AUT-AUT
Non ancora sprofondato nei più bui meandri della follia, Friedrich Nietzsche profetizzò che "Se saremo tanto folli da non creare l'Europa attraverso il pacifico accordo di tutti, essa ci verrà imposta per la via imperiale di Napoleone, che per lo meno ha avuto il merito di concepire l'Europa come un insieme politico". A più di un secolo dalla morte del celebre filosofo tedesco, molta acqua è passata sotto i ponti, e le numerose vicende accadute da allora danno modo di tirare momentaneamente le somme. Di norma i paesi cardine del Vecchio Continente sono sempre stati Francia e Germania. La Francia sembrava aver tratto i debiti insegnamenti dalla lezione gollista, facendo leva sulle proprie non secondarie prerogative per porsi spesso in diametrale antagonismo rispetto alle unilaterali prese di posizioni statunitensi. Il generale De Gaulle riteneva che la statura di un uomo politico fosse direttamente proporzionale alla sua capacità di destreggiarsi nelle grandi "querelles" imposte dai tempi, e all'epoca non esisteva "querelle" più sensata e onorevole che opporsi ai disegni egemonici della superpotenza atlantica. Egli brandì, negli anni del suo mandato, la spada antibritannica quando si discuteva di un possibile ingresso di Londra all'interno della Comunità Europea e dei secessionisti del Quebec contro il governo centrale canadese. Uscì dalla NATO è formo la "force de frappe", convertì i dollari di riserva in oro e si oppose all'intervento americano in Vietnam, riconobbe legittimità alla Cina di Mao e mostrò sempre un elegante disprezzo nei confronti delle Nazioni Unite. Non si trattava di puro e semplice antiamericanismo, squallido e pregiudiziale concetto assai in voga in questi miseri tempi, quanto di affermare la piena sovranità francese e di lanciare un chiaro monito agli arroganti alleati d'oltreoceano. Nessuno in Francia (e in Europa) si mostrò sufficientemente degno per raccogliere la pesante eredità di De Gaulle, ma le sue battaglie tracciarono un solco troppo profondo in seno alla società francese, che nessun successore poté effettivamente ignorare. Lo stesso Chirac, uomo politico non certo eccelso, non esitò a far ricorso ai vantaggi garantiti dal seggio permanente in sede ONU per tener testa agli aneliti imperiali americani che si apprestavano a tradursi con l'aggressione all'Iraq, riscuotendo grande successo tra i propri connazionali e suscitando l'irritazione generale nei palazzi di Washington. La guerra all'Iraq si sarebbe verificata comunque, e questo Chirac lo sapeva, ma la Francia non vi avrebbe partecipato per nessuna ragiona. In quello specifico frangente, a Chirac fece ben presto eco il cancelliere uscente Gerard Schroeder, che emulò la posizione francese proclamando il completo dissenso tedesco in relazione ai fantasiosi e effettivi moventi (sia ufficiali che non) dell'aggressione illustrati dagli USA. Niente di nuovo, poiché le sconfitte sonanti rimediate nelle due guerre mondiali hanno portato il popolo tedesco a porsi in antitesi rispetto al proprio passato e ad abbracciare un pacifismo piuttosto radicale. Terminata la Guerra di Corea, la scelta del cancelliere della Germania Ovest Konrad Adenauer di cedere alle pressioni americane, iscrivendo il paese alla NATO e disponendo un poderoso programma di riarmo, provocarono una dura reazione dei socialdemocratici, che tappezzarono i muri di Berlino con un manifesto raffigurante il loro leader Kurt Schumacher pronunciare l'espressione "Ohne mich" (letteralmente, "senza di me"). La stoffa, la determinazione e il carisma di Adenauer riuscirono però ad aver ragione sulla forte titubanza popolare, in quanto la sua decisione di aderire alla NATO era finalizzata ad agganciare il paese a tutte le altre grandi democrazie europee, e rispondeva all'urgenza di tutelare il proprio territorio da un possibile "sconfinamento" dell'Unione Sovietica. Dopo la caduta del Muro, l'unificazione e il collasso dell'URSS, la Germania smise di fungere da trincea e tornò quella "Mitteleuropa" che era stata in precedenza, gelosa della propria autonomia ma consapevole dei propri limiti, di aver perduto i crismi legittimatori per dominate l'Europa con le pesantissime sconfitte rimediate nell'arco del Novecento. Un pacifismo per certi versi simile, ma molto più ipocrita, si riscontra anche in Italia, un paese che come la Germania è incorso in una rovinosa ma molto più umiliante sconfitta che ha portato la popolazione ad espungere la guerra dal novero delle soluzioni politiche. La patria dell'antifascismo in palese assenza di fascismo, dilaniato da una parodia della guerra civile – combattuta rigorosamente con le armi della dialettica (o meglio della retorica) – che oppone corporazioni apparentemente nemiche ma intimamente avvinghiate ai propri privilegi e gelose delle proprie prerogative. Una partitocrazia inefficiente e parassitaria cui la casta dei dei giudici ha tentato tenacemente di sostituirsi con una brutale manovra ad orologeria concepita oltreatlantico, meglio nota come "mani pulite", atta a "prepensionare" un'intera classe politica invecchiata all'ombra del Muro di Berlino e a favorire l'ascesa dei ben più affidabili "orfani" del comunismo. Irrilevante a livello internazionale, l'Italia si è sempre occupata di tutelare gli interessi di Santa Romana Chiesa e di non contrariare troppo gli Americani, in specie per quanto riguarda la risoluzione delle crisi internazionali. Così come il governo presieduto da Giulio Andreotti chinò il capo di fronte alle richieste di George Bush senior alla vigilia dell'imminente Guerra del Golfo, altrettanto fece quello guidato da Massimo D'Alema in riferimento alla crisi kosovara del 1999. E altrettanto ha fatto Silvio Berlusconi di fronte ai sacri ardori antiracheni di George Bush senior e compari in occasione della seconda Guerra del Golfo. Un atteggiamento che per l'Italia è motivabile con la pura e semplice pulsione servilista, ovvero la vocazione storica a conformarsi ai voleri dei più forti chiunque essi siano ("Francia o Spagna purché se magna"), per la Gran Bretagna risponde invece a un preciso disegno politico risalente a molti decenni fa. Da quando, mentre infuriava la Seconda Guerra Mondiale, il governo di Londra decise di accettare che il comando supremo di tutte le forze alleate venisse affidato al generale Dwight Eisenhower, dimostrò di riconoscere le numerose affinità elettive che legavano indissolubilmente la Gran Bretagna agli Stati Uniti. Gli USA erano considerati da Londra come i naturali prosecutori dell'impero britannico, che peraltro contribuirono non poco a mandare in frantumi in occasione della Crisi di Suez del 1956. Con quell'umiliazione Eisenhower riportò la Gran Bretagna alla realtà, e rese il resto del mondo edotto del fatto che il trono anglosassone si era spostato da Londra a Washington. In cambio, gli USA si sarebbero impegnati a mantenere un rapporto privilegiato con i britannici, dovuto anche alle scarse garanzie e credenziali offerte da francesi, tedeschi e italiani. Gli Stati Uniti avrebbero insomma indossato la corona e brandito lo scettro, mentre la Gran Bretagna avrebbe indossato le vesti del principe consigliere. E' questo particolare rapporto che ha consentito a Margaret Thatcher di esibire le fotografie satellitari americane per inchiodare agli occhi del mondo i generali e ammiragli argentini alle loro responsabilità durante la Guerra delle Falkland. Ma un rapporto preferenziale ha pur sempre i suoi costi e, n
el caso specifico, richiede la più totale acquiescenza britannica di fronte a qualsiasi presa di posizione statunitense. Così, la stessa "Iron Lady" fervente nazionalista e regolatrice dei deliri di onnipotenza di Videla e compagnia, chinò senza fiatare il capo nel 1983, quando il primo ministro statunitense Ronald Reagan ordinò l'invasione dell'isola di Grenada, membra del Commonwealth, onde evitare che questa diventasse una testa di ponte del comunismo nei Caraibi. Motivazioni a dir poco ridicole ma indiscutibili. Per mantenere i privilegi legati a questa particolare posizione, la Gran Bretagna è finita per assumere il ruolo di mera ambasciatrice degli USA in Europa. Di qui la ferma e saggia opposizione del lungimirante generale De Gaulle alla sua entrata nella Comunità Europea. Vi sono numerosi altri paesi sparsi per l'Europa, ognuno contraddistinto da specifiche peculiarità e retto da particolari nomenklature più o meno corrotte. Ognuno dei paesi del Vecchio Continente è però impegnato a concorrere con il proprio vicino di pari livello per non perdere le proprie posizioni acquisite. E' in atto una vera e propria lotta tra poveri che privilegia i meschini egoismi particolari a discapito di una pur necessaria e irrinunciabile integrazione continentale. In queste condizioni anche i più riottosi gollisti si ritroverebbero e dover prima o poi mettere da parte i propri principi per riallinearsi giocoforza al volere degli USA. Perché la divisione porta acqua al mulino dell'impero, e le cose non cambieranno finché non esisterà una forza politica unitaria in grado di metterne in scacco il predominio incontrastato. Con paesi di ben altro spessore come Cina o Russia gli Stati Uniti si sono infatti dovuti adeguare. Quando le attenzioni dei biechi e aggressivi neoconservatori stavano focalizzandosi nei dintorni di Pyongyang, le grandi potenze regionali (Cina, Russia, Giappone) hanno messo da parte i propri dissidi per serrare i ranghi e costringere gli USA ad adottare una posizione ben più moderata rispetto all'oltranzismo mostrato nei confronti dell'Iraq. Incapaci di liberarsi dal giogo statunitense, i paesi europei non hanno fatto altro, in tutti questi anni, che appoggiarne i disegni imperiali. Per ripulirsi la coscienza, i governanti sono soliti puntualizzare che i loro servigi sono a disposizione del più democratico degli imperatori che la Storia abbia mai conosciuto e che l'Europa ha un debito inestinguibile nei confronti dell'America, riconoscendo così legittimità morale alle condizioni che compromettono l'autonomia del Vecchio Continente. L'Unione Europea rappresenta effettivamente la materializzazione di tutti i vizi, delle meschinità e delle divisioni che lacerano l'Europa. Un'organizzazione meramente economica nata in assenza di una qualsiasi volontà continentale di affermazione indipendente e del tutto priva di una coscienza generale di fondo. Cantare le lodi dell'unità dell'Europa in queste condizioni significa consacrarne la divisione, minarne l'autonomia e legittimare il predominio statunitense. E plaudere all'avvenuto rovesciamento escatologico del vaticinio concepito a suo tempo da Nietzsche: l'unificazione del Vecchio Continente per via imperiale, ma da oggetti e non da soggetti. Gli Stati Uniti d'Europa sono finiti per essere, in altre parole, L'Europa degli Stati Uniti, uno spazio sterminato in cui scorrazzano impunemente miriadi di lobbies dei cui interessi si prendono cura interi manipoli di burocrati sfuggenti ad ogni tipo di controllo. Il recente successo elettorale dei partiti nazionalisti come quello di Marine Le Pen è fiorito proprio sugli enormi limiti mostrati dall'Unione Europea. La Francia di Sarkozy va in guerra in Libia (e contro l'Italia) e non vuol sentir parlare dei tanti immigrati in fuga dai bombardamenti, Berlusconi dà ragione a qualsiasi interlocutore si ritrovi di fronte, la Gran Bretagna sta al guado, la Finlandia non accetta di accollarsi parte delle spese destinate ad evitare i collassi economici di Grecia e Portogallo, l'Ungheria riscopre Giuseppe Mazzini e riscrive la costituzione. Il razzismo sta riprendendo vigore e in tutti i paesi pare ascesa la tendenza a "fare da sé". E' sintomatica la franca dichiarazione rilasciata da Maroni tempo fa, in cui si esprimeva il dubbio "Se davvero abbia un senso continuare a far parte dell’Ue". Di questa Unione Europea non ha effettivamente alcun senso far parte, e molti in giro per l'Europa stanno iniziando a lanciar segnali di forte insofferenza al riguardo. L'unificazione europea è necessaria, a patto che unità significhi visione comune degli obiettivi da raggiungere e impegno di tutte le parti in causa nel loro perseguimento. Si cacci l'attuale casta di burocrati e affaristi. La si finisca una volta per tutte con la "riconoscenza" per gli Stati Uniti e si vinca la soggezione nei loro confronti, si nomini un ministro degli Esteri capace di far sentire la propria voce. Si riesamini la grande stagione gollista e se ne traggano i debiti insegnamenti, come quello di negare ogni base militare al sedicente "alleato". Si riappropri del controllo del Mediterraneo come "mare nostrum" e si guardi con maggiore attenzione verso est. Si intensifichino i rapporti con paesi come Russia, Cina ed Iran. Ci si doti di un arsenale credibile, di una "force de frappe" funzionale poiché la diplomazia non è credibile se non si hanno le spalle coperte. “L’Unione – scrive Sergio Romano – dovrà chiedersi che cosa vuole fare da grande. Vuole essere una grossa Svizzera, costituita da una trentina di prosperi cantoni, gelosi della propria autonomia, ma incapaci di deviare l’America dalla sua ambiziosa strategia globale? O vuole essere una potenza mondiale?”.