L'AMERICA DI FRIEDRICH LIST (di G. Gabellini)

Uno dei più attenti e lucidi osservatori dell'inarrestabile crescita economica statunitense innescatasi all'indomani della Rivoluzione Americana fu senza ombra di dubbio lo studioso tedesco Friedrich List.

Partito alla volta del Nuovo Mondo in compagnia dell'amico Marchese Lafayette (che era stato invitato negli USA in qualità di "ospite della nazione"), costui rimase ben presto impressionato dall'originalità e dalla funzionalità del "sistema americano", che aveva consentito alle ex Colonie inglesi di bruciare le tappe, e di ridurre drasticamente il divario, in termini di sviluppo, che le separava dalle più potenti nazioni europee con alle spalle secoli e secoli di Storia. List ebbe sufficiente acume per notare, in primo luogo, che la Rivoluzione Americana era scaturita dall'esigenza dei coloni di recidere definitivamente il cordone ombelicale che li aveva legati indissolubilmente all'Inghilterra, e di abbattere i vincoli fissati dal liberismo propugnato da Adam Smith, che inchiodavano il Nord America al mero ruolo di succursale dell'Impero. Londra esigeva inderogabilmente che le Colonie concentrassero tutte le proprie energie nel potenziamento del settore primario, e che inondassero il mercato internazionale di tabacco, cotone e grano a prezzi altamente competitivi, lasciando che fosse la madrepatria ad occuparsi della produzione manufatturiera. Nella sua opera capitale "La ricchezza delle nazioni", Smith previde, sotto certi aspetti, ciò che sarebbe accaduto a breve, scrivendo che qualora "Dovesse accadere che gli americani, per associazione o per qualche sorta di violenza, interrompessero l'importazione di manufatti europei, dando così un monopolio a loro compatrioti che potessero fabbricare beni simili, sviando una parte considerevole del loro capitale in questa intrapresa, essi ritarderebbero, anziché accelerare, la crescita della loro produzione annuale, e ostacolerebbero, lungi dal promuoverlo, il progresso della loro terra verso prosperità e grandezza. E sarebbe anche peggio se, allo stesso modo, tentassero di accaparrarsi essi stessi il loro commercio d'esportazione". Un classico del liberismo: laddove non si ottimizza l’uso del capitale a disposizione, si finisce inesorabilmente per sobbarcare il consumatore finale di oneri tali da inceppare o comunque compromettere il pieno e corretto dispiegamento del sistema produttivo. Tuttavia, l'accattivante profezia di Smith andò a infrangersi contro lo scoglio incarnato da George Washington e Benjamin Franklin, fermamente convinti che il pieno riscatto delle colonie non sarebbe passato assolutamente per l'incremento delle esportazioni, ma per lo sviluppo e il potenziamento del mercato interno. Fu così, in aperta e diametrale antitesi con i precetti basilari del liberismo propugnato da Adam Smith, che nacquero gli USA, nazione antiliberista per eccellenza. Il segretario del tesoro Alexander Hamilton fondò infatti la Banca Nazionale (1791), mediante la quale emettere moneta in base alla domanda esistente delle forze produttive, andando così a spezzare il rapporto di stretta interdipendenza che vincolava la produzione alla disponibilità dei banchieri privati di concedere credito. Per emettere moneta in tal misura Hamilton pensò di non limitare il capitale della Banca alle mere riserve di metalli preziosi custodite nei forzieri, ma di estenderlo anche a numerosi titoli di stato, di cui la nazione si impegnava ad onorare il pagamento tramite la ricchezza che sarebbe stata prodotta, negli anni seguenti, con lavoro del propri cittadini. A queste innovative misure, Hamilton accostò l'imposizione di elevati dazi protettivi sulle importazioni di manufatti a basso prezzo, in modo da stimolare ricerca e innovazione da parte dell'industria nazionale. Tali dazi sarebbero poi stati eliminati non appena il settore secondario americano si fosse dotato degli strumenti necessari per competere efficacemente sui mercati internazionali. Tuttavia le pressioni esercitate dai grandi latifondisti e dai commercianti divennero ben presto soverchianti per i governi che avevano ereditato il testimone di Washington, finché la Banca Nazionale non fu chiusa, nel 1811. List arrivò negli Stati Uniti proprio in quegli anni, in cui la lotta tra proprietari terrieri e promotori del "sistema americano" si stava facendo via via più aspra, e si schierò immediatamente contro i primi e a favore dei secondi. List si pose immediatamente in antitesi rispetto ai cardini del liberismo di Adam Smith, smontando pezzo per pezzo la sua dottrina e confutando molti degli assunti su cui si basava "La ricchezza delle nazioni". Smith guardava infatti con estremo disprezzo l'istituzione statale, che considerava nulla più che uno strumento di contenimento ed oppressione della libertà dei singoli individui, specie in materia economica. Lo stesso protezionismo era visto da Smith come alta espressione di "Pura follia", in quanto "Ogni nazione, come ogni individuo, deve comprare liberamente le merci dove esse sono disponibili al prezzo più basso". List ritenne invece che i dazi sulle importazioni fossero indispensabili proprio per garantire alla nazione un grado di prosperità paragonabile a quello dei paesi europei. In questo modo gli investitori americani si sarebbero sentiti stimolati a migliorare i propri sistemi produttivi e ad ammodernarli sulla falsariga dei loro rivali europei. Ma il solco profondo che divise incociliabilmente Smith da List è dovuto alla differente importanza che i due attribuirono a lavoro e capitale; il primo conferì al capitale una capacità produttiva intrinseca, mentre il secondo considerò il lavoro come forza produttiva primaria, che si sviluppa con l'ausilio di quantità determinate di capitale. Da ciò si evince che il campo di analisi di Smith consisteva principalmente nello studiare le dinamiche che regolavano il commercio, ovvero lo scambio dei beni, mentre l'indagine di List verteva sulla trattazione della vera forza produttiva. Quest'ultimo accusò l'economista inglese di aver ridotto la nozione di capitale esclusivamente alle materie prime, conferendo loro un'importanza eccessiva, non considerando il fatto che il corretto e proficuo impiego di questo capitale dipende dalle condizioni sociali e culturali di una nazione, oltre che dalle possibilità offerte dalla natura. Queste condizioni sociali e culturali List le raggruppò sotto il nome di "capitale della mente", sottolineando la sconsideratezza di Smith, che le aveva invece liquidate come poco più che irrilevanti all'interno dei processi produttivi. "Così – spiegò List – l'uomo che alleva maiali è, secondo questa scuola, un membro produttivo della comunità, ma colui che istruisce gli uomini è un mero non – produttore (…). Un Newton, un Watt, un Keplero non è tanto produttivo quanto un cavallo, un mulo o un bue da tiro (…). E non dobbiamo credere che J .B. Say abbia rimediato a questo difetto della dottrina di Adam Smith con la sua invenzione di 'beni immateriali'. I produttori mentali (immateriali) sono produttivi solo in quanto, secondo questa veduta, sono remunerati con valori di scambio, e non in quanto produttori di capacità produttiva. Essi paiono a costoro solo un capitale accumulato". I colpi assestati al liberimo classico, come si vede, sono tremendi, ma la critica di List assume toni, se possibile, ancor più radicali: "La scuola [liberista] ha adottato co
me sua espressione favorita il detto 'laissez faire, laissez passer', un'espressione che suona gradita ai predoni, ai truffatori e ai ladri non meno che ai mercanti. Questa perversione, di abbandonare gli interessi dell'industria e dell'agricoltura alle esigenze del commercio, senza alcun limite, è la conseguenza naturale di questa teoria, che tiene conto puramente dei valori presenti, e non delle capacità di produrli, e considera il mondo come nient'altro che come una indivisibile repubblica di mercanti. La scuola non comprende che il mercante può conseguire il suo scopo (ossia il guadagno di valori di scambio) a spese dell'agricoltura e del fabbricante, a spese delle capacità produttive della nazione e della sua stessa indipendenza". Si tratta di un'obiezione assai centrata, mossa contro il cuore stesso del liberismo, che considera l'economia politica come la semplice somma delle economie private, o degli interessi privati, dei singoli individui, laddove la Storia ha ampiamente dimostrato esser vero l'esatto contrario; l'agire degli individui che perseguono con attenzione i propri interessi personali non necessariamente (quasi mai, in realtà) migliora le condizioni della nazione, né consegue gli interessi della comunità. Ladri, rapinatori, usurai coltivano con puntiglio i propri interessi, ma è del tutto grottesco affermare che la società nel suo complesso beneficerebbe delle loro attività, qualora costoro fossero lasciati liberi ("laissez faire") di esercitarle. Ciò si verifica tanto all'interno delle singole nazioni quanto, e in misura esponenziale, tra le nazioni stesse. Parlando di un libero mercato unico mondiale e trattando le nazioni alla strenua di meri individui, Smith dedusse che ogni nazione, così come ogni individuo, finisca inesorabilmente per conseguire l'interesse globale della razza umana nel perseguire i propri specifici interessi. Tuttavia, a differenza del cieco ottimismo sparso a piene mani dal celebre economista britannico, la realtà è che, come scrive Gianfranco La Grassa, "In linea di principio dunque – e non soltanto nel capitalismo ma anche nelle società precedenti – il conflitto, la competizione, lo scontro sono aspetti generali e preminenti, mentre la cooperazione, la collaborazione, l’alleanza, sono aspetti particolari e subordinati. Se ne tenga infine conto con un minimo di realismo. Basta con le ‘pie’ intenzioni che annebbiano la mente e sviano le indagini”. Un'impostazione certo schmittiana dei rapporti umani, ma che non tradisce affatto il sostanziale stato delle cose. Ed è proprio in relazione/opposizione all'utopia mondialista di Smith che si colloca il pragmatismo di List, il quale comprese benissimo dove si sarebbe andati a parare applicando alla lettera i dettami del liberismo: "Nelle condizioni attuali del mondo l'effetto di un libero commercio globale non porterebbe a una libera repubblica universale ma, al contrario, alla soggezione universale delle nazioni meno avanzate sotto la supremazia della potenza predominante. Il mercato unico può essere realizzato solo fra le nazioni che hanno raggiunto un livello pressappoco uguale di industria e di civilizzazione, di civiltà politica e potenza". Ma non finisce qui. List non si limitò a tracciare sommariamente il quadro raffigurante il mondo che si sarebbe sviluppato con l'applicazione del liberismo smithiano, ma scese nello specifico, affermando che "Asia, Africa e Australia saranno 'civilizzate' dall'Inghilterra e coperte di stati modellati sul modello economico anglosassone. Le nazioni dell'Europa continentale perderanno importanza e produttività. Nel mondo modellato dal liberismo britannico, il compito della Francia, come di Spagna e Portogallo, sarà di rifornire il mercato britannico dei vini migliori, e di bersi quelli scadenti. La Germania avrà da offrire al mercato inglese poco più che giocattoli, orologi a cucù e scritti di filologia, e talora anche corpi di mercenari, che saranno mandati a sacrificarsi nei deserti d'Asia e d'Africa per espandere la supremazia commerciale e industriale, linguistica e letteraria inglese". Al giorno d'oggi, è sufficiente sostituire, nel contesto indicato da List, la parola USA (paradossalmente, nati dai presupposti anti smithiani sopra indicati) a Inghilterra e il gioco è fatto. E' forse superfluo sottolineare che è attingendo al "sistema americano" (quello di George Washington, ovviamente) celebrato, rivisitato e ampliamente corretto di Friedrich List nella sua opera capitale “Il sistema nazionale di economia politica” che la Germania è, come l'araba fenice, risorta più volte dalle ceneri, con uomini politici della stoffa di Bismarck, Hitler e Adenauer che seppero cogliere quanto di buono aveva indicato e prescritto (in specie su come potenziare le forze produttive) quel vecchio, sottovalutato (e oramai dimenticato) osservatore della società americana, per applicare modelli economici finalizzati ad accrescere la ricchezza complessiva della nazione, e non a rimpinguare, da veri weimariani, le tasche di pochi torvi avvoltoi a discapito della comunità nel suo complesso.