L’ANTIMPERIALISMO DALL’UTOPIA (PACIFISTA) ALLA SCIENZA (GEOPOLITICA)


di Andrea Fais

 

Quando in Occidente si inquadra la politica internazionale da un punto di vista anti-imperialista, o in ogni caso non-imperialista, si rischia spesso di perdersi all’interno dei meandri dell’idealismo. Forse complice la comune appartenenza culturale di tipo “occidentale”, per le forze della cosiddetta sinistra antagonista di casa nostra, attingere da Wilson (o da Bob Marley) sembra essere piùfacile che attingere da Lenin, il quale in Il Socialismo e la Guerra (1915), ricordava come “dai pacifisti e dagli anarchici noi marxisti ci distinguiamo in quanto riconosciamo la necessità dell'esame storico (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra”, introducendo la categoria di “guerra giusta” nel caso in cui una classe oppressa o una nazione oppressa si trovassero a scontrarsi con il diretto oppressore, fosse esso una classe sociale o un governo coloniale. Tale riflessione prende evidentemente corpo dalle attente letture che il rivoluzionario bolscevico fece di Von Clausewitz, lodato apertamente come “uno dei più grandi scrittori di storia militare” (Il fallimento della Seconda Internazionale, 1915), “uno dei grandi scrittori di storia militare”, anzitutto in relazione a quei “rapporti di forza” alla comprensione dei quali “nei ‘comunisti di sinistra’ non vi è il minimo accenno” (Sull’infantilismo “di sinistra” e sullo spirito piccolo-borghese, 1918), e come un autore che “i militanti del partito non studieranno infruttuosamente” dacché “la tattica politica e la tattica militare sono due domini confinanti” (Il discorso sulla guerra, 1923).

Chiaramente con Lenin, ci troviamo ancora ad uno stadio teorico iniziale, dove evidentemente, malgrado il fortissimo realismo politico che permea tutta la strategia rivoluzionaria bolscevica, il richiamo ai cosiddetti “compiti ideologici” e al marxismo propriamente detto, si fa più forte e, al momento, meno mediato dalle necessità logistiche e organizzative dello Stato Sovietico. Di tutt’altro registro risulteranno infatti le riflessioni strategiche di Stalin, soprattutto negli anni della Grande Guerra Patriottica e, ancor più, del Maresciallo Vasilij D. Sokolovskij (Strategia Militare, 1962), di Leonid I. Breznev (Dottrina Breznev, 1968) o dello stesso Generale Mahmut A. Gare’ev (M.V. Frunze, Teorico Militare, 1985). È indubbio che le mutevoli condizioni storiche, i contesti internazionali e le congiunture geopolitiche e geostrategiche determinano necessari riposizionamenti teorici, correzioni e accorgimenti, tanto più se questi coincidono con momenti cruciali della storia di uno Stato: è così che l’invasione hitleriana (1941), l’avvio del confronto nucleare tra i due blocchi (1953), il tentato golpe della cosiddetta “primavera” di Praga (1968) e l’intervento militare in sostegno del governo afghano (1979), costituiscono alcune tra le più salienti e rilevanti tappe nella storia dell’Urss, una vicenda che, nel suo complesso, resta un esempio evidente della forza di una tendenza storica tanto “offuscata” quanto al contrario dominante ed onnipresente nel corso dei millenni, prevalente persino nei confronti di un’ideologia così “epocale” e a vocazione “universale” come il comunismo. Non esistono ideologie determinanti ma, come ricordava già Friedrich Ratzel sul finire del XIX secolo, esistono soltanto organizzazioni sociali ed entità territoriali politiche, comunemente detti Stati, che si comportano come organismi viventi, che nascono, crescono, si sviluppano in base a necessità ed esigenze sociali e “spaziali” e si estinguono in virtù di fattori altrettanto politici e “ambientali”.

All’interno di un simile approccio epistemologico, la questione dell’imperialismo si pone certo in modo parzialmente differente dall’impostazione leninista (meritoriamente realista ma ancora imperniata sull’utopia della rivoluzione mondiale e su una limitante lettura della storia come esclusiva storia di “lotta di classe”), ma soprattutto si delinea in modo enormemente diverso rispetto alla classica interpretazione di “estrema sinistra” (visione che, per certi versi, discende dall’asfittica e ottusa applicazione dello schema della lotta di classe allo scenario internazionale, propria di Lin Biao e della rivoluzione culturale cinese): sul piano del realismo geopolitico l’imperialismo può essere perciò inquadrato non più dal punto di vista “morale” e “retoricheggiante”, ossia come una generica “oppressione” o “sopraffazione” del presunto “forte” contro il presunto “debole”, ma come un atto unilaterale di aggressione pianificata su vari ed eventuali livelli (militare, economico o politico, da cui deriva la suddivisione, non sempre facilmente definibile, tra l’hard power e il soft power) stabilito da una nazione o da una coalizione di nazioni rispetto ad un’altra nazione, per conseguire un vantaggio unilaterale in termini economici e strategici, quantificabile in relazione alla contingenza e alle rispettive congiunture storiche. Cambiano soltanto i termini della definizione ma la sostanza resta invariata? No, ovviamente. Anzitutto perché il linguaggio non è mero “segno in funzione di”, come vorrebbe certo neo-positivismo logico, ma è l’es-pressione, cioè l’essenza stessa del significato e delle categorie concettuali che si intende introdurre nel dibattito, e dunque, diverse parole rimandano necessariamente ad una diversa concezione della problematica; in secondo luogo, inquadrando la categoria di “imperialismo” in tale accezione, è possibile comprenderne le variabili politiche più incisive e determinanti, contestualizzando ogni situazione secondo un fondamentale parametro di relatività dei conflitti e passando dunque dal piano strettamente “morale” degli approcci ideologici in seno al diritto internazionale al piano propriamente scientifico della geopolitica.

Sia esso cosmopolita, pacifista, universalista, giusnaturalista ecc…, l’idealismo in politica internazionale non ha mai una lunga durata, se non puramente teorica, e finisce quasi sempre con l’incocciare in un muro di idiozia e cecità dialettica, perdendosi nella presunzione che la teoria possa nascere astrattamente, cioè isolata dalla realtà, per poi adagiarsi su questa, modellandone gli aspetti e smussandone gli eventuali aspetti spigolosi. Ovviamente, non è così. E lo scarto esistente nel computo generale dei rapporti di forza internazionali presenti nel mondo deriva anzitutto da questo colpevole eccesso di “ingenuità”, dall’illusione che la storia possa muoversi in direzioni completamente nuove e che l’uomo diventi ciò che non è: l’Europa, sconfitta e ormai persa tra i mille inutili e sterili dibattiti ideologici e culturali in merito alla validità dei modelli politico-economici da seguire (social-democratici o liberali, keynesiani o friedmaniani, progressisti o reazionari ecc. …) è destinata al silenzio e alla dipendenza; la Russia, senza le espansioni imperiali verso il Mar Baltico, il Mar Nero, il Mar Caspio e il Mar Bianco, e soprattutto senza Stalin, Breznev e i grandi strateghi sovietici, oggi sarebbe già stata sventrata e frammentata in quattro o cinque parti sottoposte al dominio di qualche potenza straniera; la Cina, senza l’intuizione e la grande lungimiranza di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping sarebbe ripiombata ben presto in un nuovo scenario analogo a quello delle guerre dell’oppio; l’India è ancora oggi destinata ad essere un Impero del nulla, tanto esteso quanto sostanzialmente ancora troppo frammentato e dipendente dalle strutture e dalle categorie formative e politiche anglosassoni; il Brasile e il Sud Africa sono due tigri di carta che, di questo ritmo, nel medio termine potrebbero cedere il passo e crollare sotto le già pericolanti fondamenta di situazioni sociali interne scandalose, condizioni generali che l’afflusso di massicci capitali internazionali non potrà mai nascondere. Gli Stati Uniti invece hanno ben compreso tutto ciò: il sistema americano si fonda sulla ricerca e sullo sviluppo, sull’innovazione a ritmo serrato e sulla competizione che, pur folle e portata a livelli eccessivi in campo economico (tanto da costruirsi persino le stesse “armi finanziare” con cui auto-distruggersi attraverso le ricorrenti crisi), sul piano scientifico e tecnologico, e dunque militar-industriale, può invece consentire un primato qualitativo tutt’oggi ineguagliabile, un livello di maturazione strategica di primo piano ed una continua capacità di attrazione globale, evidente dall’altissimo numero di brevetti nazionali depositati.

Anche la politica estera degli Stati Uniti perciò deve essere studiata con cura, seguendo i criteri della geopolitica e, dunque, non fermandosi al mero dato informativo e cronachistico degli “eventi di politica estera”, bollato col solito sfogo rabbioso, becero e qualunquista, ma considerando tali eventi come l’effetto più emergente e più recente di pianificazioni e strategie ben precise, avviate in precedenza e proseguite nel passato recente, sino ad insinuarsi nel presente e a tentare di condizionare il futuro. Uno dei nodi recentemente messi in luce da Gianfranco La Grassa, e ribadito da ultimo nel suo “Declino con incognite” del 18 maggio scorso, è la schermatura politica evidenziatasi durante l’avvicendamento di Robert Gates, tutt’ora in carica, al posto di Donald Rumsfeld presso il Dipartimento alla Difesa degli Stati Uniti, avvenuto nel novembre del 2006, cioè intorno alla metà del secondo mandato di George W. Bush. Questo passaggio è tutt’oggi emblematico ai fini di una più ampia comprensione della politica americana, per due ragioni fondamentali,


  • La conferma di Gates da parte di Obama conferma la separazione (relativa ma comunque presente) tra apparato politico e apparato militare-strategico, come tra l’altro dimostra l’intera storia politica degli Usa, al punto che diverse presidenze, persino di diverso orientamento politico, si sono più volte avvantaggiate dei servigi di stessi consiglieri, segretari di dipartimento o funzionari che ne hanno determinato l’indirizzo internazionale nello stesso modo, seguendo lo stesso atteggiamento di sempre

  • Questa alternanza (unita alla presenza di una realista, Condoleezza Rice, al Dipartimento di Stato nel periodo 2005-2009) ha ridimensionato molte delle critiche estremiste anti-Bush, che identificarono in modo eccessivamente esasperato quella presidenza con il pensiero neo-conservatore americano emerso in seno al Project For a New American Century, distorcendo la realtà e favorendo la diffusione, specie a sinistra, della falsa idea che, per inverso, le presidenze democratiche di Bill Clinton e di Barack Obama potessero costituire esempi eticamente più “giusti”.


Indubbiamente, la transizione al Dipartimento per la Difesa costituisce, nella circostanza specifica, un nodo cruciale perché effettivamente Donald Rumsfeld fu uno dei co-fondatori del PNAC di cui sopra, ed è ancora oggi considerato come il principale responsabile del fallimento nella guerra in Iraq e nella lotta al terrorismo internazionale. Tuttavia nell’ottica degli Stati Uniti, il vero peccato originale dell’ex segretario alla Difesa, non è certo quello di aver “fatto la guerra” e di aver eliminato Saddam Hussein (considerato unanimemente un leader in ogni caso ostile e inviso), ma – come ricorda Carlo Jean – è quello di aver accolto con eccessivo favore le tesi dei “fanatici” della Revolution in Military Affairs, ossia tutti quei teorici e strateghi saliti alla ribalti sin dagli anni Ottanta per la loro reiterata fiducia nelle nuovissime tecnologie di simulazione, nell’information dominance e nel network-centric warfare (“La guerra virtuale” da Militaria, tecnologie e strategie). Malgrado l’importanza e l’utilità dei più moderni meccanismi di simulazione militare e di programmazione tattica, e il carattere effettivamente innovativo e rivoluzionario delle ICT (Information and Communication Technologies), infatti, il contatto con la realtà del teatro di conflitto, produce sempre una differenza, uno scarto rispetto a quanto programmato e progettato, lasciando ben presenti – tanto più nell’ambito di un confronto a-simmetrico – quei “fattori immateriali della potenza militare” sottolineati da Edward Luttwak, riproponendo in chiave contemporanea il concetto clausewitziano – sempre attuale – di “nebbia della guerra”.

Robert Gates, confermato da Barack Obama, non ha avviato il ritiro delle truppe dall’Iraq, che ancora sono ben presenti in quello scenario e che sono per lo più state riconvertite in forze di sicurezza, ma ha semplicemente stabilito dei più logici criteri di “basso profilo”, misurando le possibilità e le disponibilità economiche degli Stati Uniti dopo la pesante crisi finanziaria del 2008, e sviluppando una dottrina strategica compatibile con la contingenza storica. Nell’ultimo rapporto del classico Quadrennial Defense Review, pubblicato nel febbario 2010, il Dipartimento alla Difesa americano ha chiaramente stabilito quali sono i compiti principali: proseguire gli impegni militari in Afghanistan e in Iraq, continuare la lotta al terrorismo internazionale di Al Qaeda, mantenere gli impegni internazionali ripensando le tattiche d’impiego degli armamenti e la redistribuzione delle forze militari in relazione a due fattori principali:


  • Le condizioni economiche interne degli Stati Uniti e le loro possibilità di bilancio per quanto riguarda la spesa militare

  • La ridislocazione della forza economica e strategica nel mondo, evidente nella recente emersione sullo scenario internazionale di Cina e India


A questo va aggiunto il parallelo rapporto Ballistic Missile Defense Review 2010, che introduce i supposti pericoli per la difesa nazionale ancora una volta individuati nei recenti sviluppi dei sistemi MRBM dell’Iran e del sistema ICBM Taepo-Dong 2 da parte della Corea del Nord, che, malgrado i fallimentari test del 2006 e del 2009, si stima possa raggiungere entro breve il pieno funzionamento. La proposta e l’auspicio di un “cordiale” dialogo di cooperazione con Russia e Cina in merito ai missili balistici, lascia in realtà poco spazio alla cortesia e molto margine al braccio di ferro, specialmente considerando le strategie di (pesantissimo) contenimento già evidenziate da Zbigniew Brzezinski – tornato appena due anni fa nel backstage del Consiglio per la sicurezza nazionale – che sembrano proseguire sulla scia del co-engagement già pensato dall’ex Segretario di Stato Condoleezza Rice (emblematici i tentativi di cooperazione con la Mongolia tra il 2005 e il 2006) per contenere e limitare pesantemente le sfere d’influenza di Russia e Cina.

Ma in generale, è proprio l’idea che qualsiasi tipo di potenziamento strategico di un qualunque altro Stato nello scacchiere globale rappresenti un potenziale pericolo per la sicurezza nazionale, ad attanagliare la politica estera americana, forte di una concezione internazionale già a vocazione unipolare sin dalla sua primissima proiezione strategica in occasione della Prima Guerra Mondiale. Del resto, persino la stessa Dottrina Wilson, indicata come una via verso la “pace perpetua” di kantiana memoria, nasceva proprio dalla stessa presunzione degli Usa di poter realizzare quell’ordine internazionale fondato sulla democrazia e sulla libertà che l’Europa aveva ormai irrimediabilmente compromesso attraverso le guerre interne e l’espansione coloniale in Africa, in Asia e in Oceania,