FASE FORSE NUOVA MA ANCORA CONFUSA (di Giellegi, 29 dic. 10)
Da qualche tempo vi era l’impressione, da noi rilevata, che forse una fase della “storia” (miserrima) italiana si sta chiudendo, pur se tutto è ancora molto incerto circa i tempi di tale chiusura; si rileva la tendenza non la velocità della stessa, come sempre nella “storia” e nella “cronaca”. Si tratta di una fase vergognosamente giocata solo sul piano della personalizzazione dello scontro, in cui tutto è stato vissuto come pro o contro Berlusconi, in totale assenza di un reale progetto politico, ma semmai con promesse rigorosamente non mantenute (salvo piccole modifiche di punti secondari), mentre ci si è impegnati nel tentativo di mantenere i conti in ordine; solo però in negativo con tagli abbastanza indiscriminati e senza nemmeno riuscire ad incidere sul Debito Pubblico, che continua a crescere. L’unica riforma strombazzata è quella dell’Università. Me ne sono interessato marginalmente, ma comunque mi sembra apprezzabile soltanto in negativo per l’eliminazione di insegnamenti, Facoltà, Università moltiplicatesi per gli interessi assai particolari dei docenti; e vedremo che cosa sarà infine applicato di tutto questo. Il resto non mi sembra abbia posto le premesse per una reale trasformazione di questi centri di degenerazione culturale.
Comunque, partiamo dalla dichiarazione di Berlusconi di voler pensare alla sua successione. Non c’è dubbio che in questo cominciare almeno a parlarne conta anche la questione “biologica” (malgrado le ciance sui possibili 120 anni da vivere); tuttavia, solo la degenerazione personalistica della politica può far credere che si tratti esclusivamente di questo. Per troppo tempo si è rimasti a bagnomaria; il che è stato il riflesso dell’oltre decennio di monocentrismo imperiale statunitense, poiché dagli Usa venne l’impulso all’annientamento del “regime italiano” (Dc-Psi), soltanto adatto al mondo bipolare (un mondo fortemente cristallizzato nel “primo” mentre le effettive tensioni violente e spesso belliche si scaricavano nel “terzo”; però in forma di guerre di liberazione dal neocolonialismo). Quest’annientamento tuttavia, in un “nuovo mondo” che sembrava completamente in mano agli Stati Uniti, si risolse in Italia nel voler affidare tutto il governo ad una semplice ammucchiata di rinnegati di vecchie bandiere (con al centro quelli del Pci), salvati ad arte dal fallimento per meglio ricattarli e ridurli ad una piatta subordinazione agli “imperiali centrali” con le loro “quinte colonne” confindustriali in Italia.
L’“appetito vien mangiando” e si volle annientare l’industria “pubblica” per farla divorare a quella “privata”. Dove la positività della prima non dipendeva dalla forma giuridica della proprietà, ma dal fatto che era quella d’avanguardia, strategica e di punta (energia e nuova ondata innovativa dell’industrializzazione), mentre la “privata” aveva il vecchio volto dei settori della passata fase industriale, in particolare quello del metalmeccanico, che nel nostro paese, sempre in arretrato di una fase, aveva raggiunto la maturità a partire dagli anni ’50 e fino all’80 (diciamo dalla sconfitta operaia alla Fiat del 1955 fino all’ulteriore sconfitta con la “marcia dei quarantamila”, ma solo per la necessità di fissare paletti e “pietre miliari”). Se vogliamo andare alla rappresentazione ancor più generalmente sociale (e strutturale) della vicenda, possiamo dire che il periodo 1955-80 rappresenta l’incerto e vacillante inizio del passaggio, anche in Italia, dal capitalismo borghese – vecchio modello del predominante monocentrismo inglese, morto già all’inizio del XX secolo negli Usa e che si trascinò penosamente più a lungo in Europa grazie anche al fallimento delle “rivoluzioni” nazifasciste, divenute sfogo di revanscismi con caratteri di “tradizionalità” negativi in termini di radicale trasformazione (una storia comunque da riscrivere al gran completo) – a quello dei funzionari del capitale, appunto di tipologia statunitense.
Già questo fatto ci deve far comprendere come gli Usa siano effettivamente una “grande nazione” o comunque una forma più avanzata di capitalismo, una forma rivoluzionaria. Nessun antiamericanismo culturale, nessuna forma di ulteriore revanscismo e di appello ad una ormai retrograda Tradizione ci farà fare passi avanti. Gli Usa sono da superare, e per superarli bisogna certo rintuzzare le spinte imperiali tuttora forti, pur nelle due tattiche (della “tigre”, più frettolosa, e del “serpente, più lunga e tortuosa) fra loro in lotta per realizzarle; guai se invece ci si limita a rivangare velleità passate, che addirittura vorrebbero riconiugare certa cultura borghese (veramente grande, nessuno lo nega, ma ormai irrimediabilmente trascorsa) con culture ancora più antiche.
Gli Usa gettarono le basi della loro primogenitura con la guerra di secessione o civile, schiacciando il sud agrario-cotoniero e dando pieno sviluppo all’industria del nord unionista. Tuttavia, ironia della storia, non sono poi state le classi più classicamente borghesi del nord (quelle di Boston e Philadelphia, di origine inglese non a caso) a guidare la trasformazione da un tipo di capitalismo all’altro. La trasformazione avvenne con altri ceti dominanti di nuova industrializzazione, nel Michigan di Detroit, divenuta la patria dell’automobile, supportati dai “falchi da preda”, i petrolieri del Texas (nel sud ex confederato), evidentemente complementari ai settori fondati sul motore a scoppio. Veblen, per collocazione temporale, vide soprattutto l’illanguidirsi del vecchio capitalismo “bostoniano” con trasformazione della superata borghesia in “classe agiata” (il suo testo è del 1899); teoria che si avvicina a quella marxiana della trasformazione dei capitalisti, organizzatori della produzione nella fase concorrenziale, in rentier nella fase della centralizzazione monopolistica.
Va rilevato, per inciso, che tutto quanto affermato da certo marxismo (finanziarizzazione con tendenziale putrefazione del capitalismo, predominio del rentier o capitalista finanziario, “distruzione della ragione”, quella illuministica, ecc.) era abbastanza giusto se riferito al capitalismo borghese (ormai allignante nei settori della prima “rivoluzione industriale”). Si commise solo il “piccolo errore” di pensare che ne sarebbe seguito l’impossessarsi della “bandiera del progresso” da parte della classe operaia (trattata come complesso del lavoro produttivo cooperativo, dalla direzione all’esecuzione), con trasformazione della società verso il comunismo.
Stava invece nascendo una nuova classe dirigente (e dominante) che avrebbe continuato a guidare l’economia secondo le forme del mercato e dell’impresa, forme però modificate dall’emergere di questi nuovi gruppi dominanti in quanto strateghi (funzionari) del capitale. La classe operaia, prosciugata delle “potenze mentali della produzione” trasmigrate sotto la direzione degli strateghi capitalistici, si trasformò in un ceto via via integrato nella riproduzione dei rapporti della nuova formazione sociale
, mantenendo in date contingenze, magari di crisi e difficoltà, una carica contestativa nell’ambito della distribuzione, ma non certo per il rivoluzionamento di tali nuovi rapporti, ad essa convenienti poiché molto più favorevoli alla mobilità sociale, alla promozione di strati operai almeno verso i “ceti medi”.
La rivoluzione, non più operaia ma proletaria, si spostò ad oriente e fu condotta da élites in grado di mobilitare le masse povere dei contadini contro rapporti precapitalistici. Queste élites, per gran parte del ‘900, guidarono la rivoluzione contadina mediante uso di una forma “riveduta e corretta” – il marxismo-leninismo – della teoria di Marx. Non a caso, i grandi dirigenti di tali rivoluzioni (Lenin e Mao in testa) hanno apportato le loro migliori innovazioni nel campo del sapere strategico rivoluzionario, in parte assimilabile a quello militare; ed in quest’ambito essi sono ampiamente citati in un qualsiasi manuale di strategia dei nostri tempi.
Il capitalismo statunitense si spostò altrove (un altrove sociale, sia chiaro) rispetto alle problematiche del capitalismo borghese; e su questa base alla fine vinse. Solo nel 1941 – a giochi fatti negli Usa, ma non nell’intero mondo capitalistico – Burnham, autore in possesso di categorie d’analisi marxiste ma approdato al conservatorismo per l’evidente fallimento delle rivoluzioni che si pretendevano comuniste, addivenne ad una concezione della nuova formazione sociale statunitense completamente diversa da quella arretrata di Veblen. Tuttavia, i manager trattati da tale autore innovativo non sono ancora gli strateghi o funzionari del capitale, sui quali è indispensabile formulare nuove teorie; e da allora sono passati settant’anni, una vera débacle per economisti e sociologi (marxisti e non) di tutta questa lunga epoca storica.
Dopo questa carrellata – che vuole una volta di più mettere in evidenza come abbiamo bisogno di ben diversi studi storici e quindi di storici completamente innovativi (non più teorie del “secolo breve” o dell’“economia mondo”, che ormai oscurano totalmente il significato utile a capire ciò che si sta svolgendo oggi; e sto parlando delle migliori) – torniamo al nostro “pauvre pays”. L’Italia, come capì sia pure solo parzialmente Gramsci, non riuscì adeguatamente per tutta la prima metà del XX secolo a trasformarsi in vero paese industriale, restò anzi fin praticamente al boom della fine anni ’50 un paese agrario-industriale (o almeno metà e metà). Tuttavia, anche qui la storiografia ha condotto in direzioni sbagliate.
Il fascismo, ad esempio, non fu affatto un fenomeno reazionario al seguito del capitale finanziario (interpretato marxisticamente come già sopra accennato, cioè come putrescenza del capitalismo ricondotto alla classe dominante dei rentier) o, ancor peggio, del capitale agrario. Mi dispiace, ma si trattò comunque di un tentativo di modernizzazione e dunque di rivoluzionamento, che si arenò e “infistolò” per altre cause cui non posso qui nemmeno accennare; e anche in tal caso, del resto, occorrerebbero dei nuovi storici. Se si resta alla storiografia “antifascista”, quella della lotta tra “libertà democratica” e “totalitarismo”, non si capirà un accidenti. Credo sia ora di finirla con questi finti “liberali”, in tutto salvo che nell’imporre autoritariamente una matassa di “studi storici” aggrovigliata, mistificatoria, totalmente muta davanti alla nuova epoca che s’apre. E ancora essi occupano quasi tutti gli spazi nelle Università; buon motivo per non riformarle, bensì chiuderle, passando la mano a nuovi centri culturali (scherzo, ma non del tutto).
Nel dopoguerra, e dopo un periodo non breve (fino alla seconda metà anni ’50) di debole trasformazione sociale, quest’ultima venne affidata in gran parte agli industriali, tipo Agnelli ecc., che erano stati tra coloro che avevano appoggiato il voltafaccia durante la guerra. Si formarono però l’Eni (del “non borghese” Mattei) e l’Enel, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica che mise fuori gioco una parte delle vecchie famiglie borghesi. Tuttavia, la prima ricevette un duro colpo con l’eliminazione del suo creatore e dirigente (autentico funzionario del capitale nel senso da noi inteso di transizione intracapitalistica, di passaggio da una formazione sociale ad un’altra), la seconda fu un compromesso reso necessario dall’allargamento della maggioranza al Psi, che abbandonò il frontismo con il Pci ancora legato ad altra prospettiva, soprattutto in sede internazionale. Malgrado l’importanza non indifferente dell’industria “pubblica”, furono pur sempre i settori, in quel periodo da considerarsi d’avanguardia in Italia, del metalmeccanico e soprattutto dell’auto a guidare la trasformazione del paese in prevalentemente industriale.
Il prolungarsi della preminenza dell’auto è stata però negativa perfino in Giappone, che sembrava destinato a prendere il posto degli Usa come prima potenza e che – proprio, al momento del crollo dell’Urss, quando avrebbe dovuto confrontarsi più liberamente per la supremazia con gli Usa, paese lungimirante dotatosi dei più avanzati settori della nuova ondata innovativa – ricevette una dura legnata, entrando in quel lungo periodo di stagnazione (con crescita intorno allo zero e senza nemmeno sviluppo in quanto trasformazione del sistema sociale e produttivo) durato una dozzina d’anni e non ancora realmente finito. In Italia, che non aveva certamente velleità di leadership mondiale, accadde per certi versi di peggio. Dopo il 1980, la Fiat appare la guida indiscussa della Confindustria. Negli anni successivi si pavoneggiò con la “qualità totale” e i nuovi processi lavorativi automatizzati elettronicamente di cui, a somiglianza di quanto avveniva in Giappone con la Toyota, si fecero “cantori” perfino studiosi di orientamento marxista (ci caddi anch’io per non più di tre-quattr’anni, di cui mi sono vergognato a sufficienza, andando in bestia quando qualcuno tenta ancora di confinarmi alle mie tesi di allora sul capitalismo lavorativo; anche se i miei critici dell’epoca hanno fatto ben peggio con il vecchiume del general intellect e altre trovate similari da veri “grundrissisti” più che marxisti).
Nel 1988 prevalse alla Fiat Romiti su Ghidella; prevalse cioè il preteso interessamento al complessivo gruppo Fiat e non alla sola Fiat Auto; in realtà prese il sopravvento il “parassitismo” finanziario su quello più propriamente industriale, il che significò in realtà predominante interessamento alla sfera politica da cui trarre, come del resto in tutta la storia dell’azienda, sussidi vari che peseranno sulla spesa pubblica. Interessante anche il casus belli dello scontro tra i due con il primo appoggiato dal “grande Avvocato” (sempre considerato lo stratega dell’azienda mentre era solo interessato a fare la sanguisuga nel senso appena sopra considerato) e il secondo da Umberto, che evidentemente però non lo difese fino in fondo, forse perché non ne aveva la forza. Vi fu un’indagine, promossa da Romiti, tesa a mettere in luce come vi fossero stati troppi rivoli di denaro affluiti nelle tasche dei fornitori Fiat (le piccolo-medie imprese della s
ua “cintura produttiva”) con diminuzione delle disponibilità della casa madre. Nessuno sostenne manovre corruttive, magari “tangenti” prese per concedere commesse a queste imprese. Si trattava semplicemente di una certa strategia che mirava a mantenere agganciati alla grande impresa una serie di quelli anche indicati quali “ceti medi produttivi”.
L’altra strategia era invece mirata ad avere più fondi per oliare ruote del carro politico in funzione dell’ottenimento di sussidi e appannaggi vari. Fondi diretti in buona parte anche alla “lubrificazione” dei maggiori (finti) “oppositori” partitici e sindacali, sconfitti nell’80 (ma fu vera sconfitta o già commedia preparata per i successivi sviluppi? Perché il Berlinguer dell’eurocomunismo filo-atlantico si espose a quella “sconfitta annunciata”?) e già pronti al salto della quaglia che avverrà pochissimi anni dopo, come da noi messo in luce più volte. Al posto dei “ceti medi produttivi”, si ingrosseranno invece le schiere di quel personale improduttivo (nel senso non marxiano, ma proprio in quello corrente), corrotto e marcio, sia politico che intellettuale, vero “marchio di fabbrica” lasciato dalla Confindustria agnelliana (supina agli Usa, che agirono tramite il “pentito Buscetta”, con pieno appoggio della mafia) nella sfera politica italiana del dopo “crollo del muro”, di “mani pulite”, ecc.; tutte cose già illustrate più volte e che pesano a tutt’oggi come la nostra specifica maledizione, del tutto orientata alla creazione di una sinistra fasulla, di pura denominazione inventata (non a caso, oggi vi si possono raggruppare le altre finte denominazioni di “centro” e di “destra” nell’ammucchiata “antiberlusconiana”, priva di un qualsiasi progetto se non quello del rinnegamento e tradimento del paese).
Dopo il crollo del mondo bipolare, con tutto il seguito di eventi di cui i lettori del blog sono già edotti da lungo tempo, viene portato il decisivo attacco della Confindustria agnelliana (fulcro dell’ancora semiborghesia, ormai decadente e dunque degenerata) all’industria “pubblica”, la cui positività, come già detto, consiste nell’essere di punta e strategica (energia, elettronica d’avanguardia, ecc., anche di carattere militare, cui solo i malefici pacifisti a antimilitaristi, o scemi o farabutti, possono opporsi nella fase storica che avanza!). Oltre al fatto che in essa si andava formando, pur se in modo molto “timido” e incerto, la nuova classe dei funzionari del capitale, che avrebbe forse potuto condurre alla realizzazione della transizione alla corrispondente formazione sociale, evitando il processo di imputridimento tipico di un “passaggio (sociale) interrotto”.
L’attacco non mirava affatto ad impadronirsi di tali settori per renderli più efficienti e produttivi. Questa è la balla che ancor oggi viene raccontata dalla stampa dei confindustriali e finanzieri “parassiti”: lotta al “monopolio” dell’Eni, ai “fondi neri” della Finmeccanica che alterano le legali regole della “libera concorrenza” (verso imprese che hanno alle spalle la forza bellica della prima potenza mondiale!). Il reale scopo di allora, e odierno, è smantellare, depotenziare, svirilizzare, questi settori che, nel loro “piccolo”, danno fastidio a quelli statunitensi; non perché abbiano la forza necessaria a batterli (non scherziamo!), ma perché giostrano in un mondo che si va facendo multipolare (e gli Usa non sono più in grado di opporvisi). Essi giostrano da ovest ad est, da nord a sud, e così agendo rischiano di accentuare e accelerare le spinte ormai inarrestabili alla suddetta configurazione mondiale; inarrestabili, ma che alcuni ambienti statunitensi sognano ancora di spegnere, invertendone la direzione, mentre altri vorrebbero almeno rallentarle per avere più tempo nell’inventare strategie adeguate al loro contenimento.
All’inizio degli anni ’90, con il tradimento aperto della sedicente sinistra (l’ammucchiata dei rinnegati di tante bandiere divenuti traditori del proprio paese perché ben “unti” da Usa e Confindustria), l’ondata si abbatterà comunque sull’industria “pubblica”. Vi fu solo una debole resistenza, che fu obbligata a mascherarsi (e ancora non si smaschera, questo il grave problema!) accodandosi a colui che, minacciato dalla occhettiana “gioiosa macchina da guerra” dietro cui c’erano i reali mandanti, fu obbligato a mettersi in politica, dopo alcuni tentativi falliti di favorire la riunione di altre forze da appoggiare dall’esterno (ci si ricordi il patto Segni-Maroni, fatto subito saltare da Bossi). Da quel momento inizia la “commedia all’italiana”. Solo alcuni politologi, tanto noti quanto cretini o in perfetta malafede, cianciano di “seconda Repubblica”; i più intelligenti capiscono che continua a marcire l’impossibile transizione dalla prima (finita, cancellata da un colpo di Stato mascherato da perseguimento della giustizia) alla seconda che non può nascere.
I settori di resistenza al totale disfacimento dei nostri settori strategici hanno accettato di fatto l’impostazione dell’ammucchiata dei rinnegati e traditori, che non hanno mai avuto nulla di politico da proporre, se non chiacchiere inutili. Si verifica quindi un oggettivo accordo nel far degradare sempre più la lotta politica a semplice personalizzazione dello scontro: o pro o contro Berlusconi. Sia chiaro che i primi responsabili sono quelli dell’ammucchiata, divenuti così il PAB (partitume o pattume o poltiglia anti-Berlusconi). Tuttavia, giocando in difesa, e continuando a mascherarsi, anche gli “altri” lasciano campo libero ad un personaggio di non certo elevate capacità politiche, anzi molto limitato e del tutto inadatto a mettere in moto la reale costruzione di una forza politica; solo personale raccogliticcio, invenzioni continue di partiti senza storia né vera organizzazione, indubbia promozione artificiosa di portaborse e “belle donne”, ecc. Oggi la degenerazione è massima: semplice gossip, calunnie, menzogne, falsificazioni, scandali (veri o costruiti). E in più una magistratura che solo un paese degradato come questo può ancora tenere in funzione e far finta di credere che amministri la giustizia, mentre è puro strumento del PAB, cioè dei gruppi economici e pseudopolitici antinazionali. L’indecenza ha superato ogni limite del credibile; tuttavia, la reciproca connivenza continua.
Certo, a questo punto sorge il sospetto che quasi vent’anni di questa immane putrescenza abbiano fatto sparire i settori della “resistenza nascosta”. E’ del tutto possibile che in tutti questi anni anche il sottoscritto abbia perso quei pochi canali informativi che riusciva a tenere in piedi. Non ne sono ancora del tutto convinto. In fondo, si mettono tuttora a segno alcuni colpi non indifferenti in politica estera; e non solo per le grandi imprese sotto sostanziale controllo “pubblico”, ma anche per settori piccolo-medio imprenditoriali che “seguono” la loro sorte benigna in accordi internazionali. Non si nota però la menoma volontà di fare una vera e intensa pubblicità a questi accordi; se ne parla, ma non tanto quanto è necessario affinché restino nella memoria della “gente”, invece tutta presa dal “morali
smo”, ipocrita e furfantesco, propalato dalla stampa e dalle incessanti incursioni televisive del PAB.
E’ evidente che pesa in Italia l’incuria di decenni (e gli ultimi due in modo particolare), in cui si sono gonfiati i ceti medi improduttivi (nel senso di effettivamente inutili e tendenti al parassitismo) a danno di quelli produttivi. Una vera manna per il PAB, che trova oggi qui il suo reale bacino di difesa (a parte i pensionati iscritti ai sindacati); una raccolta informe che si crede colta, insostituibile (mentre grava pesantemente sulle spalle di chi produce ricchezza) e i cui “figlietti/fighetti”, alimento dei centri sociali, forniscono le bande di scalmanati a difesa dei privilegi dei loro genitori sanguisughe. E’ necessario svuotare questa parte della società del tutto superflua; non semplicemente per il contenimento dei “conti pubblici”. E’ ora di smetterla con il tormentone sul Debito in se stesso considerato. Vada al diavolo la UE, per favore; l’essenziale è soprattutto che la spesa pubblica non alimenti l’inutilità. Il PAB (e non solo questo), con i suoi economisti scherani, cerca di diffondere un keynesismo che credo avrebbe fatto inorridire il povero grande economista inglese tirato in ballo.
Basta con il simmetrico attacco: da una parte, all’assenza di consumo che sarebbe essenziale al rilancio della produzione, dall’altra al consumismo, attacco portato dai “frugali e parsimoniosi” antimodernisti, favorevoli all’epoca delle lucerne. Sono le solite due facce della stessa medaglia; un vero “gioco degli specchi” inscenato da pennivendoli al servizio dei dominanti; ma dei loro gruppi peggiori, quelli dei settori “maturi” e della finanza “weimariana” (“ramificazione” delle mene di quella statunitense, che fa i suoi giochi per la supremazia di dati ambienti predominanti del proprio paese). Il problema non è il consumo, né in positivo né in negativo; e si sciolgano queste bande di “associazioni a difesa dei consumatori”, che provocano solo danni e non certo collaterali. Nemmeno, si deve avere la fissazione della “produzione” di una “qualsiasi cosa”. Si deve produrre ciò che accresce il peso del paese nel consesso mondiale, che non è rappresentato dall’altra consapevole menzogna della mera “globalizzazione dei mercati”, una versione vergognosa e degradata della ben diversa tesi smithiana della “mano invisibile”. Nessuno capisce la contingenza storica in cui si calano certe teorie sociali. Una teoria, rivoluzionaria ai suoi tempi, diventa mezzo di reazionaria difesa di una superata stagione della società quando viene cristallizzata e usata a distanza di secoli (è la stessa sorte toccata al marxismo).
Cerchiamo certamente interlocutori, ma non nell’ambito di chi predica ancora ideologie arcaiche o di chi intende la politica come puro attacco moralistico e giustizialista. Questi sono i peggiori e più disgustosi nemici. Dobbiamo capire se ancora esistono i “resistenti” che hanno dovuto trincerarsi, e mascherarsi, dietro alla lotta tra PAB e PB (altrettale partitume o poltiglia berlusconiana). Secondo me, “qualcosa” esiste. Continuiamo. A qualche prossima puntata, la spiegazione ulteriore di come deve funzionare un’analogia storica, che non si può evitare, ma deve essere attualizzata e rivitalizzata. Intanto, ci si impegni nel pensare la politica che dovrebbe essere attuata; e il perché lo deve essere, senza cadere nelle spire dei “facitori di utopie”, in coloro che sognano (ma in buona fede? Io non ci credo, do per scontato il contrario: o venduti o “anime belle” molto narcisistiche) le rivolte degli oppressi.
Siamo in ben altra epoca; e dobbiamo essere attentissimi alle lotte tra gli “oppressori”. Si produrranno crepe, è sempre accaduto, ma dopo lunghi periodi di “accumulazione” di tensioni. I “terremoti” sono questione di uno-due minuti all’incirca; ma ci sono anni, decenni, talvolta ancor più, di frizioni tra falde tettoniche, che hanno accumulato l’energia dello sconvolgimento “di superficie” avvenuto in un istante. E finora, non consta che sia stato individuato un metodo (“bordighista”) di previsione della data in cui l’accumulo avrà raggiunto il punto decisivo. Malgrado la grande buona volontà degli uomini, malgrado essi credano che “volere è potere”, la vera storia avanza per accumulo di frizioni; chi crede di prevedere lo scatenamento dell’energia (rivoluzionaria) è solo un fesso, quando non invece un imbonitore al servizio dei dominanti (insisto: quelli più reazionari), uno che galvanizza gruppi di “deboli di mente” affinché producano guasti e stupidi vandalismi, con effetti contrari a quelli delle rivoluzioni/terremoti.
Muoviamoci contro coglioni e farabutti per ampliare il terreno delle nostre conoscenze di un’epoca che è ormai indubitabilmente nuova. Serviamoci pure del passato; è essenziale (e ci vorrebbero fra noi dei veri storici), basta saperlo interpretare e anche re-interpretare per renderlo humus di una migliore conoscenza della fase in cui viviamo e operiamo.