L’instabilità indo – pakistana dai primordi all’attacco all’heartland

La nazione del Pakistan vide la luce il 14 agosto 1947 grazie soprattutto agli enormi sforzi profusi da Ali Mohammed Jinnah e dalla Lega Musulmana di cui fu a lungo leader incontrastato.

La decisione di dar vita ad una nazione indipendente dall’India, di cui era stata parte integrante durante i decenni di predominio britannico, fu stimolata dall’esigenza di tutelare la componente islamica che si temeva non potesse vivere in armonica compenetrazione con la preponderante maggioranza indù di cui Mohandas “Mahatma” (grande spirito, appellativo affibbiatogli dal poeta Rabindranath Tagore) Gandhi era l’indiscusso leader spirituale.

Ben presto però i vertici della Lega Musulmana (Ulema) che erano indubbiamente stati i principali artefici dell’indipendenza pakistana entrarono in conflitto con le élites moderniste che intendevano porre l’accento sul carattere laico della nazione, gettando così le basi per l’endemica instabilità politica che ancora oggi attanaglia il paese.

Fu proprio il sentimento panislamico che aveva cementato la base popolare musulmana a conferire peso politico alla tormentata regione del Kashmir, oggetto delle storiche contese con l’India che innescarono tre guerre particolarmente sanguinose accompagnate dalla ben nota corsa al riarmo nucleare che ha reso e continua ancora oggi a rendere incandescente la situazione.

Il Kashmir era una regione connotata da una forte maggioranza musulmana governata però dal Maraja indù Hari Singh, che nei mesi successivi all’indipendenza di India e Pakistan era stato chiamato a scegliere se confederarsi alla prima o aderire seconda.

Costui comprese la difficoltà della scelta e tergiversò di proposito nella speranza di ottenere a sua volta l’indipendenza per il proprio paese.

Se avesse infatti scelto di unirsi all’India avrebbe fomentato forti dissidi in seno alla maggioranza musulmana che avrebbero potuto portare a un colpo di stato.

Se, di converso, avesse optato per l’annessione al Pakistan avrebbe perso molti privilegi legati allo status di governante di una regione autonoma e per giunta musulmana.

Tuttavia il Pakistan, nato dai presupposti descritti in precedenza, non poteva ignorare la causa della maggioranza musulmana del Kashmir ed accettare che questo finisse per gravitare attorno all’orbita indiana.

In tale contesto maturò l’invasione del Kashmir (22 ottobre 1947) operata da alcuni gruppi guerriglieri pashtun inviati dal governo pakistano, i quali espugnarono la città di Poonch e spinsero così nell’angolo il Maraja Hari Singh che firmò immediatamente l’atto di accessione all’India in cambio del quale ottenne dal governo di Nuova Delhi i rifornimenti militari necessari per respingere l’invasione.

Il contenzioso terminò con l’applicazione di una linea di cessate il fuoco provvisoria (Cease Fire Line) approvata dalle Nazioni Unite l’1 gennaio 1949, da mantenere in vigore finché un plebiscito non avrebbe rivelato le reali intenzioni della popolazione del Kashmir al riguardo.

Il Pakistan si è continuamente appellato alla risoluzione ONU numero 47 del 1948 per supportare il proprio appoggio al plebiscito, mentre l’India ha costantemente ribadito i termini dell’accordo stipulato con il Maraja comprendenti lo strumento di accessione per fare in modo che esso non venisse indetto.

Rinunciando al controllo del Kashmir, il governo di Nuova Delhi avrebbe infatti rafforzato implicitamente le spinte centrifughe delle molte fazioni etniche e religiose che costituiscono la variegata società indiana, e accettò così di buon grado i confini tracciati dalla linea di cessate il fuoco, che da provvisoria poteva effettivamente esser considerata permanente dal momento che nessun plebiscito era stato indetto nel frattempo.

I confini corrispondenti alla linea di cessate il fuoco assegnavano al Pakistan un terzo del territorio conteso comprendente il Baltistan, la valle di Neelum e il distretto di Hunza e all’India i due terzi rimanenti, ovvero lo stato di Jammu e Kashmir e il Laddakh.

L’instabilità causata dalla guerra indo – pakistana ridimensionò drasticamente la portata dell’ambizioso progetto politico elaborato e sostenuto dal Primo Ministro indiano Jawaharlal Nehru improntato alla mediazione e spinse svariate potenze internazionali ad approfittare della situazione per insinuarsi tra le maglie della situazione.

La Cina colse la ghiotta occasione per mandare in fratumi l’asse antimperialista sino – indiano invadendo l’India per capitalizzare le proprie mire strategiche in Asia centrale.

Il governo di Pechino retto da Mao Tze Tung aveva disposto che venissero avviati i lavori per la costruzione di un anello stradale che congiungesse la Cina al Tibet e alla Mongolia, snodandosi attraverso lo Xinjiang e la catena di Karakorum, in risposta alla necessità di puntellare la presenza cinese nella patria dell’ostile Dalai Lama e in svariate aree limitrofe.

L’ultimazione di tale corridoio stradale era però impedita dal territorio indiano dell’Aksai Chin, che la Cina scelse di invadere nel 1962 in seguito a numerosi incidenti scatenati di proposito lungo la frontiera.

Scoppiò quindi la guerra sino – indiana che si risolse con il trionfo della Cina.

Intanto in Pakistan un colpo di stato militare (1958) aveva coronato l’ascesa al potere del generale Ayub Khan, il quale aveva istituito la legge marziale e spostato la capitale dal Karachi ad Islamabad in ragione della posizione geografica di vantaggio della seconda, protetta dalle colline di Margalla, rispetto alla prima.

Ayub Khan sfruttò immediatamente la debolezza indiana causata dalla batosta rifilata dalla Cina per stringere una salda alleanza militare con quest’ultima e gettare le fondamenta dell’ambizioso progetto militare meglio noto come Grande Slam finalizzato all’annessione dell’intero Kashmir rimasto sotto il controllo indiano.

L’1 settembre 1965 i carri armati americani in dotazione all’esercito pakistano raggiunsero ed occuparono l’unica via d’accesso che dal Punjab indiano conduce al Kashmir al fine di sbarrare la strada alle armate che sarebbero presumibilmente state inviate dal governo di Nuova Delhi.

La reazione non si fece però attendere, concretizzandosi in un’offensiva sferrata a sorpresa nel Punjab pakistano da parte delle forze armate indiane le quali, dopo aver travolto le difese pakistane presso Sialkot, penetrarono nel territorio fino a raggiungere Lahore.

Evidentemente Ayub Khan contava di attirare nella bagarre anche le forze armate cinesi che però se ne stettero in disparte in omaggio al tradizionale isolazionismo adottato dai governi di Pechino che si sono succeduti negli anni.

La mediazione sovietica portò alla ratifica degli accordi di Taskent del 10 gennaio 1966, che prevedevano il ritiro degli eserciti dai territori occupati e il ripristino dei confini sanciti con la linea di cessate il fuoco provvisoria.

L’effettiva disfatta pakistana nella seconda guerra contro l’India spaccò lo stato maggiore e preluse ad un ulteriore putsch militare che detronizzò il generale Ayub Khan e sancì la speculare ascesa al potere di Yahya Khan, che il 7 dicembre 1970 indisse le prime elezioni.

I pronunciamenti popolari rivelarono che il Pakistan occidentale si riconosceva massicciamente nella linea politica propugnata dal nazionalista Ali Bhutto, mentre quello orientale nell’indipendentismo bengalese guidato da Rahaman.

Il movimento di Rahaman si fece interprete del forte disagio popolare della popolazione bengalese, fortemente irritata dall’atteggiamento di un governo centrale egemonizzato dalle forze armate impegnate strenuamente nella difesa dei propri privilegi a discapito di una popolazione agricola lasciata a se stessa, in balia delle piene del Gange e tenuta fuori dalle decisioni politiche principali.

Quando poi i separatisti bengalesi insorsero contro il governo di Islamabad che inviò l’esercito per riportare l’ordine, l’India non perse occasione per schierarsi al fianco dei rivoltosi.

Le forze armate indiane si congiunsero così ai ribelli dando vita a una coalizione soverchiante che costrinse l’esercito pakistano a deporre le armi in gesto di resa (16 dicembre 1971).

Nacque così l’odierna nazione del Bangladesh, mera costola orientale della vecchia nazione pakistana.

La sconfitta del Pakistan non fece tuttavia che rendere evidente la superiorità indiana nella regione.

In compenso, pose le basi per la caduta del generale Yahya Khan e per la simmetrica nascita del governo democratico di Ali Bhutto, che tuttavia fu a sua volta vittima di un colpo di stato portato avanti dal generale Zia Ul Haq operato a distanza di pochi anni (luglio del 1977) mosso dall’incapacità di Bhutto a far fronte alla crisi economica vigente e alle rivendicazioni etniche che agitavano le due regioni della North West Frontier Province e del Baluchistan.

Zia Ul Haq avviò una forte campagna di islamizzazione della società pakistana che cadde in concomitanza con la Rivoluzione Islamica guidata dall’Ayatollah Ruollah Khomeini nel vicino Iran, vista con orrore dall’intero blocco Occidentale.

Il partito degli Ulema – protagonisti della fondazione del Pakistan – acquisì forte peso politico facendosi sponsor ideologico del governo di Zia Ul Haq ed ottenendo come contropartita la possibilità di entrare nei ranghi amministrativi di Islamabad oltre a quella di utilizzare i lauti aiuti economici forniti da Stati Uniti (rientranti nel sofisticato progetto di logoramento dell’Unione Sovietica elaborato da Zbigniew Brzezinski) e Arabia Saudita per l’addestramento dei mujahiddin islamici che avrebbero poi innescato la guerra civile in Afghanistan coinvolgendo l’Unione Sovietica fino a impantanare l’Armata Rossa e a costringerla infine (1989) al ritiro.

Negli undici anni in cui Zia Ul Haq rimase al potere, il Pakistan seppe approfittare degli sviluppi circostanti per acquisire peso e prestigio politico sufficiente per ovviare, seppur parzialmente, al netto divario che aveva separato Islamabad da Nuova Delhi per i decenni precedenti.

Alla Rivoluzione Islamica sciita portata avanti con successo da Khomeini andò infatti a sommarsi l’invasione dell’Armata Rossa in Afghanistan (1979) prima, e lo scoppio della guerra tra Iraq ed Iran poi (1980).

Tali eventi destabilizzanti rinsaldarono l’asse Washington – Islamabad, spinsero il Pakistan ad assurgere a bastione principale dell’Islam sunnita e orientarono l’attenzione del governo centrale vero si paesi mediorientali e del Golfo Persico.

Il Pakistan, soggetto ad un’esorbitante crescita demografica (il secondo paese più densamente abitato dell’universo islamico dopo l’Indonesia) e fattosi promotore della causa propugnata dai guerriglieri islamici afghani, assunse così enorme prestigio internazionale agli occhi dello sterminato mondo musulmano.

L’India, dal canto suo, adottò una linea più prudente in relazione all’aggressione dell’Afghanistan operata dall’Armata Rossa.

L’avvicinamento degli Stati Uniti al Pakistan spinse infatti l’allora Primo Ministro Indira Gandhi a rompere la storica neutralità indiana relativa al bipolarismo Stati Uniti – Unione Sovietica schierandosi di fatto al fianco di quest’ultima.

Intanto, il Pakistan traeva enormi vantaggi economici forniti da Washington in forza della propria posizione logisticamente cruciale di appoggio ai mujaheddin impegnati a combattere le armate sovietiche in Afghanistan.

A ciò va aggiunto il nutritissimo traffico di droga e armi che attraversando le valli afghane giungeva fino ai terminali portuali di Karachi, da cui si diramava in tutte le direzioni.

Tuttavia la morte del generale Zia Ul Haq (17 agosto 1988) maturata in circostanze a dir poco controverse richiamò i cittadini pakistani alle urne, decretando il trionfo di Benazir Bhutto, figlia dell’ex presidente Ali Bhutto condannato nel frattempo all’impiccagione dalla corte marziale pakistana (1979).

Le endemiche acredini tra Primo Ministro o Presidente della Repubblica hanno però consentito ai partiti religiosi, a quelli oltranzisti e all’esercito di rafforzare le proprie posizioni a discapito delle istituzioni civili, continuando conciò a minare regolarmente ogni progetto di distensione verso l’India.

In un paese in cui lo stato maggiore è il più fido alleato dei vertici religiosi il governo non verrà mai posto nelle condizioni di agire sovranamente in ambito di politica estera.

Inoltre, lo stretto legame etnico con i pashtun ha portato l’esercito pakistano a rivolgere il proprio sguardo verso l’Afghanistan e di giocare sull’alleanza strategica con esso per ristabilire i rapporti di forza con l’India.

Nel 1990 le frizioni tra il Presidente della Repubblica Ishaq Khan e Benazir Bhutto culminarono con le dimissioni di quest’ultima dietro pesanti accuse di corruzione; al riguardo, significativo è il fatto che la Bhutto stesse portando avanti una riforma della costituzione finalizzata a ridurre i poteri del Presidente della Repubblica.

La momentanea uscita di scena di Benazir Bhutto combaciò comunque con l’ascesa al potere della Islamic Democratic Alliance guidata da Nawaz Sharif, che rimase in carica per soli tre anni, fino a quando la crisi politica dilagante non fu interrotta dall’intervento dell’esercito (18 luglio 1993) che costrinse alle dimissioni tanto il Presidente della Repubblica Ishaq Khan quanto il governo di Nawaz Sharif.

Fu allora che Benazir Bhutto risalì la china assieme al suo partito Pakistani Popular Party e fu eletta nuovamente Primo Ministro; Presidente della Repubblica fu invece nominato Farroq Leghari, uomo strettamente legato alla Bhutto e al suo partito.

Malgrado i presupposti per conferire un minimo di stabilità alla situazione politica interna non mancassero, Leghari mosse contro Benazir Bhutto accuse di corruzione costringendola alle dimissioni.

Le elezioni del 1997 consacrarono il ritorno di Nawaz Sharif al governo rivelando nel contempo un fortissimo calo di popolarità della Bhutto e del suo partito.

Alla fine dello stesso anno gli screzi tra Leghari e Sharif portarono alle dimissioni del primo e all’affermazione di Muhammar Rafiq Tarar – uomo di fiducia di Sharif – al rango di Presidente della Repubblica.

Il binomio Tarar – Sharif si mosse risolutamente verso una sfacciata politica di potenza che culminò con i test nucleari del 1998, i quali suscitarono un forte sdegno internazionale.

Ciò spinse i vertici pakistani ad abbassare i toni, a riaprire il dialogo relativamente alla questione del Kashmir e ad adottare una politica di appeasement verso l’India comprendente anche la ratifica dell’accordo sulle interdizioni degli esperimenti nucleari.

La sottoscrizione dell’accordo per la riduzione dell’attività militare nella regione siglata nel 1999 spinse però le forze armate a rovesciare ancora una volta le scelte del governo.

L’esercito era infatti intenzionato a portare avanti la contesa infinita con l’India e per farlo appoggiò il putsch militare che segnò l’entrata in scena del generale Pervez Musharraf (ottobre 1999), il quale dopo aver decretato lo stato di emergenza sospese Parlamento e Costituzione proclamandosi unilateralmente capo del governo.

La continua interferenza dell’esercito nelle attività comunemente affidate del governo rispecchia fedelmente la struttura sociale di un paese che conta una sparuta oligarchia di ricchissimi proprietari terrieri lontanamente lambiti dalle attenzioni degli agenti tributari, in cui le forze armate hanno storicamente preferito adottare un basso profilo in ragione dell’arrendevolezza con cui i governi e le altre istituzioni civili si sono posti dinnanzi al loro cospetto.

Una situazione affine si è presentata per svariati decenni in Turchia (fino all’ascesa al potere di Recep Erdogan), paese in cui l’esercito si è fatto garante del laicismo e dell’atlantismo intervenendo ogni qualvolta si sia profilata la possibilità di un allontanamento del governo di Ankara dalla NATO o uno slittamento politico verso l’Islam.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001 e la conseguente ritorsione degli Stati Uniti contro l’Afghanistan talebano ritenuto il covo del presunto responsabile Osama Bin Laden hanno conferito ancora una volta un peso strategicamente fondamentale al Pakistan, che ha fornito appoggio logistico alle operazioni militari delle forze armate statunitensi in cambio di forti aiuti economici e ampi riconoscimenti politici.

L’esercito e soprattutto i servizi segreti (ISI) pakistani si sono mantenuti però con i piedi in due staffe, fornendo appoggio agli Stati Uniti da un lato ma non disdegnando di concedere aiuti ai vicini talebani dall’altro; i fatti relativi all’assedio di Kunduz appaiono assai eloquenti al riguardo.

In ogni caso, il rinsaldamento dell’asse Washington – Islamabad ha destato forti preoccupazioni al governo di Nuova Delhi, che non ha esitato ad acuire la tensione nel Kashmir.

L’India non ha intenzione di perdere l’egemonia sul subcontinente indiano, specie dopo il collasso dell’Unione Sovietica che ha prodotto la formazione di una miriade di nazioni in Asia centrale fortemente intrise di Islam e, di conseguenza, naturalmente orientate verso il Pakistan.

L’occupazione militare dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti si iscrive poi nell’ambito di una strategia di penetrazione di Washington in Asia centrale, verso quel reticolato di rotte petrolifere e gasifere che innervano l’heartland, il cui controllo (come sottolineò a suo tempo il geografo britannico Halford Mackinder) consente di porre una seria ipoteca sul cuore dell’Eurasia e di conseguenza sul resto del mondo.

Ciò si è ripercosso pesantemente sull’instabilità politica del Pakistan e non a caso lo stesso omicidio di Benazir Bhutto pare inserirsi alla perfezione in questo quadro specifico.

Nel 2007 la Bhutto era impegnata in una serie di comizi a sostegno dell’intesa tra il presidente Musharraf e il suo dirimpettaio afghano Hamid Karzai relativa all’intensificazione congiunta della lotta contro i talebani.

L’attentato che costò la vita alla Bhutto ebbe luogo nei giorni immediatamente successivi al raggiungimento dell’accordo tra i due presidenti ed è certamente inquadrabile come un messaggio piuttosto diretto che talune frange “deviate” avrebbero inteso inviare a Musharraf.

Molti ritengono che tali frange corrispondessero in realtà all’ISI, che mediante l’attentato contava di lanciare un serio monito al presidente invitandolo a portare avanti la classica linea politica improntata alla più subdola ambiguità e a guardarsi bene dal tendere eccessivamente la corda nella lotta i talebani.

Tuttavia la guerra all’Afghanistan ha sortito non solo e non tanto forti contraccolpi sulla stabilità interna del Pakistan, quanto sulle prospettive di convivenza pacifica con l’India, che paiono affievolirsi costantemente.

Ciò è aggravato inoltre dal non secondario fatto che entrambi i paesi sono dotati di arsenali nucleari talmente poderosi da rendere spaventosamente grave il rischio escalation, che sortirebbe inevitabilmente pesanti ripercussioni sull’intero scenario internazionale.