettivo cooperativo) in quanto riunificazione nel corpo del lavoro salariato (e produttore di pluslavoro/plusvalore) dell’ “ingegnere e del manovale” (espressione di Marx), cioè delle funzioni direttive ed esecutive; anche qui, più precisamente, delle “potenze mentali della produzione” e del lavoro manuale.
Con Kautsky, il vero fondatore del marxismo su cui si è poi dibattuto per oltre un secolo, questo corpo lavorativo è stato di fatto ridotto alla “classe operaia” in senso stretto, alle cosiddette (un tempo) “tute blu”. I lavoratori della mente sono spesso divenuti specialisti borghesi, da alcuni poi considerati (demenzialmente) in via di proletarizzazione, per altri comunque dei potenziali alleati della suddetta classe, ecc. Ho parlato a iosa di tale problema e non starò qui a riassumerlo. In ogni caso, l’aver ammesso che la dinamica capitalistica non conduceva al lavoratore collettivo di cui sopra, non ha più fatto capire come tutta la questione del “soggetto rivoluzionario” dovesse essere rivista. Tuttavia, lo ripeto, non è qui adesso possibile riassumere decenni di dibattiti al proposito. Tanto più che, da ormai alcuni anni (direi molti a questo punto) ho sostenuto l’esigenza di “uscire” dal marxismo tout court, cioè di superarlo. Ho però anche insistito, e temo di non essere ancor oggi capito, che a mio avviso si deve uscire da quella porta, non semplicemente ignorarla, dimostrando di non conoscere pressoché nulla di tale teoria (comunque poco e in modo troppo approssimativo, in base a tali deformazioni della stessa da renderla del tutto immaginaria, una teoria inventata da consapevoli o inconsapevoli falsificatori).
Superare il marxismo, uscire da esso, significa, per l’essenziale, rendersi conto che esso ha sempre funzionato in base a schemi interpretativi di fatto duali, di antagonismo netto e secco, tra un soggetto della rivoluzione e uno della reazione o conservazione. Il che significa che i due sostanziali soggetti vengono disposti in verticale – oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, ecc. – quali antagonisti irriducibili fra loro: appunto rivoluzione e reazione o conservazione. Ormai da tempo ho sollevato la polemica intorno a tale schema semplicistico, che ha creato guai a non finire. Ho sempre però tenuto a ricordare che non è mia intenzione semplicemente ignorare quella che veniva definita a suo tempo “analisi di classe”; tipica di tutto il marxismo (ivi compreso il vero e proprio pensiero di Marx).
L’uso di termini generici come dominanti e dominati è servito appunto a sottolineare che occorre compiere un’analisi molto più accurata – di cui non possediamo adeguate concettualizzazioni scientifiche – dei complicati intrecci interazionali esistenti nella società; in generale e non soltanto in quella che viene definita capitalistica in base a semplificazioni inerenti alle sue forme economiche del mercato e dell’impresa. Ho spesso preferito usare decisori e non decisori perché è terminologia atta a porre ancor più in luce – visto che ci si deve riferire a decisioni di effettivamente vasta e profonda portata ai fini del percorso storico seguito da una formazione sociale (altro termine assai generico) – come i gruppi di decisori possano essere molti e uniti da varie relazioni di conflitto o alleanza; ed egualmente i non decisori non debbano essere tutti messi in unico fascio e pensati quali antagonisti frontali dei decisori.
Malgrado queste indubbie genericità terminologiche, ritengo fondamentale tenere sempre sullo sfondo la conflittualità tra gruppi sociali (da analizzare in base ad un apparato categoriale pur ancora rudimentale): gruppi di carattere economico o politico, che si esprimono mediante attività di apparati specifici nelle diverse sfere sociali. In molte occasioni, soprattutto nella fase storica attuale, si deve far ricorso in particolare ai rapporti di conflitto/alleanza tra paesi, quasi sempre identificati con Stati, a volte nazioni. Così parliamo di Italia, Stati Uniti, Russia, Cina e via dicendo. Lo dobbiamo fare i molti casi, non è un uso errato. Lo diventa se però riteniamo che si tratti delle uniche realtà – o comunque di quelle essenziali in sede teorica – per poter parlare di eventi storici, di fasi o epoche, ecc. E non credo che l’errore si sani semplicemente ricorrendo poi all’indicazioni di vaste, e spesso generiche, aree geografico-culturali; sociali nel senso speciale dell’unificazione appunto culturale, di usi e costumi, di religione, ecc.
Il marxismo – pur nella sua indicazione, appunto duale e in verticale, ormai divenuta troppo semplice – ci segnala che stiamo saltando l’aspetto decisivo rappresentato dalla struttura dei rapporti tra vari gruppi sociali, alcuni dei quali esercitano una predominanza nella formazione sociale (di qualsiasi ampiezza sia considerata: quella nazionale, d’area geografico-culturale, mondiale) perché sono in grado di assumere le più cogenti decisioni. Queste ultime si “combinano” appunto in una “struttura” di interazioni che conduce quella data formazione sociale (dell’ampiezza considerata) lungo un percorso non voluto da alcuno dei gruppi in conflitto. Essere insoddisfatti dello schema duale antagonistico (semplicistico) del marxismo non significa ignorare il problema, che va invece tenuto sempre presente anche quando non siamo ancora in possesso di apparati categoriali nuovi in grado di renderci convenientemente sicuri nel muoverci ad una rinnovata “analisi di classe” (o come la si vorrà denominare in omaggio all’abbandono dello schema duale predetto).
Usiamo quindi – nell’attuale fase storica di trapasso: non solo da un’epoca della società ad un’altra, ma anche della teoria concernente l’analisi della stessa – un tipo d’indagine basato essenzialmente sull’impiego di categorie come quelle relative ai paesi, Stati, nazioni. Dobbiamo intanto farlo. Attenti però a non credere veramente che stiamo compiendo un’indagine definitiva, che ci possa poi portare a decisioni adeguate alla prassi definita politica: cioè al complesso di mosse strategiche per condurre un conflitto non puramente interindividuale. Si tratta solo di fare buon viso a cattiva sorte, di utilizzare quello che intanto ci occorre in tale fase storica di passaggio. Non dimenticando tuttavia l’importanza di mantenere viva l’attenzione su una carenza, cui non possiamo supplire con la nostalgia del conflitto duale e antagonistico in verticale, che non a caso ha portato gruppi di “ultrarivoluzionari da operetta” ad inneggiare ai “popoli arabi in rivolta” senza capire nulla delle pericolose, micidiali, manovre dei gruppi “dominanti” statunitensi (non dei dominanti tout court, ma di alcuni gruppi che si sostanziano di dati centri strategici) per mettere in mora ogni opposizione alla loro preminenza in quella formazione sociale considerata d’ampiezza mondiale.
Usiamo indifferentemente paese o Stato, o anche nazione. E crediamo di poter trattare lo Stato quale soggetto compatto, indistinto, quasi un individuo da cui promanino progetti, volontà di realizzarli, decisioni atte a manifestare tale volontà. Lo Stato è un soggetto per chi lo considera formalisticamente, giuridicamente. In realtà il complesso di apparati di cui consta – e che è appunto stato, cioè quiete secondo cui viene considerata quella che è invece una dinamica continua, un movimento incessante – è la precipitazione, la condensazione, di una energia conflittuale, di un movimento “sussultorio” (in verticale, tra strati sociali) e “ondulatorio” (in orizzontale, tra segmenti sociali, partizioni di quegli strati). Dobbiamo lavorare con quello che abbiamo, tenendo però sullo sfondo la necessità – appunto l’“uscita dalla porta” del marxismo, non il suo abbandono, il suo completo oblio – di entrare un giorno in possesso di nuove categorie d’analisi teorica che ci consentano un altro tipo di quiete: quello delle “strutture” di rapporti conflittuali tra strati e segmenti. Sempre di “finzioni teoriche” si tratterà, sempre di fissazione di ciò che è inarrestabile movimento, ma di ben altra portata per capire come la lotta non sia semplicemente tra Stati o paesi o nazioni; come non sia nemmeno tra vaste e troppo generiche aree geografico-culturali.
2. “Il leninismo è il marxismo dell’epoca dell’imperialismo”. Questa fu la prima definizione, poi divenuta marxismo-leninismo. Nella prima definizione, la meno scorretta, non si era cristallizzata, ossificata, l’analisi di Lenin, sempre attenta alla ben nota “analisi concreta della situazione concreta” (espressione usata dallo stesso), in un complesso di precetti teorici, così come già si era fatto con il pensiero di Marx, fra l’altro dimenticando, come già rilevato, qual era per lui lo schieramento sociale – il “soggetto”, in quanto lavoratore collettivo cooperativo, dal più alto vertice della direzione della produzione all’ultimo gradino della manovalanza esecutrice – garante della possibilità di accedere al comunismo tramite una fase di transizione socialistica. Ho parlato di definizione meno scorretta perché un uso più consono avrebbe implicato la consapevolezza dell’imperialismo quale fase dello sviluppo capitalistico, non come ultima tappa dello stesso, in via di putrefazione e di arresto dello sviluppo delle forze produttive, incatenate dai suoi rapporti ormai “storicamente superati” (perché così pensarono Lenin e i leninisti); con la formazione, ai vertici capitalistici, dell’oligarchia dei rentier, solo dediti ad imbrogli finanziari. Una visione ancora in voga e non solo presso i residui marxisti, ma anche tra i “veggenti” della catastrofe finanziaria imminente e soprattutto finale, quella che sotterrerà la società del predominio e darà il potere ai “popoli”.
Bisogna capire che l’imperialismo fu una fase di policentrismo, quindi di conflittualità accesa e distruttiva (non del predominio in generale), che sconvolse più o meno tutto il globo. E credo si debba comprendere che, in effetti, tale fase implicò un passaggio decisivo di formazione sociale: non però dal capitalismo al comunismo (tramite la rivoluzione proletaria mondiale). E anche in tal caso siamo in arretrato come apparato categoriale. La borghesia è in effetti finita a quel tempo. Non si è però trasformata in un gruppo di rentier, ancora dominanti nelle rispettive formazioni sociali solo tramite l’ancor forte presa sul potere statale. La borghesia è divenuta una classe sempre più debosciata, messa in disparte da strati di rampante, apparente, “ceto medio”, cresciuto di livello e impadronitosi della direzione della produzione; a volte mantenendo la proprietà, altre volte in assenza di questa. Tale ceto ha preso il potere, il predominio sociale, fondendosi molto più strettamente con quelli che il marxismo considerava solo i rappresentanti, quasi i valletti, della borghesia: i dirigenti degli apparati statali, dei partiti, del controllo culturale e ideologico. E sopra tutti si sono situati quelli che approntano le strategie del conflitto e sono perciò complessivamente in grado di utilizzare gli apparati della forza (in genere quelli ancora specificamente militari, ma coadiuvati da altri) nella propria formazione sociale (particolare, in definitiva ancora il paese, la nazione) e, spesso, in quelle altrui. Si pensi alla Nato, ma solo come esempio.
Detto questo, ricordato ancora una volta quanto siamo in arretrato in merito all’analisi della società moderna, non bisogna ridurre la concezione dell’imperialismo che fu di Lenin, e poi di tutti i seguaci, a quella tipica di autori “borghesi” (mettiamo uno Schumpeter). Nessun marxista (leninista) si è mai sognato di pensare a semplici rapporti di forza, di supremazia e di subordinazione. Le “cinque caratteristiche” leniniane – condensabili poi nella prima, la più errata, quella del capitale monopolistico, mai però kautskianamente ridotto alla centralizzazione unica di tipo “ultraimperialistico”, lo si ricordi bene!! – strutturano un certo tipo di società mondiale e, nel contempo, una certa rete di rapporti “tra classi” (non più la sola “classe operaia”) all’interno di ogni formazione sociale. Per di più, tramite la tesi dello sviluppo ineguale (cui fa da appendice rilevante quella dell’anello debole, nel caso di urto policentrico acuto, bellico) si articola l’“analisi di classe” con quella dei rapporti tra potenze, con le sfere d’influenza per il cui controllo e redistribuzione esse si aggrediscono.
L’errore leniniano è stato soprattutto di aver pensato all’ultima fase del capitalismo; non si deve dimenticare tuttavia la complessa costruzione teorica, poi cristallizzata in teoria del capitalismo tout court, con la continua ed estenuante attesa del “crollo finale” di questa società incapace di ulteriore sviluppo (alla faccia!) e quindi di prossimo seppellimento da parte del proletariato mondiale trionfante (alla ri-faccia!!). Visione stereotipata, d’accordo, ma non superficiale come quella dei “popoli in rivolta”. Mai un marxista, un leninista, di minima cultura è arrivato a simili bestialità, oggi moneta corrente tra gli imbecilli e i lestofanti al servizio del predominio statunitense. Non faccio nomi, li conoscete. L’analisi di un marxista, attento alle classi in una prima fase (ottocentesca), attento poi alle popolazioni dei paesi sottoposti a predominio imperialistico (XX secolo), ha sempre comunque avuto attenzione alla struttura interazionale interna sia dei paesi imperialistici sia di quelli sottoposti al predominio di questi.
Altro che “popoli in rivolta”. In ogni paese, in ogni popolazione, si distingueva il predominio di certe “classi” e la subordinazione di altre. Certamente, il predominio era pensato in un modo quando si faceva riferimento (XIX secolo) al modo di produzione capitalistico tout court; in un altro quando invece si distinse, nella presunta fase finale di tale modo di produzione, la presenza di varie potenze con le aree subordinate ad ognuna di esse. Da qui certamente l’importanza attribuita alla questione nazionale, alle alleanze perfino con l’“Emiro dell’Afghanistan”, se ciò era necessario tatticamente per una fase transitoria; mai si coltivò tuttavia l’idea peregrina e bastarda di un unico popolo unito e compatto, privo di scontri antagonistici (di classe) interni.
Attenti quindi, per favore, a quel che si dice di Lenin e del suo concetto di imperialismo. La critica – per di più con il senno di poi, che rende tutto più facile – è lecita. Dire banalità e attribuirle a chi si è scannato a pensare teoricamente persino mentre incombevano le urgenze di una rivoluzione, non è corretto. Sono stati i successori a non aver più pensato e ad aver trasformato in dottrina di una Chiesa quanto era legato ad una specifica contingenza, che oggi va certo ripensata alla luce di un secolo di storia molto “istruttiva”.
3. Stalin dovette cambiare marcia. Non si tratta di fare del giustificazionismo storico, ma di semplice buon senso. Non era affatto prevista, in un primo tempo, la “costruzione del socialismo in un paese solo”. La Russia, in quanto anello debole della catena imperialistica, era pensata quale detonatore, innesco, di una rivoluzione che avrebbe investito almeno un paese capitalistico avanzato: si pensava alla Germania, dove infatti scoppiò una “rivolta”, del tutto minoritaria e abbastanza facilmente isolata e battuta. Cosa si doveva fare? Rinunciare alla rivoluzione russa? E’ del tutto ovvio che i bolscevichi insistessero; e fecero bene. Solo che si adattò non solo la prassi, ma pure la teoria alla nuova situazione.
Stalin ebbe quindi la sua responsabilità nel trasformare “l’analisi concreta della situazione concreta” in “Principi del leninismo”. Non tutto quanto sostenuto in questo testo è negativo, ma certo l’impianto dottrinale, con l’ipostatizzazione di ciò che era contingente, congiunturale, è presente in modo netto. E’ invece carente la riconsiderazione critica delle varie tesi alla luce della mutata situazione storica. Era però possibile, immaginabile, tale riconsiderazione nelle condizioni dell’epoca? Francamente, non ci credo proprio; non ne farei una colpa specifica a Stalin. Solo i reazionari ottusi – oggi, non a caso, situati sia a “destra” (forse i più grevi culturalmente) che a “sinistra” (più malandrini e viscidi) – possono limitarsi a ricordare i sedicenti delitti del grande dirigente della “sesta parte del mondo”. Di delitti è pieno l’album dei “liberatori” e dei servi degli stessi. Si è mai visto il documentario su come fu scelta Hiroshima quale prima città da annientare con l’atomica? Chi fece quelle discussioni, chi prese quelle decisioni, fu un puro criminale. Per di più aveva ormai vinto la guerra. E si vuol incolpare Stalin che doveva, nel più breve tempo possibile, mettere in piedi una credibile potenza sovietica, poiché aveva pronosticato già alla fine degli anni ’20 (nella discussione intorno ai piani quinquennali) che i “banditi imperialisti” si sarebbero azzuffati in una nuova guerra e che l’Urss doveva essere pronta ad esservi implicata? Ma mi faccia il piacere, come direbbe Totò.
Nel corso del 1952, ultimo anno di vita, Stalin redige “Problemi economici del socialismo in Urss”. Oggi possiamo essere insoddisfatti del semplicismo dell’analisi. E’ quella di chi è ancora convinto che si sta proseguendo la costruzione socialistica, costruzione del primo lembo di società (mondiale) liberata dal predominio capitalistico. Si comincia tuttavia a prendere atto di una serie di difficoltà e di “ritardi” (così venivano pensati all’epoca). Si rileva in sostanza la differenza tra proprietà statale (dei mezzi produttivi) e proprietà solo kolchoziana, che era “collettiva”, ma soltanto di una ristretta comunità contadina, non di tutta la società russa. Si perpetuava nei fatti un errore ormai vecchio: l’identificazione della proprietà di Stato con quella di un’intera collettività di cui quello Stato è (cioè sarebbe) rappresentativo. Non a caso, la critica di coloro che sperarono di rifondare il marxismo (fra cui il sottoscritto) si appuntò contro quella concezione, sintetizzabile nell’equazione: socialismo = proprietà statale più pianificazione (da parte appunto di quell’organo che rappresentava, nel marxismo ormai degradato a pura ideologia “dottrinale”, la collettività di tutti i produttori del paese).
Fu poi facile per Krusciov cianciare di Stato di tutto il popolo. Per legittimare definitivamente il gruppo assestatosi al potere, si sostenne che la “dittatura del proletariato” aveva avuto successo nel primo paese “socialista” del mondo; non aveva perciò più senso parlare di classi e contraddizioni di classe. Vennero dimenticate anche le timide ammissioni di Stalin del 1952 circa contrasti tra proprietà generalmente collettiva (statale) e quella delle comunità contadine. Sia nello Stato, sia nelle presunte comunità agricole, esistevano precise gerarchie e strutture di potere, ma andavano ignorate, pena la ridiscussione dell’intero apparato di potere creatosi in Urss tramite il ferreo controllo del partito sullo Stato, e di particolari gruppi politici (che si scannavano nel segreto del “Palazzo”) sul partito. Poiché però agli inizi degli anni ’60 il sistema produttivo appariva ingrippato – e nessuno voleva dedicarsi ad una analisi sociale del perché di tale fatto – si diede libero sfogo a riforme che si rivolgevano a certi principi del liberismo, sia pure in forma attenuata (di più non si poteva fare con quel po’ po’ di storia alle spalle).
La reazione del partito, con la caduta di Krusciov, non liberò per null’affatto nuove energie. E’ del tutto errato pensare che Breznev rappresentasse la ripresa dello stalinismo, d’altronde non più attuale; a meno di non ammettere, in base ad una nuova analisi del tutto prematura all’epoca, che non di costruzione del socialismo si era trattato, ma di mera creazione di una grande potenza. Bisognava capire che Stalin era stato un grande uomo di Stato, non un grande comunista; nemmeno però uno che aveva commesso solo delitti, cui vennero accollati gli insuccessi ormai maturati dopo i primi grandi balzi di una “accumulazione originaria” accelerata. Nulla di tutto quanto fu detto al XX Congresso del Pcus (1956) era vero. D’altronde, a nessuno poteva venire in testa a quell’epoca che la Rivoluzione d’ottobre aveva preso, come accade sempre nella storia, una strada diversa da quella che si credeva d’aver scelto. Tutti anzi si affannarono a cercare quando e come la costruzione del socialismo si era inceppata. La via scelta dal gruppo di potere sovietico fu, con il mediocre Krusciov, quella di accollare tutto ai delitti commessi da un uomo (rendendolo così perfino più gigante di quanto era stato, direi quasi un Dio).
Sia chiaro che il gruppo Breznev, non a caso con la continuità dell’ideologo ufficiale (Suslov), si limitò a battere Krusciov e tutti i tentativi di sedicente “liberalizzazione” che rischiavano di indebolire la struttura sovietica senza alcun reale vantaggio economico (anzi, le mosse compiute in base a teorie tipo Liberman, ecc. ebbero effetti disastrosi). Tuttavia Breznev, essendo rappresentante di un gruppo di potere ossificatosi ai vertici dello Stato e resosi inamovibile, non fece che rendere sempre più manifesta l’incapacità dell’Urss di svilupparsi. Nel ventennio brezneviano degradarono anche i settori (ad es. istruzione e sanità) che erano stati il vanto del “socialismo reale”; la vita media si abbassò di quasi un decennio (risultato quasi incredibile). Soprattutto, si continuò a fondare il potere dell’oligarchia sull’alleanza tra essa e i settori del lavoro salariato a più basso livello esecutivo, creando un nemico irriducibile nel ceto medio in forte crescita, fenomeno sociale tipico di qualsivoglia sviluppo moderno.
Chi vive oggi non si rende conto dell’innovazione rappresentata dalla Rivoluzione Culturale Cinese, che non è stata affatto un semplice fenomeno di avventurismo. Certo ci fu anche questo, e fu dovuto infatti al prevalere per un biennio o poco più della frazione linpiaoista, ma ridurre l’intero processo ai fenomeni negativi provocati da numerosi “eccessi” è limitativo, è quanto piace agli anticomunisti inveterati, ma non corrisponde per nulla alla realtà. Vennero posti, in modo magari grossolano in Cina, alcuni problemi che furono poi affinati in Europa soprattutto per merito della corrente critica del marxismo che prese il nome da Althusser; e, anche in tal caso, con notevole approssimazione perché vi confluirono filoni considerati althusseriani con una certa disinvolta approssimazione. Comunque, venne posto in risalto come non esista una tappa del processo comunistico definita socialismo, uno stadio della costruzione di una nuova formazione sociale pensato come raggiunto stabilmente e irreversibilmente. Si ri-definì invece il socialismo una fase di transizione tra capitalismo e comunismo, necessariamente assai più lunga di quanto immaginato dallo stesso Marx, nonché caratterizzata dalla continuazione della “lotta di classe” senza esito precostituito e irreversibile.
In Cina fu appunto la corrente maoista – in un primo tempo unita a quella liusciaociista e denghista nella semplice critica all’attenuazione kruscioviana della centralizzazione del potere statale (affidato al partito) e della pianificazione (attuata d’imperio) – a mettere in guardia contro la ripresa del potere da parte di ambienti “borghesi” tramite l’acquisizione di posizioni di controllo negli apparati di “simbiosi” tra partito e Stato (con il partito in primo piano). Nel 1957 Mao aveva già accentuato le deboli “illuminazioni” staliniane circa la differenziazione tra proprietà statale e proprietà collettiva agraria, parlando più incisivamente di possibili “contraddizioni all’interno del popolo”, provocate dalle rilevanti differenziazioni gerarchiche tra vertici direttivi e base esecutiva tra i “produttori associati”. Nel 1966 si andò molto oltre, mettendo in luce che la proprietà dei mezzi produttivi non era problema formale – giuridico, di differenza tra pubblico (o statale) e privato – ma estremamente reale con riferimento al potere di controllo sui mezzi di produzione; controllo di cui, in un paese del tipo “socialista”, era possibile la riappropriazione da parte di nuovi gruppi divenuti dominanti tramite appunto l’ascesa al potere nel partito-Stato. Per cui la lotta di classe continuava e si preconizzavano diverse ondate del tipo della rivoluzione culturale al fine di decapitare ogni volta i gruppi dominanti in ri-ascesa verso i vertici del predominio.
4. Anche in Cina – ed è ovvio tenendo conto che si trattava di un paese a bassissimo sviluppo capitalistico-industriale – si applicarono i principi del “socialismo” in modo abbastanza primitivo; e ancor più negli intendimenti della rivoluzione culturale. Si pensi alla ben nota formulazione: “a ciascuno secondo il suo lavoro”. Per Marx significava non soltanto la quantità ma pure la qualità del lavoro; egli non pensava certo a parità (o quasi) di retribuzione tra “ingegnere e manovale”. Anche perché aveva ben teorizzato la differenza tra lavoro complesso e semplice; il primo, nell’unità di tempo, attribuisce al valore di un prodotto una quantità multipla rispetto al secondo. Questa differenza nella partecipazione alla produzione di valore-lavoro si sarebbe dovuta comunque esprimere, nella prima tappa del comunismo (il socialismo), nella differente partecipazione alla distribuzione del prodotto complessivo (detratte le quote necessarie all’ammortamento, all’accumulazione, alle spese “generali” della società, ecc.). In Urss ci si guardò bene dal comprendere le affermazioni di Marx in omaggio alla già ricordata alleanza tra oligarchia (del partito-Stato) e lavoratori delle basse mansioni esecutive (la classe operaia nel suo senso ristretto, tipico del marxismo da Kautsky in poi) contro il ceto medio in crescita, sempre più tetragono al potere degli oligarchi e conflittuale con essi.
In Cina si verificò l’esatto contrario. Fu la Rivoluzione culturale ad agitare un po’ demagogicamente l’eguaglianza retributiva; in questo, furono quindi più concreti gli avversari. Non tanto perché interessati all’alleanza con i ceti medi che, nella Cina di allora, non erano molto cresciuti né influenti. Semplicemente, i denghisti presero le difese dell’alto management (produttivamente poco efficiente perché dedito soprattutto alle lotte per il potere in combutta con gli ambienti dirigenti del partito-Stato) delle “grandi imprese statalizzate” (alcune migliaia di enormi carrozzoni più o meno decotti). Si trattava di un’alleanza di fatto provvisoria per non lasciare deflagrare quella che, durante la Rivoluzione Culturale, fu indubbiamente una grave anarchia nell’ambito della produzione, con effetti che si possono ben immaginare. Si cercò dunque di riportare intanto l’ordine (produttivo e sociale insieme); più tardi però si procedette a quella graduale trasformazione delle imprese statali in forme proprietarie meno colossali, del tipo delle regionali, delle municipalizzate, ecc., fino a quelle quasi private, attraverso una complicatissima serie di passaggi, dai quali chi fa un’analisi particolareggiata di tali forme in Cina difficilmente si districa.
Non vi è dubbio che, data la situazione venutasi a creare con le confuse aspirazioni dell’ultimo periodo maoista, certe “riprese d’ordine” fossero ineludibili, riuscendo fra l’altro a coniugare il mantenimento di una centralizzazione del potere con la nascita di nuovi spiriti imprenditoriali, prima inesistenti in Cina (oggi riconosciuti perfino in sede costituzionale), i quali non sono mai conciliabili con le speranze di un’associazione altamente cooperativa (non tale solo ideologicamente) dei produttori, “dall’ingegnere all’ultimo manovale”; associazione che si sarebbe realizzata solo se fossero state esatte le previsioni di Marx circa la formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo od operaio combinato. Il non aver mai riflettuto a tale problema da Kautsky in poi, l’aver ridotto la “classe operaia” (il soggetto presunto rivoluzionario) a semplici “tute blu”, ha consentito di non prendere atto della “falsificazione” dell’impianto teorico originario di Marx, conducendo così alle varie e sempre più definitive disfatte del “movimento operaio” nelle sue varianti socialdemocratiche come comuniste.
Allora non era però affatto “visibile” tale problema. Non si poteva trascurare il riaffermarsi, durante la fase di transizione (“socialismo”) al comunismo, di nuovi gruppi dominanti nel corso della “lotta di classe” attorno ai centri cruciali del potere nella fase in questione, quelli degli apparati di intreccio e simbiosi tra partito e Stato. La Rivoluzione Culturale si pose tale problema praticamente, mentre noi althusseriani (e altri) lo studiavamo nella sua possibile sistemazione teorica. Per questi motivi non rinnego il mio passato maoista, non lo ritengo un errore. Tanto meno valuto quell’Evento un seguito di crimini come fanno gli odiosi anticomunisti, oggi uniti da “destra” (gli ottusi reazionari di sempre) a “sinistra” (i rinnegati, ancora più odiosi e disprezzabili dei primi). E’ stato invece un rilevante episodio di rivolta e riflessione sulla strada dell’involuzione ormai inaccettabile di quei propositi coltivati fin dalla Rivoluzione d’Ottobre, un evento con cui mi sento pienamente concorde, di cui mi sento “figlio”, al contrario dei meschini rinnegati di cui detto più volte.
Siamo d’altra parte sicuri che la Comune di Parigi (durata due mesi), così studiata e valutata da Marx e da Lenin, ecc., sia stata meno confusa, pasticciata, infarcita di errori e approssimazioni, in sostanza diretta da anarchici (soprattutto della fazione blanquista), con notevoli episodi di disorganizzazione? Il caos provocato dall’intrecciarsi di numerose volontà e decisioni, spesso velleitarie e utopistiche, fu una delle cause del suo fallimento o comunque della sua scarsa resistenza di fronte agli assassini che massacrarono i comunardi, il cui ricordo resterà comunque indelebile, salvo che per tutti i banditi prepotenti che intendono dominare il mondo.
Solo il fallimento della Rivoluzione Culturale, con la scia lunga dell’involuzione dell’intero sistema “socialista” poi crollato nella sua parte fondamentale, ha consentito di capire l’errore commesso con la ripresa di parole d’ordine del tipo “la classe operaia deve dirigere tutto”. Ha consentito di capire come mai proprio nell’occidente capitalistico avanzato, dove tale classe si era pienamente sviluppata (ed era già in discesa percentuale e assoluta), non sia mai scoccata alcuna reale scintilla di rivolta operaia radicale, tesa alla rivoluzione vera e propria, che implica rivolgimento e trasformazione delle strutture dei rapporti sociali. Ha consentito in definitiva di comprendere a fondo l’equivoco in cui si era caduti da oltre un secolo: l’identificazione di tale classe con le semplici mansioni esecutive della fabbrica, mentre in Marx vi era la previsione, rivelatasi errata in radice, di un coinvolgimento progressivo dell’intero corpo lavorativo (con contraddizioni interne secondarie) mentre il capitale sarebbe divenuto proprietà assenteista, “simil-signoria”, con proprietà finanziaria invece che terriera.
Si capì come fosse frutto di un grave fraintendimento il credere che una classe potesse prendere il reale potere senza avere l’egemonia culturale, anzi senza nemmeno il controllo delle “potenze mentali della produzione”, che il “lavoratore collettivo cooperativo” – considerato da Marx quale naturale portato della dinamica capitalistica (del capitalismo borghese da lui analizzato nella sua “prima culla” – invece possedeva. Alla fine del processo di ripensamento, iniziato in quel periodo di “fecondo sbaglio”, è stato possibile al sottoscritto capire l’errore ancora più decisivo compiuto da Marx in base all’analisi della cosiddetta “sussunzione reale del lavoro nel capitale” sfociata nella prima rivoluzione industriale, con apparente diffusione di opifici e ciminiere, del “corpo materiale della fabbrica”, con la formazione di grandi schiere di “tute blu” e di invece ristretti gruppi dirigenti in possesso delle potenze mentali produttive, tendenti a confliggere con la proprietà assenteista dei rentier.
L’errore capitale è stato quello di porre il “fuoco centrale” della formazione sociale nella produzione (nel modo di produzione capitalistico), facendo della proprietà dei mezzi produttivi (superare il suo lato formale, giuridico, andando al potere di controllo reale degli stessi, era del tutto insufficiente) l’elemento di divisione tra dominanti e dominati nella figura degli sfruttatori e sfruttati. Dove sfruttamento significava comunque, nell’analisi scientifica e non grossolanamente ideologica di Marx, estrazione di pluslavoro, soprattutto applicando i metodi del plusvalore relativo, che implica progresso tecnico e riduzione dello sforzo fisico; non invece “sangue e sudore” dei “nuovi schiavi salariati” secondo la bastarda concezione di tutti i “preti scalzi” nella loro misericordia verso i “diseredati” stretti in “comunità” di miserabili, di indigesti rifiuti di una società in veloce modernizzazione.
La divisione della società, fondata sulla proprietà o meno dei mezzi produttivi, non poteva però non divenire un semplicistico schema duale antagonistico tra capitalisti (borghesi) e proletari (operai o lavoratori salariati). La proprietà è invece soltanto strumento, mezzo, così come lo è lo sviluppo delle forze produttive (che le forme economiche del mercato e dell’impresa, non la fabbrica, consentono al massimo grado); si tratta di strumenti atti a condurre conflitti, in cui vengono coinvolti gli agenti di tutte le sfere sociali (economica, politica, ideologica) e in cui diventano decisivi i centri emanatori della politica, questa volta intesa quale serie di mosse strategiche di molti “attori” in lotta per la supremazia. Con tanti saluti allo schema antagonistico duale. Comunque, non insisto avendo già compiuto un discreto pezzo di strada in questa direzione nel corso di ormai oltre quindici anni di studio e di pubblicazione di scritti (alla fine indicherò una sommaria bibliografia).
5. La Rivoluzione Culturale è stata quindi un evento cui senza dubbio parteciparono avventuristi e grandi pasticcioni; con episodi certamente da far rabbrividire soprattutto le persone dotate di cultura. Molti racconti furono però come quelli sulle “rivoluzioni arabe” di oggi. Molti eccidi sono del tipo delle “fosse comuni” a Timisoara e a Tripoli. Non insisto, ma la canea reazionaria – cui alla fine, e nel corso di decenni, hanno partecipato molti maoisti d’accatto d’allora, molti intellettuali poi vendutisi e che passano oggi per geni, montandosi l’un l’altro – ha alterato profondamente il senso della vicenda. Ricordo bene questi personaggi – più d’uno udito di persona, anche in colloqui personali – sostenere enormità, in specie sulle virtù taumaturgiche del “libretto rosso”, di cui il sottoscritto parlava molto male, criticato da costoro, che oggi scrivono sui giornali dell’establishment, facendo sfoggio della loro semicultura.
Non parliamo della fine fatta da quasi tutti gli allievi della scuola althusseriana, salvo quelli che hanno avuto la (s)fortuna di morire, alcuni suicidatisi per malattia. Tuttavia, ribadisco che quell’Evento ha avuto il merito di porre sul tappeto molte questioni ancora oggi irrisolte della rivoluzione dei “sottostanti” contro i gruppi dominanti. Soprattutto ha posto in primo piano il problema degli apparati del potere reale. Facile oggi ironizzare sulla tesi della ri-presa del potere della “borghesia” nel partito e nello Stato. Era il linguaggio del tempo; non si vedeva altro che la borghesia o il proletariato, questi i due poli fondamentali tra cui si sarebbe sviluppata la lotta per la transizione da una formazione sociale all’altra. Nessuno oggi è in grado di capire il significato liberatorio – per chi non era disposto a passare nell’“altro campo”; come fecero, ad esempio, il Pci e, nei tempi più recenti, tutti i fossili che ancora fingono d’essere comunisti – del non pensare più il socialismo, con quei fenomeni altamente degenerativi che ci mettevano in imbarazzo di fronte all’attacco di un capitalismo occidentale sempre più trionfante, quale stadio ormai raggiunto stabilmente e irreversibilmente, in cui l’unico residuo “borghese” (sinonimo di capitalistico) era la distribuzione del prodotto in base al lavoro (quantità e qualità) prestato e non ai bisogni degli individui stretti in rapporti pienamente comunistici (fase ulteriore e non ancora raggiunta).
Affermare che il socialismo era invece una fase di transizione tra capitalismo e comunismo, in cui perdurava un’accanita lotta di classe (non semplicemente tra “vecchio” e “nuovo” secondo la genericità dei “bisonti” del marxismo ortodosso), per di più combattuta in un’arena mondiale in cui esisteva un forte “campo capitalistico”, rendeva conto della lunghezza della transizione, da Marx pensata in atto, magari embrionalmente, mentre scriveva il XXIV capitolo del I libro de Il Capitale (è solo un esempio; ma si legga bene l’ultimo paragrafo di quel capitolo per favore, da me chiosato nel mio testo sui “due passi in Marx”); e da Lenin creduta ormai in pieno sviluppo e di cui la Rivoluzione d’Ottobre sarebbe stata solo il detonatore (si veda la postilla del novembre 1918 a La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, con il peana innalzato all’ormai innescatasi rivoluzione in Germania).
E spendiamo una parola pure su quella che oggi sembra addirittura una contraddizione inspiegabile: il nemico principale era il socialimperialismo (che, nel linguaggio di allora, significava l’Urss) rispetto all’imperialismo (gli Usa). Lascio perdere il probabile travisamento ideologico di alcuni dirigenti cinesi di allora, che di fatto nascondevano, dietro questa formulazione di apparente rivoluzione degli oppressi contro gli oppressori (divisi in principali e secondari), l’effettiva contrapposizione tra paesi, tra Cina e Urss. Tuttavia, ci si credé anche come continuazione, in forme diverse, della “lotta di classe”. Solo gli sciocchi interpretarono quella formulazione nel suo senso apparentemente più ovvio. Il sottoscritto invece, uscendo in quegli anni dalla frequentazione dei corsi di Bettelheim all’allora Ecole Pratique a Parigi (su “Calcolo economico e forme di proprietà”), era ben conscio dell’inviluppo e ingrippamento del “socialismo”, soprattutto in Urss; già nel 1970 si preconizzava la fine di quel sistema sociale, pur non prevedendone le forme specifiche verificatesi nel 1989-91. Figuriamoci se si poteva pensare ad una Urss più forte degli Stati Uniti.
Ci si deve calare nella convinzione dell’epoca; si era sicuri si trattasse della ripresa, “ad altro livello”, dello scontro (“mortale”) tra neokautskismo e neoleninismo (quest’ultimo essendo rappresentato, nella nuova contingenza storica, dal maoismo). Tale ripresa di quella lotta avveniva però in una situazione mondiale caratterizzata ormai dalla presenza di un “campo socialista”, un campo, lo ripeto, in cui la transizione tra due formazioni sociali (considerata ferma ed in involuzione in Urss e nei paesi dell’Europa orientale) era contrassegnata dalla continuazione della lotta di classe; una lotta in cui aveva ormai prevalso la “nuova borghesia” (al potere tramite il controllo degli apparati del partito-Stato) nei paesi socialisti europei e in Urss, ma invece più incerta, anzi aperta alle speranze di una inversione di tendenza, nei partiti comunisti delle altre aree, con avanguardia di tale lotta in Cina.
L’appoggio fondamentale alle tendenze revisioniste nei vari partiti comunisti (tendenze sempre opportuniste e di cedimento di fronte all’attacco della borghesia, aiutata certo dal fronte capitalistico occidentale) veniva chiaramente da parte dell’Urss; se fosse crollato il gruppo al potere in quel paese, si rendeva più facile la sconfitta delle tendenze opportuniste negli altri paesi e partiti comunisti (anche, e soprattutto per quanto riguarda noi, nel Pci). Capite in che senso il socialimperialismo era trattato da nemico principale? Non perché fosse mondialmente più forte e imperialisticamente più pericoloso degli Stati Uniti. Semplicemente perché era il bastione delle tendenze di ricrescita di nuovi gruppi dominanti; certamente considerati allora come nuova borghesia, borghesia di Stato e di partito. Era necessario affrontare prioritariamente questa nuova borghesia (non certo più potente di quella occidentale) per impedire il collasso, visto come vicino, di quel campo che potenzialmente era il contraltare all’imperialismo mondiale. Per un determinato periodo storico, esso fu ritenuto garanzia della progressiva trasformazione mondiale del capitalismo in socialismo (prima fase) e poi comunismo.
Adesso, tutta la prospettiva cambiava. Il socialismo era una fase caratterizzata pur sempre dalla lotta frontale tra tendenze opportuniste, di ritorno all’indietro e dunque di connivenza con il capitalismo occidentale, e quelle (pensate come) rivoluzionarie; il risultato non era la “prima tappa del comunismo” acquisita irreversibilmente, una volta per sempre. In nessun paese si poteva considerare raggiunto stabilmente un simile obiettivo; non almeno finché la nuova forma di società non avesse assunto mondialmente una netta prevalenza.
6. Si capisce dunque – almeno un po’ meglio o meno peggio – la valenza di quello che fu chiamato terrorismo in Italia a partire dagli anni ’70 e che, nella sua corrente effettivamente politica (e non delinquenziale come poi di fatto divenne), durò in pratica fino al rapimento del gen. Dozier (1981). Si comprende che non fu un semplice movimento di infiltrati o di marionette al servizio di questo o di quello. L’errore madornale – dal sottoscritto denunciato, ma come al solito silenziato dai vari Soloni dei più svariati e confusi movimenti – era una fuga in avanti, era credere di poter “leninisticamente” giostrare tra le contraddizioni dei nemici (“occidentale” e “orientale”), mentre ci si faceva giocare all’interno di queste contraddizioni.
Si pensava, e dissi che era assurdo, ad una guerra, pur non in tempi brevi, tra imperialismo e socialimperialismo e ad un invece imminente colpo di Stato in Italia per preparare un governo più “solido” e schierato in vista di tale futuro scontro mondiale. Uno svarione non c’è dubbio. In esso si inserirono forze di certi paesi europei orientali (specie DDR e Cecoslovacchia), evidentemente a conoscenza del fatto che l’immobilismo brezneviano in Urss era frutto di contrapposizione tra chi voleva tornare ad una più incisiva politica di potenza e chi preferiva la liquidazione di una serie di “posizioni” (in Europa orientale appunto), credendo con ciò di salvarsi dal degrado e dal “blocco delle forze produttive”. E non era visione assurda (di Servizi “deviati”), visto che la seconda tendenza si affermerà con Gorbaciov a metà anni ’80. E’ ovvio che le tendenze contrapposte si mettessero di traverso e creassero più ostacoli possibile a questo processo, che ha condotto alla liquidazione di uno dei due campi del mondo bipolare.
Ora, uno dei settori del movimento (sedicente) comunista che si spingevano verso ovest – e che quindi intendevano favorire in qualche modo certe correnti definite “democratiche” nei paesi “socialisti” europei, con poi pesanti riflessi in Urss; si pensi, come esempio, al rovesciamento di Ceausescu, operato da Iliescu, già influenzato dall’occidente, in combutta con i Servizi gorbacioviani – era il Pci di Berlinguer e di quel ben noto viaggio di Napolitano negli Usa, “stranamente” coincidente con l’affaire Moro. Mi sembra comprensibile che i Servizi (che sono sempre lo strumento di certi ambienti di potere) di alcuni paesi europei “orientali” volessero favorire in Italia chiunque opponesse resistenza al processo di cambiamento di campo dei piciisti; che poi apparve, improvviso, al crollo dell’Urss e alla conseguente operazione di liquidazione del regime Dc-Psi tramite “mani pulite”, congegnata in modo da consegnare ai “voltagabbana” il governo del paese per conto della nostra classe dirigente economica fellona, “badogliana”, al servizio degli Usa.
Così nacque il “terrorismo”; e per questo motivo i più feroci persecutori dello stesso furono i traditori piciisti che temevano lo smascheramento, prima del tempo, delle loro trame, di fatto concordate pure con gli americani, all’epoca del Governo detto di unità nazionale (1976), realizzazione del “compromesso storico”, ecc. (si veda comunque il mio “Panorama storico”). Non dovevano essere troppo manifestamente individuati nelle loro manovre di trasferimento verso l’atlantismo – e su questo concordavano gli Usa, che suggerirono l’appoggio esterno del Pci ai Governi democristiani, non la sua entrata diretta in tali Governi – prima della maturazione di dati eventi in Urss e negli altri paesi europei “socialisti”.
E allora diciamo fino in fondo le cose. Fui contro il “terrorismo” – mai da me considerato, fino al 1981, un fenomeno delinquenziale – intanto per gli errori assai gravi di valutazione della fase. Si presumeva lo scoppio (non imminente, sia chiaro, nessuno poteva pensare una simile sciocchezza) della guerra tra Usa e Urss; del tutto da escludere invece, a mia opinione, nelle condizioni di difficoltà e di immobilismo sovietico (Breznev) dovute all’equilibrio tra tendenze politiche diverse e ad una certa situazione dei rapporti sociali (già sopra ricordata). Si era inoltre convinti dell’imminenza di un colpo di Stato in Italia, non necessario visto che, appunto, il Pci stava operando il suo radicale cambio di campo. Soprattutto, se anche si fosse visto giusto, si sarebbe semmai compresa una preparazione organizzativa, l’accumulazione di depositi d’armi, la costruzione di collegamenti e vari dispositivi “logistici”, non certo però l’entrata in clandestinità e l’attuazione di attentati, ecc. prima dell’evento. E’ talmente sorprendente una simile scelta che credo alla necessità di ipotesi aggiuntive, poiché mi sento di escludere che si sia trattato di burattini mossi dai Servizi di questo o di quello. Penso che oggi non si debba però perdere ulteriore tempo in supposizioni.
Vi era invece un altro errore, a quel tempo pensato (almeno da me) come il più grave e di fondo. Ribadisco: aver appoggiato la Rivoluzione culturale – finita del resto nei suoi aspetti più estremistici e assurdi (diciamo linpiaoisti) già nel 1969, con totale abbattimento dell’intero impianto maoista nel 1976 – mi sembra essere stato un atteggiamento comprensibile, pur se con esiti da giudicare negativamente, ma con il senno di poi. In fondo, non era così assurdo all’epoca credere in una ripresa della lotta tra cedimenti opportunistici (detti neokautskiani) e rilanci rivoluzionari (di tipo neoleninista), data anche tutta la teorizzazione, elaborata e a mio avviso raffinata, sulla formazione sociale di transizione. Meno credibile appariva l’appoggio a vecchie tendenze del sovietismo “ortodosso” – diciamo grosso modo il continuatore della politica propugnata dalla “prima banda dei quattro” (Molotov-Malenkov-Scepilov-Kaganovič) sconfitta da Krusciov nel 1957 – contro i “modernizzatori”, che infine liquidarono la potenza sovietica.
Fummo contro Liu e Deng in Cina – qualificandoli di “linea nera” – proprio perché fautori di questo vecchio sovietismo, appartenente al passato, custode di una “ortodossia” marxista ossificata (quella che resse la critica portata da Liu e Mao insieme nel 1963 contro il Pcus nel famoso scambio di lettere tra i Comitati Centrali dei due partiti), mentre nella Rivoluzione Culturale e anni successivi fino al 1976, pur con confusione e vecchi impianti ideologici inneggianti alla “Classe Operaia”, si era cercato di impostare in nuovi termini la lotta di classe nella transizione. Certamente, se si fosse capito fin da allora il fallimento dell’intero impianto teorico e pratico del movimento comunista, in quanto processo storico finito; se si fosse preso atto che la Rivoluzione d’Ottobre, come sempre avviene nella Storia, aveva preso una via diversa da quella prevista e perseguita, conducendo a risultati imprevisti; sarebbe stato allora possibile accontentarsi intanto della presenza di potenze avverse a quella statunitense, che ormai mostrava la sua reazionaria criminalità in tutto il suo fulgore.
Non si può però ragionare così. Del resto, ancora adesso la Cina continua a fingere d’essere socialista – con quell’autentica buffonata ideologica che è il “socialismo di mercato” – e ciò non aiuta la comprensione dei “fatti”, per quanto si sappia che questi esistono sempre nell’ambito di un certo angolo di visuale. Sarebbe stato necessario che già negli anni ’70 esistesse la consapevolezza di una ben diversa fase di transizione, non al socialismo, ma solo ad un possibile multipolarismo tra più potenze nate dai tortuosi processi storici seguiti all’Evento del 1917. Lo capiamo (e in pochissimi) adesso, non quarant’anni fa. Quindi, ritengo assurdo che già allora si fosse rinunciato a condurre una lotta accanita per arrestare un processo pensato quale nuova formazione di gruppi dominanti capitalistici durante la fase di transizione al comunismo, transizione creduta ancora possibile ma nell’ambito appunto di un tortuoso cammino di acuta lotta di classe, aperta sia a sconfitte sia a nuove avanzate verso l’obiettivo agognato.
Allora non sembrava un sogno, ancora reggeva un impianto di analisi scientifica, fondata come sempre su previsioni e su possibili “verifiche” delle stesse. Se in simili situazioni, si abbandona la lotta perché estremamente incerta, perché ancora non appare chiara la fine di una data fase storica, allora tanto vale non muoversi mai, starsene seduti a veder scorrere gli avvenimenti, sempre convinti che ogni processo storico ha la sua ben definita (deterministicamente) linea di scorrimento, che invece può al massimo essere ricostruita ex post; e pur sempre tramite ipotesi interpretative del passato, appena un poco meno insicure di quelle concernenti il futuro. Fra trent’anni, magari, ci troveremo con i criminali Usa di nuovo in posizione di predominio centrale. Allora qualcuno dirà: ma chi era quell’illuso che, trent’anni fa, pensava al multipolarismo? Sono lieto che fra i possibili illusi ci siamo noi, perché la Storia non è un costrutto “razional-meccanico” del tipo della traiettoria degli astri in Cielo.
Non è nemmeno una Storia “quantistica”, solo indeterministica circa la posizione o la velocità degli eventi. E’ proprio casuale. E non perché è “l’Uomo che fa la Storia”, questa “sapienziale” sciocchezza di pensatori che non pensano a quanto stanno dicendo, la cui lingua o penna corre sempre più veloce del cervello. Semplicemente, esiste un continuo conflitto condotto mediante mosse strategiche svolte da tanti “scacchisti”, che giocano su una “scacchiera” (il Mondo) non soltanto rappresentata da aree geografiche (territoriali), ma soprattutto da “amebe” che sono le varie formazioni particolari costituenti la formazione sociale globale, cui noi assegniamo per le nostre esigenze pratiche della lotta una data struttura di rapporti (una “fissità”), mentre è sempre in movimento e mutamento. Da questo intrico di conflitti di strategie nasce un risultato che mai sarà quello voluto, mai sarà veramente conosciuto in anticipo. Eppure dobbiamo lottare come se lo conoscessimo, come se potessimo determinare un certo percorso di svolgimento degli eventi. Altrimenti, lo ripeto, stiamo tranquilli, fermi, attendiamo solo la morte, ci facciamo più figura.
7. E’ ora di concludere. Ho scritto per ricordare e andare oltre, per superare. Quello che ho scritto sembrerà a qualcuno, in specie giovane, piuttosto noioso. Difficile afferrare a che cosa possa servire tutto il rimuginare su eventi che sembrano ancora più lontani di quanto non siano. Io stesso a volte mi chiedo se li ho vissuti o se me li ha raccontati un qualche “avolo”. Eppure invece, a mio avviso, serve pure il ricordare. Ci sono però vari atteggiamenti in chi rammenta. Qualcuno rimpiange i “bei tempi andati”, e resta ad essi talmente attaccato che si accontenta di “vecchie fotografie”, così belle nel loro quasi scolorimento, in quel distanziamento che fa vedere gli avvenimenti attraverso un filtro opaco e prismatico così adatto alla nostalgia. Altri si inveleniscono nel pensare a quanto “siamo andati indietro”, a come i tempi “siano degradati”. E si danno allora da fare (inutilmente) per ripristinare il vecchio clima, le vecchie fobie e fole di un tempo, sostenendo che sono ideali traditi da restaurare integralmente o con piccole modificazioni di contorno.
Io ricordo con tutta la nostalgia del caso; non mi dà alcun fastidio pensare a quanto “grondavamo ideologia”, a come abbiamo alterato i “fatti” (pur se essi sono sempre soggetti ad interpretazione) per adattarli alla nostra convinzione d’essere in marcia verso la trasformazione del mondo; nel senso da noi desiderato e voluto, ovviamente. Tuttavia, ho preso atto che quel “mondo” è scomparso. Se ascolto musica, mi metto un disco di Gershwin o Charlie Parker, di Frank Sinatra o Edith Piaf (e magari Brassens e Brel), ecc. Godo molto i film di Allen (che è della mia “classe”, non sociale) perché ha gusti musicali così vicini ai miei (magari però non leggiamo gli stessi poeti e romanzieri, comunque “antichi”). In politica, tuttavia, anzi in politica e teoria, non sono per nulla intenzionato a “cantare le vecchie solfe”. Sono finite, sono morte e ormai putrefatte. Certamente, ho la netta sensazione che non sia solo la mia memoria “di vecchio” a farmi ritenere migliori i tempi andati.
Per quanto abbia sempre messo in luce quale verminaio si nascondesse, ad esempio, dietro il ’68; per quanto abbia ricordato spesso il giudizio di Pasolini; non sono però così “partito di cervello” da dimenticare la vitalità di quei tempi, in cui le porcherie e le malefatte e le menzogne dei “soprastanti” dilagavano, ma trovavano almeno una rabbia contrastante, una “controinformazione”, un reale anticonformismo (a parte quello radical chic, già allora abominevole). Si girava da una riunione all’altra (e non solo da una manifestazione all’altra), si discuteva e non in modo monomaniacale su singole persone, si inquadravano i fatti in un contesto generale e non li si chiudeva in un recinto, in cui possano solo aggirarsi maiali grufolando disgustosamente idiozie infinite.
Quelle discussione serie, impegnate, dotate di spessore, tuttavia, erano pregne di una “visione del mondo” che si è in tutta evidenza logorata, sbriciolata. I tempi sono infinitamente cambiati; e disquisire se in peggio o in meglio è discussione del tutto oziosa. Sì, io penso in peggio, e allora? Detto questo, non è detto nulla. Il fatto centrale è che non ha più alcun senso il tipo di interpretazione dei “fatti” utilizzato allora. Non continuiamo a lamentarci che è anche colpa nostra se siamo finiti “così in basso”. Questa scemenza viene sostenuta solitamente da chi crede all’Uomo che fa la “sua” storia. La nostra colpa reale è solo di non voler tenere conto che la Storia va sempre per i c…. propri e che i vari gruppi di individui, in essa “agitantisi”, devono cercare di farlo il meno scompostamente possibile. Devono, di fase storica in fase storica, redigere un consuntivo, valutare il discostamento tra quanto perseguito e quanto conseguito; sapendo che tale valutazione non sarà mai esatta, non sarà mai il “rispecchiamento della realtà così com’essa è realmente”. Tuttavia, di fronte all’abissale divaricazione tra il perseguito e il conseguito, è indispensabile modificare completamente la griglia con cui interpretiamo i “fatti”; si deve intraprendere la tessitura di una nuova rete da pesca per vedere se qualche pesce riusciremo infine a prenderlo.
Il comunismo è un processo finito. E non è finito oggi e nemmeno con la seconda guerra mondiale o con la morte di Stalin o con il “crollo del muro”, ecc. Ha subito un processo di degrado progressivo in seguito al non riconoscimento degli errori previsionali di Marx, al mutamento del “soggetto rivoluzionario” dal lavoratore collettivo cooperativo alla classe operaia in senso stretto, quale insieme di lavoratori salariati delle mansioni esecutive nel processo di fabbrica. Ecc. ecc. Ripiegare adesso su un comunismo etico, dei buoni sentimenti, del miglioramento dell’Essere umano, della Speranza, della Comunità (ma di che si sta cianciando?), può soddisfare i depressi, i malati, gli spostati, gli esaltati, i piccoli gruppi che si formano e poi si dividono per feroci antipatie e invidie personali, per il desiderio di essere a capo di qualche decina di fedelissimi, che poi cadono nell’apatia o si dilettano nei piccoli tradimenti, quelli soliti dei bambini nei confronti dei loro compagnucci.
I conflitti capitale/lavoro sono la visione infantile di una lotta comunque sindacale, già più complessa ed elaborata di come viene presentata da ideologi da strapazzo. Le lotte delle masse diseredate, dei popoli, contro l’imperialismo, magari contro le multinazionali o gli organismi finanziari internazionali, ecc. è finita nella vergogna dell’appoggio alle mene statunitensi nel mondo arabo. E via dicendo. Basta con tutti questi disgustosi intellettuali, facitori delle più demenziali teorie escogitate in un’orgia di tradimenti e di svendite. Torniamo rigorosamente all’analisi scientifica, la più rigorosa possibile, sempre consci che non ricostruiamo la realtà così com’essa è. Dobbiamo però analizzare le congiunture specifiche, trarne insegnamenti da generalizzare in schemi dotati di stabilità; sempre però transitoria, sempre sottoposta all’usura dei conflitti multipli e cangianti che si sviluppano in quel terreno per null’affatto roccioso rappresentato dalle società esistenti.
A me pare del tutto ovvio che, in base all’analisi sviluppata fin qui già da molti anni a questa parte, si debba concludere che, nella congiuntura attuale e non in generale, sia d’uopo assegnare una qualche priorità al fattore nazionale, inteso nel senso del ritrovamento di un dato minimo comun denominatore nella lotta di dati “agglomerati sociali” – che pure non sono “comunità organiche”, bensì intelaiature di rapporti conflittuali tra diversi gruppi e raggruppamenti di individui – contro altri allo scopo di difendere alcuni loro interessi comuni da considerarsi decisivi; interessi economici, politici, di identità culturale, ecc. E, ai fini di questa difesa, sono da individuare alcuni settori (economici, politici, ideologico-culturali, ecc.) strategici, mentre altri sono secondari o, al massimo, di supporto. Sapendo però, nel contempo, che in ognuno di questi agglomerati sociali esistono gruppi che agiscono di conserva con altri appartenenti ad agglomerati sociali diversi e nemici, che cercano di assumere la predominanza e di ridurre gli altri in subordinazione, sia pure a diversi livelli della stessa.
Stracciarsi le vesti, facendo can can perché non si bada alla lotta dei dominati contro i dominanti – dove poi i dominati assumono la figura di “popoli che lottano”, essendo in realtà minoranze mercenarie di subordinazione ad un agglomerato sociale nemico, che vuole “colonizzarne” altri, dando a tali minoranze premi differenziati a seconda dei reali servigi prestati – è atteggiamento nel migliore dei casi errato, gravemente errato. In genere, però, si tratta di effettivi nemici interni, quinte colonne del nemico. Dobbiamo trovare la via per una riscossa che sia oggi “nazionale”, cioè degli interessi comuni di dati agglomerati sociali, pur divisi – e lo sappiamo, non lo dimentichiamo! – sia in segmenti (in orizzontale) sia in strati (in verticale), che hanno comunque poco a che vedere, nella presente contingenza, con gli schemini semplici semplici (di antagonismo duale) tra oppressori e oppressi, tra sfruttatori e sfruttati, tra dominanti e dominati. A questo dobbiamo arrivare intanto, per l’oggi; questa la conclusione delle rimembranze percorse.
PICCOLA NOTA BIBLIOGRAFICA
Credo di avere scritto in vita mia venti o anche trentamila pagine, comunque tante. Ho elaborato varie tesi, con alcune svolte maggiori, nel corso dell’evolversi del mio pensiero. Come sempre accade, tengo soprattutto alle ultime tesi. Quindi, per semplificare il compito ai lettori volenterosi, indico una breve, minima, bibliografia. Chi non conosce nemmeno questa, abbia almeno la compiacenza di non emettere giudizi tranchants nei commenti, che sono allora destituiti di qualsiasi fondamento.
1) Gli strateghi del capitale; Manifestolibri 2006
2) Finanza e poteri; Manifestolibri 2008
3) Tutto torna, ma diverso; Mimesis 2009
4) Due passi in Marx (per uscirne); Il Poligrafo (Padova) 2010
5) Oltre l’orizzonte; Besa editrice 2011
L’ultimo è già stampato e in magazzino; dovrebbe essere distribuito a breve nelle librerie.
(30 maggio 2011)