L’Italia verso la crisi strutturale
La creazione, la gestione e la distribuzione del pluslavoro è una questione centrale per ogni società. Se la totalità degli esseri umani fosse stata costretta a trascorrere le intere giornate a rincorrere le prede per i boschi, oppure curva nei campi non vi sarebbe stato spazio per la scienza, la tecnica, l’arte e la politica e tutte le attività necessarie per la riproduzione di società più complesse rispetto a quelle dei primi gruppi di cacciatori-raccoglitori. Secondo l'ABC della teoria marxiana le classi sociali cominciarono a formarsi quando il lavoro agricolo, grazie all'impiego degli schiavi nella piccola proprietà, cominciò a fornire un’eccedenza, lasciamo in merito la parola a Friedrich Engels:
È chiaro: sino a quando il lavoro umano era ancora così poco produttivo da non fornire che una piccola eccedenza oltre ai mezzi necessari all'esistenza, l'incremento delle forze produttive, l'estensione del traffico, lo sviluppo di Stato e diritto, la creazione dell'arte e delle scienze erano possibili solo per mezzo di un'accresciuta divisione del lavoro che doveva avere, come sua base, la grande divisione del lavoro tra le masse occupate nel semplice lavoro manuale e quei pochi privilegiati che esercitavano la direzione del lavoro, il commercio, gli affari di Stato e più tardi la professione dell'arte e della scienza. La forma più semplice, più naturale di questa divisione del lavoro fu precisamente la schiavitù. Dati i presupposti storici del mondo antico, e specialmente del mondo ellenico, il progresso verso una società fondata sugli antagonismi delle classi si poté compiere solo nella forma della schiavitù. E questo fu un progresso anche per gli schiavi: ora i prigionieri di guerra, dai quali si reclutava la massa degli schiavi, conservarono almeno salva la vita, mentre precedentemente venivano uccisi e, ancor prima, addirittura arrostiti. (Anti-Dühring)
La divisione in classi della società antica, dovuta al pluslavoro, fu positiva e necessaria per lo sviluppo e l’articolazione dell’organizzazione sociale, non solo per lo sviluppo dell’arte e della scienza di cui ognuno riconoscerebbe il valore sociale, ma per lo sviluppo dello stato e del diritto, necessari per la regolazione di rapporti sociali complessi.
Il rapporto capitalistico secondo Marx era una particolare forma di “estrazione del pluslavoro”. Mentre per le società precedenti l’“estrazione del pluslavoro” era evidente nella forma della schiavitù o del lavoro servile, nella società borghese, con la fine della dipendenza personale, questa si celava nell’eguaglianza formale del “datore di lavoro” che è propriamente il lavoratore, e il “prenditore di lavoro”, propriamente il capitalista, colui che acquista il lavoro, entrambi liberi di concludere oppure no il reciproco “contratto”, e in particolare il lavoratore, formalmente liberissimo di non lavorare, e, non avendo altri mezzi di sussistenza, di morire di fame. La fine dei rapporti di dipendenza personale, e relativa chiusura degli individui nelle classi di appartenenza, com’era norma nella società antica e nella società feudale, destino dell’individuo, fissato dalla nascita, e l’apertura di uno spazio effettivo per la libertà individuale di perseguire il miglioramento delle proprie condizioni individuali, pur comunque con ostacoli materiali spesso insormontabili, ma non stabiliti come norma sociale così come per la società schiavistica o feudale, dove chi nasceva in una determinata classe non poteva passare nelle classi superiori, fu una delle principali cause del grandioso dinamismo della società borghese, lodato da Marx e Engels nel loro famoso pamphlet Il manifesto.
Marx svelò come, nascosta dall’uguaglianza formale, l’“estrazione del pluslavoro” continuava nella società borghese, poiché l’operaio veniva pagato per una certa cifra, solitamente necessaria alla sua riproduzione (nel senso ampio del termine, compresa la prole), secondo le condizioni socialmente prevalenti, ma il lavoro da lui svolto restituiva un “valore” nettamente superiore al valore del salario ricevuto (plusvalore).
La società borghese come le società precedenti si basava sullo “sfruttamento” di una classe sull’altra o detto in termini più “scientifici” sull’estrazione di pluslavoro che doveva servire per il sostentamento materiale della classe dominante. L’unica differenza della società borghese con le società precedenti consisteva nel maggiore spazio dato all’iniziativa individuale ai fini dell'arricchimento, da cui ne derivava una concorrenza che fu principale causa di un enorme incremento della produttività del lavoro e quindi della ricchezza sociale. Evento ritenuto assolutamente positivo, senza il quale sarebbe ritornata la scarsità e di necessità tutta la “vecchia merda” (Marx)
L'aspetto maggiormente apprezzabile della società borghese era questa capacità di accrescere la ricchezza complessiva della società, pur attraverso l'astuzia (della ragione) di dare libero corso alla ricerca dell'arricchimento individuale. Ma cosa è avvenuto con l'enorme incremento della produttività del lavoro provocato dalle diverse ondate di innovazione tecnologica che si sono succedute dall'ottocento ad oggi? Una parte della ricchezza prodotta ha sicuramente migliorato le condizioni di vita della classe lavoratrice, ma una parte più consistente ha accresciuto la quota di popolazione non impegnata nella creazione di plusvalore, impegnata invece nel “lavoro improduttivo” (di plusvalore), secondo la terminologia marxiana, ma necessario alla riproduzione di società complesse: istruzione, sanità, amministrazione, ecc..
Praticamente questo sviluppo, insieme al passaggio dall’egemonia inglese a quella statunitense della produttività ha posto fine alla società “borghese”, studiata da Marx, e alla nascita del “capitalismo manageriale” a guida statunitense, passaggio non sufficientemente compreso, studiato e descritto da coloro che affermano di ispirarsi a Marx.
La borghesia è divenuta una classe sempre più debosciata, messa in disparte da strati di rampante, apparente, “ceto medio”, cresciuto di livello e impadronitosi della direzione della produzione; a volte mantenendo la proprietà, altre volte in assenza di questa. Tale ceto ha preso il potere, il predominio sociale, fondendosi molto più strettamente con quelli che il marxismo considerava solo i rappresentanti, quasi i valletti, della borghesia: i dirigenti degli apparati statali, dei partiti, del controllo culturale e ideologico. E sopra tutti si sono situati quelli che approntano le strategie del conflitto e sono perciò complessivamente in grado di utilizzare gli apparati della forza (in genere quelli ancora specificamente militari, ma coadiuvati da altri) nella propria formazione sociale (particolare, in definitiva ancora il paese, la nazione) e, spesso, in quelle altrui. Si pensi alla Nato, ma solo come esempio.
Questo interessantissimo passaggio contenuto in un recente articolo di La Grassa contiene un sacco di spunti da sviluppare. Quindi il capitalismo manageriale sarebbe una società con un diverso ruolo dei ceti medi, ma ciò è stato possibile soltanto grazie all'aumento della produttività del lavoro e conseguente crescita della produzione di plusvalore dei settori impegnati nelle attività produttive.
Per analizzare la società italiana è utile avere come modello di riferimento la società manageriale statunitense, come società verso cui tende lo sviluppo delle altre società capitalistiche occidentali, ma è pero prima necessaria una premessa sulla questione delle "classi" e della stratificazione sociale. Anche ai fini della ricostruzione di un progetto politico che sappia recuperare quanto vi è di valido nella teoria marxiana, ma che allo stesso tempo tenga conto dell'esperienza storica del comunismo novecentesco è necessario affrontare in termini realistici la questione dell'organizzazione sociale e della conseguente stratificazione sociale. Diciamo subito chiaramente che la "fine della divisione in classi" è un obiettivo irrealistico, ogni società necessita di organizzazione sociale e l'organizzazione sociale finora è stata conseguita attraverso il potere. La stessa divisione sociale del lavoro necessita di una divisione dei compiti, diverse capacità e attitudini, diverso potere decisionale rispetto ad attività complesse che devono essere eseguite. Ognuno deve (o dovrebbe) nutrirsi, vestirsi, avere un'abitazione decente. Vi sono compiti che non si può scegliere liberamente se fare o meno, essi DEVONO essere eseguiti. Ogni rivoluzione ha promesso la palingenesi e il cambiamento radicale, ma alla fine si è scontrata con questa necessità, non sappiamo se un domani gli uomini riusciranno ad organizzarsi senza imposizione, resta il fatto che un ordinamento sociale è necessario, da questa necessità nasce soprattutto il potere che alcuni uomini hanno sugli altri, e il potere è sempre capacità di imposizione, monopolio della violenza in vari gradi, non esistono appunto "poteri buoni". Tuttavia ci sono ordinamenti che migliorano le condizioni di vita della popolazione, altri invece che la fanno regredire e devono essere sostituiti. Mai nessun ordinamento e stato abbattuto per motivi di "giustizia", ma perché ormai incapace di assicurare in modo adeguato la riproduzione sociale.
Pur non avendo in mente l’eternità, i secoli dei secoli, dobbiamo considerare contraddizioni suddette come non superabili, esse costituiscono l'ossatura delle relazioni conflittuali che spingono in avanti la società, contraddizioni che ritornano costantemente nella storia dell’umanità. Va superata l'eredità hegeliana, soprattutto lo schema del superamento delle contraddizioni attraverso tesi-antitesi-sintesi. Vi sono in merito alcuni spunti da recuperare nel pensiero di Marx:
Lo svolgimento della merce non supera tali contraddizioni, ma crea la forma entro la quale esse si possono muovere. Questo è, in genere, il metodo col quale si risolvono le contraddizioni reali. Per esempio, è una contraddizione che un corpo cada costantemente su di un altro e ne sfugga via con altrettanta costanza. L'ellisse è una delle forme del moto nelle quali quella contraddizione si realizza e insieme si risolve. (Il Capitale)
Di fatti questo modello permette di pensare un diverso svolgimento delle contraddizioni che non sia diretto verso il loro superamento, verso il Comunismo, la fine delle contraddizioni, ma invece un andamento ciclico che permetta di pensare la necessità di un certo ordinamento, ma anche la sua necessaria degenerazione. Per la creazione non solo del plusvalore, ma di tutti i mezzi necessari per la riproduzione di una determinata società è necessario un ordinamento, ma ogni ordinamento si basa su di un necessario disequilibrio che contiene in germe lo squilibrio e l’inizio della degenerazione del sistema.
Ci sono contraddizioni del vivere dell'essere umano in società che non sono facilmente superabili, contraddizioni che ritornano sempre e che sono alla base di quella conflittualità che costituisce uno dei motori dell'evoluzione sociale. L’inevitabile contraddizione in cui sono immerse le società umane riguarda ad es. la questione degli armamenti, sono necessari per la difesa, chi propone il disarmo è un alleato degli aggressori, i missionari e oggi le ong, hanno sempre accompagnato gli eserciti invasori, tuttavia nulla garantisce che le armi per la difesa non possano diventare armi di offesa, non c’è soluzione o superamento di questa contraddizione, è semplicemente impossibile eluderla. Resta il fatto che l’unica pace possibile fra gli uomini è l’equilibrio di forze. Quindi una parte del plusvalore va impiegata per la costruzione di un esercito per la difesa dei legittimi interessi, non si creda che una nazione che non tenga conto di questa necessità possa avere una grande prospettiva, il risultato invece sarà l’impoverimento e la subordinazione. Una certa dose di forza militare è necessaria ad es. per promuovere un’alleanza di forze tra nazioni più deboli contro quelle più forti per stabilire un certo riequilibrio delle forze, a tal fine una base di forza è necessaria. Ma l’esercito, la concentrazione e il controllo della forza, nelle sue diramazioni interne servono anche per il mantenimento di un certo ordinamento, e può accadere che le classi superiori che controllano la forza, possano allearsi in forma subordinata con le classi superiori di altri paesi, al fine di mantenere il controllo interno contro gli strati inferiori insoddisfatti di un determinato orientamento, anche se questo voglia dire il declino e la subordinazione della nazione. Oppure esattamente al contrario, può accadere ed accaduto che i gruppi dominanti di determinati paesi possono sobillare strati non dominanti di altri paesi, attraverso finanziamenti, armamenti, appoggio politico, al fine di indebolire la politica di uno stato che si ritiene possa fare ombra. Come dicevamo in un altro articolo, non esiste la lotta dei Buoni (il popolo) contro i Cattivi (le classi dominanti) ogni conflitto va considerato relativamente al suo contesto.
Forse perché Marx visse all’inizio della Rivoluzione industriale, un evento che ha visto un balzo improvviso della capacità produttiva del lavoro nella storia umana, ebbe l’illusione che l’umanità potesse compiere un “salto qualitativo” dalla “preistoria” alla storia vera e propria dell’umanità. Invece, dopo un secolo e mezzo di esperienza, che ha visto un incremento esponenziale della produttività del lavoro, il salto qualitativo si è rivelato un’illusione, lo sviluppo stesso del sistema produttivo necessita di un’ampia stratificazione sociale relativa alle professioni e a competenze sempre più specialistiche. D’altronde la questione della divisione del lavoro dalle prime formulazioni affascinanti ma utopiche di Marx secondo cui nella società del futuro ognuno avrebbe potuto “la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico". (Marx-Engels, L'ideologia tedesca), non è ebbe poi, che io sappia, formulazione più meditata da parte del Marx più maturo. Oggi con la necessaria specializzazione delle attività lavorative il sogno del giovane Marx appare del tutto utopico, è possibile però con la riduzione dell’orario lavorativo coltivare degli interessi al di fuori del lavoro. Ed è vero che il Marx del Capitale più che sulla fine della divisione del lavoro (ma che io sappia la questione non è mai stata chiarita), puntava maggiormente sull’accrescimento della capacità produttiva dello stesso, in modo da accorciare il tempo che la società nel suo insieme doveva dedicare alle necessità della vita, liberando tempo per il “regno della libertà”, per le attività non dettate all’essere umano dalla biologia, ma fini a se stesse: arte, scienza, politica, socialità, svago, ecc.
Marx ovviamente rispecchiava la mentalità del suo tempo, compreso un certo “classicismo”, una certa idea dell’otium, ispirata al modello classico che riteneva libero colui che avesse a disposizione il tempo per dedicarsi alla politica, alla scienza e all'arte. Il "compromesso" fra necessità e libertà escogitato da Marx conserva una notevole validità, bisognerebbe però tener conto che arte, scienza e politica non sono puro otium ma hanno un elemento di professionalità ineliminabile, suppure non possono essere ridotte a professioni come tutte le altre necessitando di attitudine e passione.
Marx considerò la gestione del plusvalore come questione principalmente economica, ad es. in quella parte del capitale dove parla delle forme di distribuzione del plusvalore, individua principalmente tre figure della distribuzione salario, profitto e rendita. Questo economicismo, nonostante Marx sostenesse che i rapporti economici erano rapporti fra uomini e non fra cose, diventa un limite pesante nei rispetti della comprensione di società molto complesse come quelle odierne, dove la gestione e la distribuzione del plusvalore è un fatto politico in cui hanno un ruolo fondamentale le strutture dello stato. La redistribuzione del plusvalore non avviene soltanto nell’ambito dei rapporti economici, ma nell’ambito dei rapporti complessivi di tutti i gruppi sociali, cioè si tratta di un fatto politico.
Marx vide la maggior efficienza nell’estrazione del pluslavoro/plusvalore (in specie relativo), ma non contestò la supremazia dell’economia, pur se va ricordato che egli, di questa sfera, considerò soprattutto i rapporti sociali (“il capitale non è cosa ma rapporto sociale”) e non la semplice economicità come hanno fatto gli epigoni, quelli della caduta del saggio di profitto, della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e di altre “delizie” similari. [Gianfranco La Grassa, A tutto campo (due)]
Sulla base di queste premesse possiamo ritornare alla questione del ceto medio. Per capire la situazione italiana bisogna aver presente che abbiamo a che fare con un’anomalia, con uno sviluppo incompiuto. L’enorme aumento della produttività ha sì creato un più ampio strato di ceto medio che non appartiene alle classi produttive, e con questo produttive, non intendo solo la “classe operaia”, ma anche “le potenze mentali della produzione”, cioè specialisti di alto livello (ingegneria, chimica, fisica), le piccole e medie imprese, il lavoro finto “autonomo”, professionisti vari che svolgono lavoro di collaborazione e consulenza per le aziende. Ma questo ceto medio non ha un ruolo effettivo nella gestione dell’economia e dello stato come nel capitalismo manageriale statunitense, è sorto invece un “ceto medio semicolto”, ovvero dei settori scolarizzati, una parte consistente proviene dalle classi inferiori, impiegato nella politica a tutti i livelli, nei sindacati, nei settori dello spettacolo e del giornalismo, nella pubblica istruzione, o che vivono dei fondi destinati ad associazioni varie.
Sia chiaro, non intendo affatto dire che queste ceti siano di per sé parassitari, una società complessa come la nostra necessita di un’estesa amministrazione, così come di un ampio sistema di formazione, dell’informazione e dell’organizzazione delle attività per il tempo libero. Il problema sta nel numero e nella qualità della funzione che questo ceto svolge e nel fatto che è “gonfiato” rispetto alla base produttiva del paese. Il “gonfiamento” di questo settore, che l’ha reso semiparassitario, è stato dovuto a quella che in un altro articolo ho provato a definire come la modernizzazione incompleta italiana, cioè una modernizzazione che ha inteso conservare un modello di capitalismo arretrato, di tipo familiare, una modernizzazione non moderna, sotto tutela degli Stati Uniti e della Chiesa Cattolica, basata su vaste sacche arretrate in particolare nel sud del paese, processo di cui fu strumento il cosiddetto clientelismo, che portò all’interno dell’amministrazione pubblica un ampio strato di impiegati superflui rispetto alle mansioni effettivamente da svolgere. Il gonfiamento della pubblica amministrazione, la corruzione della classe politica, attraverso privilegi vari, sono serviti soprattutto per far passare questa modernizzazione incompiuta.
Questi strati, eredità degli anni settanta e ottanta e fino agli anni novanta, oggi sono entrati in disequilibrio con la base produttiva, ristretta principalmente da quella “riduzione di potenza” operata dalla potenza nostra tutrice (vedi articolo sopra citato). Chiudono le imprese, o direttamente tramite la guerra (Libia), o indirettamente perché gli Usa per motivi geopolitici non vogliono che intratteniamo rapporti troppo stretti ad es. con la Russia, o perché non sostenute adeguatamente dallo stato, ma le spese dell'amministrazione pubblica restano, è necessario quindi aumentare la pressione fiscale sulle imprese o sulle famiglie in vari modi, ma ciò fa chiudere le imprese e restringe consumi, ed è a sua volta altro fattore di crisi. Più aumenta la crisi è più il “ceto medio semicolto” per conservare se stesso entra in contrapposizione con la base produttiva.
Ed ecco che un nuovo “soggetto” è comparso sulla scena, Equitalia, il cui nome fa pensare esattamente al contrario, cioè all’iniquità o in termini più “economici” al disequilibrio, sinonimo di crisi. Iniquitalia attraverso metodi terroristici è riuscita a risolvere temporaneamente la riduzione delle entrate dovuta alla crisi ma con metodi che non faranno che accentuare la crisi, e quindi la necessità di aumentare la pressione fiscale. Si è creata una spirale di crisi, i cui effetti si devono ancora tutti manifestare fino in fondo. Nei rispetti di Iniquitalia si manifesterà il fronte vero del conflitto sociale, in realtà già abbastanza incandescente, poiché ormai sono decine di migliaia le persone inferocite nei suoi confronti, perché gli è stato bloccato il conto corrente o l’automobile, o addirittura pignorata la casa, milioni coloro che hanno ricevuto qualche “cartella”.
Il disequilbrio è anche una questione di allocazione di risorse, piuttosto che finanziare impieghi inutili non sarebbe meglio investire per creare lavoro vero? Finora non si è vista invece nemmeno l’ombra della politica tedesca, che consiste nel risparmio sulla spesa pubblica per investire in finanziamento alle imprese, volto al rinnovamento tecnologico, e incremento della produttività che è dovuto soprattutto a lavoro stabile e buone condizioni di lavoro. Ma questa classe politica per le sue stesse caratteristiche non potrà mai fare una politica del genere, continuerà ad aumentarsi lo stipendio mentre intorno le persone vanno in rovina, fin quando sarà necessario “cambiare sistema”.
Nei cosiddetti ceti medi semicolti si è diffusa una mentalità tale che soltanto le piacevolezze della crisi economica potranno riportarlo alla realtà. Questi settori proprio perché si contrappongono al mondo produttivo, quello che “evade” le tasse, non si pongono il problema dell'origine dei loro stipendi, il pubblico impiego crede a es. che lo stipendio provenga dallo “Stato”, pensato come una sorta di astratta divinità, e non dalla base produttiva. Una volta che questa base comincia a restringersi sul serio la classe dominante, che non è il ceto medio semicolto, comincia a decimare lo stesso ceto medio, come sta accadendo in Grecia o in Spagna dove si è cominciato a licenziare gli impiegati pubblici. Non è un caso che la crisi abbia colpito soprattutto quei paesi che per un motivo o un altro non sono riusciti a portare a termine la modernizzazione economica.
È sorta inoltre una mentalità sfavorevole per le attività produttive, per quale motivo un giovane dovrebbe intraprendere la strada impegnativa della formazione tecnica, se il trattamento che poi riceverà sarà equivalente, se non inferiore, a quella di un impiegato che ha la garanzia del lavoro, con scarse responsabilità e spesso trascorre le proprie giornate in una sostanziale inattività? Quando la sua paga sarà di molte volte inferiore a quella di un politico che produce solo danni? Per non parlare dell’assoluta inadeguatezza del sistema scolastico rispetto a quelle che sarebbero le necessità di una società moderna. Si moltiplicano le cattedre di materie francamente inutili, talvolta seguite da pochi studenti nei posti più sperduti, mentre le imprese non riescono a trovare professionisti specializzati in vari settori, nonostante la disoccupazione risulti molto alta. Aspetto paradossale che si riscontra anche nell’immigrazione, in quanto gli immigrati vengono in Italia e nei paesi europei, soprattutto perché in realtà c'è richiesta, poiché proprio per la spinta ad occupare il settore della classe media c'è tutta una serie di “lavori che gli italiani non vogliono fare”. Non solo per la spinta ed entrare nel ceto medio, ma anche perché le condizioni nel “privato” non sono buone, perché le imprese, soprattutto quelle medie e piccole, spesso sono incapaci di offrire condizioni migliori a cause dell’eccessivo carico fiscale dovuto alle spese per mantenere un settore pubblico sproporzionato . Troppi giovani studiano le cosiddette “materie umanistiche” senza nessun vero interesse per queste materie, senza un vero obiettivo se non quello di non svolgere un “lavoro manuale”. Le facoltà umanistiche servirebbero per formare una classe dirigente sia nel campo più direttamente politico sia in ambito intellettuale e culturale, ma quando la classe politica in realtà non ha un ruolo direttivo, ma esecutivo degli ordini provenienti dall'alto, è inevitabile che si svalutino tutte le materie relative alla formazione culturale.
Il mancato passaggio italiano al capitalismo manageriale vuol dire un ceto medio staccato dalla gestione del potere politico ed economico effettivo, quindi indifferente alla sorte dello stato e della base produttiva che permette la sua stessa esistenza come ceto medio, anzi ad essa contrario ed avverso in senso classista, questa è la principale anomalia italiana che si intende indicare con il termine “ceto medio semicolto”.
Non si è formato in ceto medio realmente inserito nei gangli della gestione dello stato e della produzione, proprio per la modernizzazione incompleta della società italiana, come notava La Grassa qualche accenno di passaggio ad un capitalismo non familiare ma manageriale, si è avuta negli ultimi tempi con la guida alla Fiat di Marchionne, ma in una forma completamente subordinata agli Usa.
Abbiamo quindi un ceto medio semicolto, avulso dalla realtà dello stato e della produzione, una classe politica che non gestisce e non da direzione politica (stendiamo un velo pietoso sugli “intellettuali”), ma che esegue gli ordini dall’alto, mentre finge di dividersi sulle “grandi questioni ideali”.
Un ceto medio incapace di capire che la svendita dell’Italia, la gestione della politica estera, in particolare per quanto riguarda la Libia, un paese cruciale per l’Italia, scalzerà le basi materiali della loro stessa esistenza. Per questi motivi l’Italia attraverserà di nuovo un periodo di crisi strutturale, che necessiterà di soluzioni radicali, “rivoluzionarie”. Naturalmente conta il fatto che l’Italia è un paese occupato, ma anche la Germania è piena di basi americane, quindi l'occupazione militare non può essere una scusa per le magagne di questa orrida classe politica.
Dovrebbe essere già chiaro che il modello che sto avanzando non è dualistico, classe operaia produttrice contro tutti gli altri settori che vivono del plusvalore, la crisi è strutturale perché colpisce soprattutto i settori produttivi, le imprese, soprattutto le piccole e medie imprese, che dato lo sviluppo abnorme dell’Italia avevano finito per costituire la spina dorsale dell’economia. Le famose imprese del nord-est sia per la loro struttura, sia perché non coadiuvate come in altri paesi dagli incentivi statali, e dalla ricerca tecnologica, non reggono la concorrenza internazionale.
La distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo (di plusvalore) è molto importante, ma non vuol dire che i lavori improduttivi (di plusvalore) siano inutili, o non concorrano a creare il plusvalore, ad es. l'applicazione tecnica della scienza è un fattore fondamentale nella creazione del plusvalore, ma senza sistema scolastico adeguato non c'è produzione di scienziati. La distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo è una distinzione fra ciò che è primario e ciò che è secondario, non in termini di "valori", ma in termini logici, come ciò da cui dipende cosa, nel senso che senza una certa quota di plusvalore nel settore primario è impossibile, in termini materiali, trovare le risorse per un adeguato sistema scolastico. Ecco perché quando il lavoro improduttivo (di plusvalore) supera una certa quota questo impedisce la creazione del plusvalore indispensabile per la riproduzione della società, all’inizio impedisce di destinare la quota necessaria di plusvalore per l’ammodernamento delle imprese che nel sistema concorrenziale capitalistico è sempre necessaria, successivamente intacca alle fondamenta la creazione di plusvalore perché le imprese non riescono a realizzare i margini necessari di guadagno per dar vita ad una attività economica nel sistema capitalistico.
Ci si avvia verso la crisi, la crisi si manifesta appunto quando il disequilibrio diventa squilibrio finché si arriva all’incapacità del sistema di riprodursi in modo normale. Come si uscirà dalla crisi non è dato sapere, se in modo regressivo, con il caos sociale e l’entrata nella decadenza vera e propria, oppure in modo progressivo, verso la ricerca di nuovi equilibri. Viste le condizioni morali e intellettuali del paese non è dato ben sperare, ma siccome l’Italia, nonostante i suoi innumerevoli e gravi difetti, ha sempre riservato delle sorprese non è detta l’ultima parola.