RITORNO ALLA GUERRA
Le elezioni americane vengono regolarmente seguite con grande attenzione dall'opinione pubblica europea, persuasa del fatto che la vittoria di un candidato a discapito dell'altro determini o sventi chissà quali stravolgimenti globali. Si tratta di una convinzione semplicistica e superficiale, che testimonia il successo della capillare e ridondante retorica democratica incardinata sui dogmi escogitati dai facinorosi stregoni dell'informazione, che dimostrano ogni giorno di più di aver tratto i debiti insegnamenti dalla lezione di Joseph Goebbels. Un'osservazione critica e disincantata sull'attuale stato delle cose dimostra infatti che la realtà sotto gli occhi di tutti non corrisponde affatto alle distorte e unilaterali narrazioni che vanno per la maggiore. Con il collasso dell'Unione Sovietica e del venir meno del Patto di Varsavia cadevano infatti le motivazioni attorno cui era imperniata l'Alleanza Atlantica, cui era delegato il compito di difendere l'Europa da possibili sconfinamenti sovietici. Nasceva così il pericolo che l'Europa prendesse atto dell'inaudito mutamento geopolitico appena avvenuto e che si svincolasse dall'abbraccio della NATO, ripudiando così la leadership statunitense. Il 7 novembre 1991, i rappresentanti dei sedici paesi aderenti alla NATO si riunirono a Roma per ridiscutere radicalmente i termini dell'alleanza che vennero resi espliciti in un documento recante le seguenti testuali parole: "Contrariamente alla predominante minaccia del passato, i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare (…). Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero a loro volta coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della NATO". E' in quella sede che si gettarono le basi per una NATO slegata da vincoli territoriali, pronta ad intervenire ovunque nel mondo vengano messi in pericolo gli interessi occidentali. I paesi europei diedero il placet a questo progetto, a patto che l'Europa assumesse un peso maggiore all'interno dell'alleanza. Gli Stati Uniti non nascosero la propria contrarietà, ma giunsero in breve alla conclusione che le spinte di Francia e Germania alla formazione di un esercito europeo non avrebbero in nessun modo potuto intaccare il loro predominio assoluto nell'ambito della NATO. Significative, in tal senso, sono mosse di estrema audacia come il progressivo allargamento verso est dell’Alleanza e l’aggressione alla Jugoslavia del 1999. L’estensione della NATO verso est colse di sorpresa l’ingenuo e sopravvalutato Mikhail Gorbaciov, il quale era persuaso che il suo interlocutore Ronald Reagan tenesse fede alla promessa secondo la quale gli USA avrebbero evitato di invadere politicamente l’area di influenza sovietica in cambio delle numerose concessioni ottenute preliminarmente. Tale mossa era indubbiamente finalizzata a sottrarre progressivamente l’intera Europa dall’influenza di Mosca, in vista di un possibile logoramento dell’intesa con gli Stati Uniti dovuto principalmente alla divergenza di interessi che stava iniziando a delinearsi. Con l’aggressione alla Jugoslavia gli USA riaffermarono con maggior chiarezza i rapporti di forza e inchiodarono i paesi del Vecchio alle proprie debolezze endemiche. Questi interventi sono stati chiaramente dettati da logiche in tutto e per tutto funzionali al mantenimento o all'estensione dell'egemonia americana nel mondo e a evitare che l'Europa si affrancasse dal suo ruolo subalterno assurgendo a potenza concorrenziale. Ma se l’Europa rimane tutto sommato una docile preda, le cui capacità di reazione si riducono all’emissione di regolari e flebili pigolii di protesta di fronte alle più sfacciate dimostrazioni di forza degli USA, esistono pericoli di ben altra portata da affrontare per i facinorosi strateghi di Washington. I misteri legati all'11 settembre 2001 rimangono infatti ancora tali, ma l'evento in sé è stato il vero e proprio detonatore della sedicente "guerra al terrorismo", eufemismo edulcorante dietro il quale si cela una vera e propria "guerra infinita" che gli Stati Uniti hanno dichiarato in sordina al resto del mondo. Quando Bush tuonò: "Difenderò il nostro tenore di vista ad ogni costo", si reagì con generale freddezza. Ma quella dichiarazione si colora di una luce sinistra alla luce dei processi innescatisi negli anni del suo mandato e che stanno proseguendo senza intoppi sotto la presidenza Obama. Se Cina e Russia crescono e stringono accordi (Organizzazione per la Cooperazione di Shangai) nei quali coinvolgono importanti paesi produttori di idrocarburi, l’India prosegue nella sua inarrestabile ascesa e l'America Latina rinasce attorno all'asse Brasile – Argentina, cresce parallelamente anche la domanda di energia e sorgono numerose minacce al predominio incontrastato statunitense. Una di queste è la formazione di un fondo monetario asiatico che metta in scacco il predominio incontrastato del Fondo Monetario Internazionale, vero e proprio strumento di dominio economico degli Stati Uniti sul resto del mondo. Se lo standard di vita degli americani non è in discussione, l'ascesa di tutti i paesi in questione diventa inaccettabile. Ciò valeva per Bush, vale per Obama e continuerà a valere per qualsiasi loro successore. Non esistono vie impossibili da percorrere per evitare la concretizzazione di uno scenario simile. Le esternazioni di Kristol e Kaplan al riguardo non lasciano adito a dubbi: "La missione comincia a Bagdad ma non finisce qui (…), tutto ciò riguarda molto più che l'Iraq. Riguarda addirittura più del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrorismo. Riguarda quale ruolo gli Stati Uniti intendono svolgere nel Ventunesimo Secolo". Il che significa che al modo “tradizionale” di condurre la guerra, che tendeva a risolvere conflitti di ampia portata nel minor tempo possibile, se ne è sostituito uno del tutto nuovo, che mira ad individuare, una dopo l’altra, specifiche e limitate aree su cui riversare interi arsenali. Prima una, poi un’altra e così via, estendendo a dismisura l’arco temporale del conflitto. Se il turno di Afghanistan ed Iraq è venuto e quello relativo ai paesi nordafricani è in atto, è presumibile che quelli di Siria, Iran e così via siano prossimi a venire. La guerra prolungata esercita da sempre grossi stravolgimenti nei sistemi economici di tutti i paesi che vi sono coinvolti. Il keynesismo di Rooselvelt ne è un esempio eclatante. Parafrasando Von Clausewitz, la guerra diventa la continuazione non solo della politica, ma anche dell'economia con altri mezzi. Essa rilancia la produttività, spalanca giocoforza mercati prima preclusi, garantisce l'accesso diretto alle materie prime, ridisegna i rapporti valutari e riconfigura i rapporti di forza mondiali. Il massiccio ricorso alla guerra cui gli USA hanno fatto e stanno continuando a fare rispecchia la loro declinante capacità dissuasoria con tutti gli altri mezzi. Così come accadde all'impero britannico, allo stesso modo gli USA stanno trasferendo il "peso" del loro dominio dall'economia alle forze armate. Le disastrate condizioni economiche statunitensi hanno minato la loro credibilità internazionale e hanno spinto Washington ad abusare del potere coercitivo delle armi per garantirsi la possibilità di non saldare i debiti.
Si tratta però di un circolo vizioso, poiché tanto più si fa leva sul potere bellico quanto più crescono le spese militari, con le parallele ripercussioni sul debito. Cosa che fa precipitare la loro credibilità internazionale ancora più in basso e li spinge a un autoritarismo ancor più marcato. In tutto ciò, il fatto che ancora oggi si creda che Barack Obama rappresenti un cambiamento effettivo rispetto a George Bush e non invece un arretramento tattico pienamente iscrivibile nella strategia generale di dominio statunitense è assai eloquente sullo spirito del tempo.