MANCANO I MEZZI PER COMPRENDERE LA REALTA’ di Andrea Fais
Fidel Castro aveva visto giusto. Un mese fa aveva prefigurato un’invasione della Nato in Libia. Puntualmente lo scenario si è realizzato. Questo dimostra non soltanto la lucidità mentale di chi della storia del Socialismo Reale ha fatto parte per davvero, ma anche l’importante capacità di interpretare determinati scenari strategici, sicuramente ben più salda e coerente per chi ha avuto compiti di governo, gestione e comando sia militare sia politico. Tutte le chiacchiere italiote, le patetiche chiacchiere della carta stampata – di destra e di sinistra – sono state puntualmente spazzate via dai fatti, e – paradossalmente – sbugiardate proprio attraverso quel circuito multimediale, ormai divenuto ingestibile, di cui era stata favorita la diffusione capillare per meglio divulgare le solite cornici mediatico-emozionali, che colpissero al cuore le persone più ingenue e meno attente, sapientemente infarcite di notizie catastrofiche e colpi di scena sconvolgenti. Molti a sinistra, specialmente nel ciarpame dei movimenti anarcoidi, euro-comunisti, trotzkisti e degeneri della Penisola Italiana, erano già scattati sull’attenti dinnanzi alla chiamata di Obama e della folta schiera di ONG e giornalisti embedded. Non sono bastati gli scenari di Serbia, Iraq e delle decine di rivoluzioni colorate tentate, e più o meno riuscite, negli ultimi dodici anni. Non è servito a nulla osservare l’espansione ininterrotta e devastante della Nato verso l’Europa Orientale. “Castro, Morales e Chavez sbagliano” e “difendono il dittatore”. Queste le conclusioni di chi, tra una canna e un inno alla Luxemburg, ha cominciato a improvvisarsi franco tiratorenell’oceano di letture distorte dall’ideologia e dall’alienazione più completa. Ora tutti questi movimenti fanno marcia indietro e parlano di “pace”, di “guevva” (perché la R moscia non può mancare, quasi quanto la sciarpina rossa anni 70), di “impevialismo” e di “petvolio”. E la mobilitazione riparte: stavolta in versione “mini”, perché in questi otto anni (dall’aggressione contro l’Iraq nel 2003) la sinistra radicale ha collezionato un flop dietro l’altro e si è nei fatti auto-eliminata, immolandosi sulle piazze degli “emarginati”, delle questioni “morali”, delle “lotte civili”, dei gay-pride, e, più in generale, in quel calderone di scemenze, che Ingrao e Berlinguer avevano già preparato oltre trent’anni fa. Le conclusioni appaiono sconclusionate e, ad eccezione di una piccola analisi di Diliberto e un ottimo intervento di Rizzo in televisione, anche la nube “rossastra” del ritrovato movimento di opposizione alla “guevva” riparte coi soliti slogan, e con le solite frasi fatte, prive di fondamento. L’importante è che si parta? No. Io dico di no. Perché fondamentale è OSSERVARE, ANALIZZARE e SINTETIZZARE, prima di partire. Se così non è, la folla, ormai ridotta a qualche migliaia di reduci degli anni passati, sarà riunita attorno ad un’ennesima piattaforma alienante e distorta, nella misura in cui già serpeggiano le prime ricostruzioni sfasate, secondo cui le rivolte sarebbero comunque spontanee ed innescate dall’immancabile “pppopolo” che si rivolta al “terribbbbile dittatore” di turno, ma sfruttate dagli “impevialisti pev pvendevsi il petvolio”. Non è ovviamente così, e lo sappiamo bene. Non fosse altro perché tanto in Tunisia, quanto in Egitto le rivolte hanno avuto origine quasi allo stesso modo, e i tentativi che stanno agitando tutto il mondo arabo hanno ben poco di spontaneo. Cosa unisce queste realtà così diverse tra loro? Perché improvvisamente, nel giro di poco tempo, tutti questi Paesi vengono destabilizzati uno dietro l’altro, quasi per un effetto domino? Avendo già analizzato la situazione in altra sede, concludo subito dicendo che la Cina, negli ultimi cinque anni, ha aumentato notevolmente la sua presenza all’interno dell’import di queste nazioni (e in alcuni casi anche nell’export) in relazione alle tecnologie e ai macchinari industriali, come, all’incirca, in tutto il resto del continente africano. È soltanto a partire da qui che è possibile individuare il motivo (o i motivi) di queste proteste, alle quali dobbiamo anche affiancare:
1) il referendum che nel gennaio scorso ha stabilito la prossima e vicina spaccatura del Sudan, che verrà separato dalla sua regione meridionale del Sud Sudan – laddove la Cina aveva ormai da tempo avviato trame cooperative con Karthoum per l’approvvigionamento petrolifero – spianando la strada all’analogo progetto di secessione in atto nel Darfour;
2) gli interessati investimenti cinesi per la costruzione del nascituro Porto di Gwadar, in Pakistan, direttamente affacciato sul Mare d’Arabia, uno snodo importantissimo situato proprio all’inizio della tratta oceanica più importante del mondo, la ROI (regione dell’Oceano Indiano), ad oggi quasi completamente egemonizzata dalla Cina e dall’India, grazie alle rispettive e sempre più crescenti cooperazioni tanto col mondo islamico (Medio Oriente, Pakistan e Indonesia) quanto con i Paesi dell’ASEAN e del Sud Est Asiatico in generale.
L’astensione comune dei Paesi del BRIC in sede Onu, non è certamente casuale, e lascia intendere, ancor di più, che stavolta Cina ed India (e dunque di riflesso, anche Russia e Pakistan) non andranno allo scontro frontale, come ai tempi della Guerra Fredda, rendendo impossibile per Washington qualunque ricorsivo scenario di inserimento e di conseguente triangolazione Cina-Usa-Pakistan o Usa-India-Russia. Falliti i tentativi di intrusione in Mongolia negli anni di Bush, falliti i progetti “colorati” pensati da anni per l’Asia Centrale, fallito il tentativo di destabilizzazione in Bielorussia nelle recenti elezioni, fallita la Af-Pak Strategydi Gates, fallita la visita recente di Obama in India, fallite le provocazioni contro la Corea del Nord, per gli Stati Uniti non c’è più nessun arco di crisi attraverso cui potersi inserire “pacificamente” nello scenario asiatico, e la bufala della cosiddetta “Chimerica” si rivela ogni giorno per quello che è: misero complottismo da decerebrati fan di Voyager e di Icke. I documenti strategici e militari del Dipartimento alla Difesa, da anni, indicano chiaramente nella Cina comunista il prossimo nemico da abbattere. Per gli Stati Uniti, la sola carta da giocare è dunque quella di spezzare questa crescente stabilità congiunturale nell’Oceano Indiano, partendo da lontano, cioè dal Nord Africa, e cercando, attraverso una rischiosissima (oltre che criminale) chain-reaction, di penetrare nel Golfo Perisco, aumentando la pressione su una “troppo autonoma” Turchia e sui tre Paesi internamente “meno stabili” del Caspian Five (Iran, Turkmenistan e Azerbaigian). Non è cambiato nulla in termini di intensitàdi “sfondamento”, rispetto ai tempi della Guerra Fredda, ma il predom
inio territoriale sul cosiddetto Rimlandeurasiatico si è oggi ridotto notevolmente, proprio a dimostrazione di una maggiore coscienza strategica da parte delle tre potenze orientali (Russia, Cina ed India) e della Turchia, rispetto al passato, che sta velocemente aprendo all’auspicata fase multipolare di cui molti oggi parlano. Ma, mentre Mosca può tutt’ora avvantaggiarsi del grande patrimonio scientifico-strategico dell’era sovietica ed Erdogan può raccogliere i frutti (moderni) della grande tradizione strategica di Bisanzio-Istanbul, sorprendono soprattutto la Cina e l’India, che stanno beneficiando delle rispettive e recenti modernizzazioni politiche ed economiche, al punto da acquisire una più diretta e concreta razionalità strategica – razionalità che invece manca quasi completamente all’Iran, capace, per mere questioni teologiche, di appoggiare le rivolte contro i governi dei Paesi laici o sunniti, per ricercare ottusamente uno “spazio vitale sciita” nelle ricomposizioni in atto nel mondo arabo. Chiunque pensi che la presunta debolezza interna degli Stati Uniti possa in qualche modo dimostrare la loro estraneità a questi stravolgimenti nell’area mediterranea e mediorientale – ipotizzando ricorsivi scenari alla Sykes-Picot, alla Suez, o neo-colonialismi di esclusiva marca franco-britannica – sottovaluta nettamente la potenza strategica di Washington, che, ad oggi, resta il paese militarmente più impegnato in Libia, e, qualora dovesse ridurre le sue attività militari contro Gheddafi (come sostenuto dallo stesso Robert Gates, che ha esplicitamente parlato di “ruolo di supporto”), lo farà per esclusive ragioni strategiche, al fine di concentrarsi su altri scenari, quali Siria, Arabia Saudita e, forse, Iran. La Primavera, insomma, come da tradizione atlantica, sarà molto calda. E, purtroppo, stavolta nessun Breznev potrà evitarla.