POLITICHE ECONOMICHE E CONFLITTI A TUTTO CAMPO

Sul Sole 24 ore del 03.07.2011, nel valutare le conseguenze “critiche” della finanza selvaggia, Guido Rossi scrive:

<<Questa era dell’avidità ha propagato la sua metastasi agli stati e alla politica delle democrazie costituzionali, contagiandosi, quasi senza avvedersene e mettendo a rischio la loro stessa esistenza. La speculazione selvaggia ha ormai preso di mira lo strumento fondamentale della politica economica dei paesi democratici, cioè il debito pubblico, imponendo ora rigorosi, quanto rischiosi regimi di austerità, che hanno permesso sia in Europa, sia negli Stati Uniti, di sperperare prima i surplus negli anni buoni dello sviluppo economico invece che accantonarli, al fine di poter stimolare la domanda aggregata per uscire dalle crisi negli anni cattivi. Il patto di stabilità , ad esempio impone ora ad Eurolandia di mantenere il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil e il debito pubblico, rispetto a questo, al 60%. Sembra andare in questa direzione la discussa manovra italiana. Il sistema è dunque privo di ogni flessibilità. Quella flessibilità che i governanti tedeschi oggi ignorano e disprezzano non ricordando di averla adottata qualche anno fa, quando la Germania soffrì di recessione economica.>>

Effettivamente la manovra approvata dal Governo si propone principalmente di proseguire sulla strada della diminuzione del deficit e del debito pubblico; da un rapporto deficit/Pil del 4,6% nel 2010 si ipotizza di  arrivare ad un sostanziale pareggio di bilancio nel 2014. La distribuzione dei tagli alla spesa nel periodo 2011-2014 appare però fortemente squilibrata: solo 7 miliardi complessivi nei primi due anni mentre gli interventi saranno di 20 miliardi nel 2013 e altrettanti nel 2014.  Queste scadenze vengono in parte giustificate con le direttive della Ue per le quali in prospettiva si potrebbe arrivare a delle modifiche rispetto a quanto attualmente programmabile per la politica economica, fiscale e monetaria dell’Unione. D’altra parte gli avversari della politica del rigore sanno che in una fase di lunga e profonda depressione il debito pubblico diventa “una cosa seria” e non più una innocua e solo fastidiosa anomalia. L’economia pubblica di alcuni paesi potrebbe collassare e portare sul lastrico non solo un intera nazione ma aggravare moltissimo la crisi del“blocco regionale” di Stati di cui esso fa parte. La spesa “inutile”, inoltre, potrebbe rinfocolare l’inflazione senza produrre nessun vantaggio e alimentando invece, ulteriormente, la speculazione finanziaria. Ancora una volta, poi, in una fase che è paragonabile ad uno stato di eccezione gli attori politici italiani hanno dimostrato la loro incapacità di prendere decisioni e di occuparsi dei problemi reali. La Lega Nord, secondo partito di governo, ha dimostrato ancora una volta la sua limitata capacità di comprensione strategica chiedendo ed ottenendo in maniera ottusa e sostanzialmente propagandistica i decreti legislativi sul tanto acclamato federalismo fiscale ed economico; ora la manovra Tremonti-Berlusconi dopo i tagli e le restrizioni degli ultimi anni, compresa la benemerita abolizione dell’ICI sulla prima casa, prevede un ulteriore taglio per Regioni e Enti Locali di 9,6 miliardi. È evidente che , in una fase come questa, la riforma del federalismo fiscale avrebbe dovuto camminare di pari passo con analoghi provvedimenti in campo istituzionale: perché, ad esempio,  invece di cianciare sull’ipotesi dell’abolizione integrale di tutte le Province non ci si è concentrati, nel breve periodo, per un loro “accorpamento” e una riduzione del 30% delle spese relative ? I tentennamenti su questo tipo di scelte e su altre  – ad esempio sui  costi della politica intesi nel senso più lato – potrebbe finalmente portare ad un minimo di unità di intenti tra lavoratori dipendenti, autonomi e ceti medi produttivi di natura tale da produrre, non solo un calo del consenso a questo governo, ma anche una necessaria e indifferibile “ristrutturazione” della classe politica italiana.

Sempre sul Sole 24 ore (02.07.2011) Mario Margiocco interviene con interessanti osservazioni sul “caso Strauss-Kahn”, prima mettendo in evidenza come la particolare enfasi su questo presunto scandalo sia stata accompagnata da un utilizzo e una pubblicizzazione impropria di fotografie e filmati – almeno rispetto alle consuete cautele seguite dagli organi giudiziari e mediatici negli Usa – poi avanzando ipotesi riguardo alla “posta in gioco”:

<<… più i guai dell’Europa e dei suoi grandi debitori sono dominanti sulla scena internazionale, meno attenzione si focalizza sulla situazione per nulla rosea delle finanze pubbliche americane. Sono su un binario altamente insostenibile. Ed è opinione diffusa a Washington che nulla verrà fatto fino al 2013, fino a dopo cioè le prossime elezioni presidenziali. Si potrà aspettare fino ad allora? I mercati continueranno a finanziare il debito pubblico americano? Si, se non c’è alternativa, che al momento può venire solo dall’area euro. No, se non a costi nettamente più alti, se l’Europa dell’euro potrà rappresentare un rifugio alternativo credibile, nel breve-medio periodo. L’aver cancellato di colpo dalla scena Strauss-Kahn ha fatto temere per due o tre settimane che la strategia di intervento in Grecia, e altrove, fosse a grave rischio.>>

Le suddette considerazioni sono un esempio di come i grandi conflitti tra Stati e gruppi dominanti ,all’interno delle varie aree geopolitiche, vengono combattuti nelle varie sfere; perché la lotta è a tutto campo e certamente non concerne solo l’economia ma anzi quando si trova una “sintesi” essa è sempre fondamentalmente di natura politica. E siccome “ripetere giova” concludo  con alcuni passi tratti dalle recenti riflessioni su questo sito, di G. La Grassa, sul problema della distinzione tra pubblico e privato e quindi tra Stato e economia.

<<Qui si è semplicemente voluto porre in luce che comunque non ha più gran senso, né in base alle considerazioni dei liberisti né ascoltando gli statalisti, la distinzione netta e irriducibile tra privato e pubblico. Il cosiddetto privato, legato all’attività di gruppi particolari, non è riconducibile al solo fine del profitto perseguito da capitalisti proprietari disinteressati alla produzione e solo ossessionati dal guadagno. Marx aveva del resto già chiarito che il capitalista non è un “Arpagone”. Il profitto oltre che fine è anche mezzo; non certo per scopi nobili, alti, altruistici, non vengo certo a raccontare queste panzane ideologiche. D’altronde, il pubblico è l’altra foglia di fico – l’interesse generale della collettività – ideata per coprire gli interessi di gruppi politici (legati a gruppi imprenditoriali privati, del genere parassitario già indicato) che – vigendo la “democrazia” dell’imbonimento e obnubilamento di masse di elettori manovrati e rimbambiti dalla menzogna del bene collettivo – non trovano di meglio che pontificare sullo Stato quale strumento dello stesso, chiedendo di poter incrementare a dismisura le sue funzioni dichiarate sociali; e riducendole in definitiva a flussi di spesa per scadenti servizi prestati da caterve di impiegati assunti senza criteri di qualifica e di merito, però buoni elettori dei parassiti di ogni risma.>>

<<L’elemento fondante la società (non solo capitalistica, ma di questa comunque stiamo parlando) non deve più essere considerato la proprietà o meno dei mezzi di produzione. E’ necessario fissare invece l’attenzione sulle complesse strategie del conflitto; dove tale nuova attenzione non è rivolta tanto allo studio delle battaglie strettamente belliche, con le loro mosse specifiche, le loro specifiche forze e strumenti impiegati, ecc., quanto invece all’analisi della formazione di nuovi strati e segmenti della società, di cui è rilevante l’eventuale coinvolgimento nello scontro politico-ideologico, che comporta la costituzione dei diversi blocchi sociali.>>

<<Decisivo è però il suo [dello Stato.N.d.r.] ruolo e le funzioni svolte dai suoi apparati in quanto condensazione, precipitazione “istituzionale”, dei conflitti e delle loro strategie; e non più soltanto secondo un modello sociale semplificato a due classi antagonistiche fondamentali – con tutto il resto quale contorno e semplice complicazione, attenuazione, possibile deviazione, dello scontro frontale – bensì seguendo un’impostazione attenta alla molteplicità dei gruppi in conflitto o in alleanza, con possibili mutamenti più o meno rapidi delle loro diverse posizioni. Importantissimo è poi articolare il conflitto tra i gruppi all’interno di una formazione particolare (di cui lo Stato sembra fare solo da “rappresentante”) e quello tra i vari Stati e quindi tra diverse formazioni, tenendo conto di come si dispongono in queste ultime i gruppi che si scontrano o si alleano; non più soltanto nell’arena nazionale quindi, bensì in più o meno vaste aree mondiali. Insomma, è indispensabile disancorare la concezione dello Stato da teorie ormai logore e muffite. Tuttavia difficile è formulare una più adeguata teoria dello stesso, se non ne viene sviluppata una nuova e ben più pregnante circa le diverse formazioni sociali moderne, che tutte le impostazioni in campo continuano a disporre nella “grande classe” del capitalismo, pur esso ormai un concetto-ripostiglio; come lo è quello dei ceti medi. E state ben attenti al fatto che vi è una correlazione stretta tra: a) l’ammassamento confuso degli strati e segmenti della formazione sociale moderna nell’unico concetto di “ceti medi”; b) l’altrettanto pasticciata e fumosa considerazione dello Stato come un Soggetto unitario, compatto, dotato di volontà e decisione proprie; c) la generica categoria di capitalismo, in esso affastellando formazioni sociali diverse. Ogni confusa e approssimativa concezione è conseguenza delle altre.>>

Mauro Tozzato                       03.07.2011