Il razzismo occidentale nella campagna contro Berlusconi di Andrea Fais
L’attacco nei confronti di Silvio Berlusconi, da parte di diversi organi di presunta informazione italiani, ha raggiunto e valicato i limiti della commedia.
Non contenti delle escort, o di sbattere in prima pagina storielle squallide che pensavamo limitate a qualche salotto televisivo delle emittenti italiane, le firme di Repubblica ora, pur di puntare il dito contro Berlusconi, e di screditarlo di fronte a quella parte di pubblico di lettori che ogni mattina regala il personale quotidiano obolo alla propria parrocchia editoriale (di destra, centro o sinistra che sia), passano ogni limite e offendono pesantemente e senza alcun diritto di replica – che si guardano bene dal concedere – i leader dei Paesi con cui il Governo Italiano conclude importanti accordi economici. L’articolo a firma Francesco Bei, intitolato “Vertice OSCE: l’amore di Berlusconi per il padre-padrone del Kazakistan”, e pubblicato nel sito di Repubblica il 2 Dicembre scorso, con l’ovvio e ormai stucchevole scopo di seminare ancora più livore personale verso l’odiato premier italiano, costituisce uno dei più inqualificabili insulti alla Repubblica Democratica del Kazakistan e alla sua Presidenza, legittimata e confortata da risultati elettorali certificati da apposite commissioni ministeriali e organi sovrani della Repubblica medesima, che nessuno può permettersi di mettere in discussione in assenza di prove documentate e attendibili che ne dimostrino l’irregolarità.
Evidentemente abituati agli standard della politica occidentale, dove è possibile diventare presidente degli Stati Uniti anche senza la maggioranza certificata e dopo un’inchiesta elettorale senza risultati concreti, durata un mese (chi si ricorda la “vittoria” di Bush nel 2000?), quelli di Repubblica pretendono di poter giudicare col metro anglofono del bilanciamento bipartitico-maggioritario ogni Paese, al di là delle diverse storie nazionali e delle diverse particolarità geopolitiche. Il Kazakistan è stato sino al 1991 una Repubblica Socialista Sovietica, appartenente all’Urss. Nei mesi della distruzione passata alla storia col nome di “perestrojka”, la Repubblica Kazaka e la sua classe dirigente sovietica hanno pensato di proteggere il proprio Paese attraverso un processo di indipendenza che potesse evitare alla nazione, ciò che tristemente è toccato a ciò che restava della RSFSR (cioè alla Russia propriamente detta), ormai incanalatasi nel criminale mandato dell’alcoolista Boris Eltsin, coadiuvato per l’occasione dai suoi amici oligarchi, molti dei quali ancora oggi incriminati, detenuti in Russia (e tutelati – non si sa a quale titolo e per quale misteriosa ragione – dall’Unione Europea, che ne reclama il rispetto dei diritti individuali), o latitanti nella democratica Inghilterra.
Il 16 Dicembre 1991, la Repubblica del Kazakistan dichiara la sua indipendenza dal resto dell’Unione e decide di intraprendere, parimenti alle altre Repubbliche dell’Urss, un processo di autonomizzazione progressiva, che, pur forzata dagli eventi, possa in ogni caso proiettare il Paese verso un futuro di prosperità e autodeterminazione. Presidente è Nursultan Nazarbayev, già Segretario Generale del Partito Comunista della RSS Kazaka, che inizia dunque a guidare un Paese in piena crisi economica. La sfida che si profila all’orizzonte è una delle più difficili: mantenere la stabilità politica in una delle fasi più critiche per tutto il continente post-sovietico. Superati i primi difficili anni, nel 1997 viene pubblicato quello che ancora oggi rappresenta una guida sicura per tutto il Kazakistan e uno dei più importanti programmi politici di lungo raggio: il Programma Kazakhstan-2030 non è soltanto un insieme di obiettivi da raggiungere, ma soprattutto una traiettoria in continua costruzione, che sta delineando una crescita impressionante capace di guidare il Paese verso traguardi di primo piano.
La grande capacità petrolifera, nota a tutti, soprattutto all’ENI, fa sì che il Kazakistan rappresenti oggi uno dei maggiori produttori energetici al mondo, ma soprattutto che sia uno dei principali attori geopolitici all’interno di un processo sempre più evidente di naturale riavvicinamento dell’Europa all’Asia. È la grande cultura di questo meraviglioso e gigantesco Paese, situato proprio nel cuore delle Steppe, ad emergere e a poter finalmente affermarsi nel mondo, consentendoci di potere conoscere un quadro di culture, tradizioni e letterature immerse nelle millenarie saghe turco-mongole e turaniche in genere, alla base di alcune tra le più affascinanti civiltà, comprese quelle ritenute di esclusiva pertinenza europea o, ancor più comicamente, occidentale.
Servirsi di locuzioni sconcertanti del tipo “Padre-Padrone” o “dittatore” (come comparso in altri pseudo-approfondimenti dello stesso giornale), in riferimento a Nursultan Nazarbayev è gravemente offensivo, non soltanto nei confronti della Presidenza della Repubblica del Kazakistan, oggi rappresentata dall’arguto dirigente politico kazako, ma anche nei confronti del Governo, guidato dal Premier Karim Massimov, e del Popolo Kazako che crede fermamente nel lavoro della propria classe dirigente, scelta democraticamente, confermando l’unità di intenti nel comune progetto di sviluppo. Il quasi 92% dei consensi conquistato nelle ultime elezioni presidenziali dimostra non soltanto il successo storico del Programma Kazakhstan-2030, ma una completa fiducia dei circa 18 milioni di cittadini kazaki nel proprio Stato.
Il Rapporto pubblicato dalla Presidenza della Repubblica, quest’anno, mette in evidenza le immense realizzazioni degli ultimi tempi: nel 2008 il PIL è raddoppiato, e negli ultimi dieci anni la retribuzione media è cresciuta di ben cinque volte e le pensioni di tre volte in media, mentre la percentuale di popolazione percipiente un reddito ritenuto inferiore al minimo è passata dal 50% di fine Anni Novanta al 12% degli ultimi anni. In dieci anni, oltre alle pre-esistenti strutture di epoca sovietica, il Kazakistan ha visto sorgere 652 scuole, 463 strutture sanitarie, e migliaia di nuove e moderne abitazioni che hanno consentito a 350.000 nuove famiglie di poter diventare proprietarie di una nuova casa. Lo sviluppo progressivo del Paese e la capitalizzazione dei profitti, nell’ambito di una saggia gestione della fase di internazionalizzazione del mercato durante la seconda metà degli Anni Novanta, hanno consentito non soltanto di dare vita alla monumentale Astana – della quale molti si riempiono la bocca, soltanto per accusare Nazarbayev di “stalinismo urbanistico” o di “megalomania infrastrutturale” senza conoscerne le grandiose eccellenze in termini di efficienza, tecnologia e servizi pubblici – ma soprattutto di razionalizzare i settori di investimento, acquistando sempre di più una capacità di gestione e indirizzo economici, evidenti dal recente dato del 2009, in base a cui è semplice osservare come il Kazakistan, durante la crisi finanziaria che ha costretto molte aziende euro-atlantiche a chiudere i battenti, abbia addirittura abbattuto la disoccupazione, creando nuovi 300.000 posti di lavoro (fonte: Euronews).
La prima delle tre decadi in cui il Programma è scaglionato, ha visto il pieno raggiungimento dei risultati con eccellenze di prim’ordine, e l’avvio di una progressiva r
icostruzione di un sistema di difesa e di sicurezza, evidente nel grande ruolo di responsabilità internazionale che lo stesso Nursultan Nazarbayev, e l’attuale Ministro degli Affari esteri, Kanat Saudabayev, hanno deciso di intraprendere all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, assieme a Russia, Cina, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, e della Collective Security Treaty Organization, assieme alla Russia e ad altre ex Repubbliche Sovietiche.
Impegnato in prima linea e seriamente nella lotta contro il terrorismo, il separatismo e la criminalità organizzata (compreso quel maledetto narco-traffico dell’Afghanistan che, invece, dopo lo sbarco americano a Kabul, sta aumentando, secondo dati dell’UNODC, cioè dell’Ufficio contro la Droga e la Criminalità Organizzata delle Nazioni Unite), attraverso strutture rodate e grazie ad una saggia guida di politica internazionale interamente basata sul dialogo, sulla cooperazione e sulla volontà di una progressiva e futura pacificazione internazionale, premiata e riconosciuta anche dall’OSCE (che, ricordiamolo, decise già nel summit di Vienna, del 2007, di assegnare alla Repubblica del Kazakistan la presidenza dell’organizzazione), il Kazakistan è un Paese che ha costruito da sé e per sé un propria democrazia organica e presidenziale, che non ha alcun bisogno di prendere lezioni da nessuno, tanto meno da qualche scrivano d’ufficio, e i dati e i riconoscimenti che Berlusconi esprime non sono né stralci di “panegirici” né “messe cantate”. Questo fastidioso scherno e questa convinzione di huntingtoniana memoria che soltanto l’Occidente sia, a priori e per definizione, in grado di esprimere governi democratici e leadership trasparenti e autorevoli, traducono in un linguaggio più “pulito”, politologico ed economico, una forma ben più invisibile ma ugualmente ripugnante e meschina, di razzismo e di xenofobia, che fa malissimo al nostro Paese, non solo in termini economici (l’Italia è il primo partner europeo del Kazakistan con un’interscambio di affari che nel 2008 ha toccato i 14 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dall’Ambasciatore della Repubblica del Kazakistan in Italia, nella recente intervista rilasciata in esclusiva per Agenzia Stampa Italia), ma anche e soprattutto in termini culturali, umani e sociali. Termini che nella “altolocata” redazione di Repubblica evidentemente non conoscono.