IL CAPITALE E’ UN RAPPORTO SOCIALE (MA QUALE?) di Gianfranco La Grassa

Pubblichiamo questo importante saggio di Gianfranco La Grassa scusandoci con i lettori per non aver ancora attrezzato una sezione teorica indipendente dai pezzi contingenti del blog. Stiamo provvedendo a realizzare un’architettura del sito che dia il giusto risalto a tutto il lavoro categoriale e concettuale che non può scorrere “a lenzuolo” come gli articoli quotidiani. Vogliamo invitarvi ad una riflessione più approfondita e questa è l’occasione per iniziare. Personalmente vi annuncio che  questo saggio mi ha aperto nuovo orizzonti, oltre a chiarirmi i precedenti. Vi consiglio una lettura lenta e riflessiva. C’è da scoprire un altro mondo e da rovesciare il vecchio. Buona lettura. (G.P.)

PREMESSA

 

Torno un po’ alla teoria perché la sordità a tal proposito mi sembra piuttosto scoraggiante. Tanto più che in genere i saggi teorici li raccolgo poi in un libro e penso che una certa quantità di persone, più di quelle che leggono simili saggi in C&S, ne prenderà visione. Non c’è detto più ghiozzo e ignorante del “val più la pratica che la grammatica”. Senza grammatica (e sintassi) non si esprime nulla, salvo suoni gutturali per quanto mi riguarda incomprensibili.

Lo stimolo a quanto segue mi viene dalla lettura di questi ultimi mesi dedicata ad alcuni “classici” marxisti del secondo dopoguerra. Sono rimasto piuttosto sorpreso nel constatare che non avevano chiara la teoria del valore marxiana, pur magari sostenendo che era superata; considerare superato ciò che nemmeno si conosce tanto bene è ovviamente atteggiamento assai superficiale, per non dir di peggio. E’ assurdo, a mio parere, blaterare – e anche di scienza – se prima non si afferra il fulcro della teoria marxiana della formazione sociale. Poi c’erano gli “ortodossi”, che invece la sapevano (e anche bene) ma l’avevano irrigidita in canoni di tipo ecclesiastico. Mancava proprio l’atteggiamento a mio avviso corretto; conoscere adeguatamente il punto di partenza, ma sapere che da questo si è preso l’avvio centocinquanta anni fa; magari qualche metro di viaggio si dovrebbe essere percorso in tanto tempo.

Colombo, partendo da Palos, conosceva bene il suo porto di partenza. Invece di aggirarvisi come un tontolone andando in giro per taverne e osterie, scelse una direzione ben precisa e salpò pensando di andare alle Indie. In realtà scoperse qualcosa di inaspettato e sconosciuto, che dovette esplorare; e così pure molti altri dopo di lui. Pensate un po’ se, colpito da Alzheimer (allora malattia sconosciuta), avesse perso il senso di dove si trovava già al momento della partenza. Avrebbe levato le ancore, avrebbe preso una direzione che pensava precisa, ma che invece era anch’essa a casaccio una volta che tutto all’intorno gli fosse apparso impreciso e confuso. Chi sa dove sarebbe arrivato; dubito alle Americhe.

Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare ancora attestati “alla fonda” dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi di partenza, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale direzione effettiva si è presa; si può consultare la bussola quanto si vuole, ma se anche gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito.

 

UNA PRIMA POSIZIONE DEL PROBLEMA

 

1. “Le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale. In questa dimenticanza consiste, per esempio, tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l’eternità e armonia dei rapporti sociali esistenti. Essi spiegano che nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; né senza lavoro passato e accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano del selvaggio. Il capitale è tra l’altro uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato. Quindi, il capitale è un rapporto naturale eterno, universale; a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che, solo, fa di uno ‘strumento di produzione’, di un ‘lavoro accumulato’, un capitale” (Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica, uscito nel 1859 con una Prefazione, assai più schematica, da me analizzata nei Due passi in Marx, Il Poligrafo, 2010).

Quell’“elemento specifico” è appunto il rapporto sociale di produzione di forma capitalistica, affermatosi storicamente, di fatto, nella trasformazione dei rapporti feudali in una parte d’Europa e che trovarono, all’epoca di Marx, la loro più compiuta espressione in Inghilterra con la “Rivoluzione industriale” (la prima), lungo processo che può grosso modo essere datato 1760-70/1830-40. Periodo in cui, dopo millenni di storia dell’umanità, fu rovesciato il rapporto tra soggetto (l’uomo lavoratore) e il mezzo di lavoro. Niente più lo strumento come semplice prolungamento della mano, guidato dal cervello progettante le diverse sequenze del processo lavorativo conducente al prodotto finito e utile a soddisfare un qualche bisogno del vivere in società. Queste sequenze sono ormai compiute da strumenti semplici affinati per singole operazioni specifiche, inseriti in una macchina e mossi in modo coordinato, con precisione ineguagliabile, da un organo di trasmissione collegato ad un motore alimentato da energia (in genere non più umana). L’uomo sorveglia le macchine e le serve nel loro movimento che è studiato altrove, da altri cervelli rispetto a quelli di chi le sorveglia e serve.

Il capitale non è né lo strumento usato nella manifattura (dell’epoca capitalistica) – industria che si basa sulla prosecuzione e sviluppo dell’artigianato, solo con ingrandimento dell’opificio e progressiva spinta divisione tecnica del lavoro che specializza lavoratori e strumenti – né il successivo sistema di macchine, mosse da energia “naturale”, dell’industria meccanica vera e propria. “Il capitale non è cosa, ma rapporto sociale”, disse Marx. Quest’affermazione sembrava sufficiente nella fase storica in cui la scrisse (condita da migliaia di pagine di analisi di simile rapporto!), poiché l’obiettivo della polemica erano gli “economisti moderni” ricordati anche nel passo appena citato. Marx non poteva immaginare che “marxisti degeneri” si sarebbero serviti della sua tesi decisiva (“il capitale è un rapporto sociale”) per svisarla completamente.

Se il capitale fosse cosa, il luogo precipuo della sua analisi sarebbe nel processo di produzione (in senso stretto), in cui tali cose (i mezzi produttivi) vengono impiegati e mossi dall’attività lavorativa; da qui è in fondo partita, per quel che riguarda l’aspetto produttivo, la teoria neoclassica (non “economia volgare” come certi superficiali hanno interpretato, assimilandola alle prime formulazioni delle tesi basate sul valore dei beni correlato alla loro utilità), che analizza la combinazione dei fattori produttivi (soggetto, mezzo, oggetto, ecc. di produzione) attuata da un soggetto coordinatore e dirigente del processo. Se invece il capitale è rapporto sociale, allora è necessario capire come si è formato; il processo di formazione di quel rapporto, che è il capitale (insomma, il rapporto di forma denominata ormai per uso corrente capitalistica), diventa l’oggetto centrale e primario dell’analisi, dell’indagine scientifica.

Nel mirabile Capitolo VI inedito (che Marx tolse dall’edizione del I libro de Il Capitale, l’unico da lui pubblicato nel 1867, e che quindi è l’ultima grande opera scientifica da lui elaborata; l’infinita serie degli inediti usciti per circa un secolo a partire dalla sua morte è stata scritta precedentemente e il grande pensatore ritenne evidentemente insoddisfacente la loro stesura provvisoria) il processo venne seguito, nei suoi grandi balzi, con atteggiamento più teorico che storico, ma non trascurandone nemmeno la storia, sia pure per schizzo. Si formulò il concetto di sottomissione formale del lavoro al capitale (con correlata principale forma assoluta del pluslavoro/plusvalore) seguita poi, grazie alla spinta divisione tecnica del processo lavorativo, dalla sottomissione reale, in cui ha centralità la forma relativa di detto plusvalore.

Le forme assoluta e/o relativa si riferiscono pur sempre allo sfruttamento, che in Marx non è nulla più che la quantità di pluslavoro/plusvalore ottenuta. Tali forme sono dunque in corrispondenza con quelle, formale e reale, della sottomissione (del lavoro al capitale), implicanti la preliminare costituzione di tale rapporto sociale di sottomissione. Le forme della sottomissione (correlative a quelle del plusvalore) rappresentano l’aspetto della variazione del rapporto sociale (che è il capitale), e dunque della quantità del pluslavoro estratto come plusvalore. Prima della variazione deve però esistere l’oggetto che varia: esistenza consentita dalla formazione del rapporto capitalistico. Guai trattare insieme l’oggetto e la sua variazione (movimento), facendo un’indebita commistione tra di essi, fenomeni invece da distinguere, dal punto di vista logico, in un prima e in un poi. Mi permetto di avanzare l’ipotesi (incerta, per carità) che Marx abbia eliminato il capitolo dalla pubblicazione, intuendo il pericolo della commistione e quindi la possibilità che qualche (debole) marxista (tanti nel secondo dopoguerra del secolo scorso) pensasse la centralità dello sfruttamento capitalistico nel pieno del processo produttivo in senso stretto (lavorativo). Quest’ultimo realizza (attua) lo sfruttamento; e certamente lo realizza facendone variare la quantità in base alle sue forme assoluta o relativa. Tuttavia, non dà vita allo sfruttamento (estrazione di pluslavoro) nella sua specificità capitalistica, che dipende dalla formazione storica di un determinato rapporto sociale.

Obietterà qualcuno: ma la realizzazione dello sfruttamento (pluslavoro/plusvalore) non è quella che avviene dopo il passaggio per la produzione, quando l’oggetto prodotto è venduto nel mercato? Qui si realizzano in realtà quelle diverse parti del plusvalore, contenute nelle merci prodotte, che sono il profitto e la rendita, con semmai l’ulteriore specificazione dei diversi ambiti in cui il profitto si distribuisce (industria, commercio, banca, ecc.). Se il capitalismo è una formazione sociale che tanto “inganna” e maschera lo sfruttamento, se esso quindi resiste nel tempo (qui resto sempre a Marx, sia chiaro, non sono salpato dal suo “porto”), è perché lo sfruttamento è nascosto dall’equivalenza nello scambio di merci (che vedremo meglio più sotto): denaro (che esprime la capacità d’acquisto del capitalista di tutti i “fattori” produttivi) contro forza lavoro, venduta liberamente dal suo possessore, senza costrizione servile alla prestazione lavorativa. Ovviamente, ben sapendo che – se il lavoratore non vende questa sua merce (allora soltanto “liberamente”, tra virgolette) – non sa in che altro modo vivere.

La specificità del capitalismo è quindi appunto la costituzione storica di un rapporto ben preciso, costituzione che implica la liberazione da ogni servitù con contemporanea netta separazione tra possesso dei mezzi produttivi e possesso di semplice capacità di lavorare. Se il lavoratore è separato dai mezzi di estrinsecazione di tale capacità insita nella sua corporeità (mente, muscoli, mani, ecc.), e tuttavia è lasciato libero di scegliere che cosa meglio gli aggrada (morire di fame o “guadagnarsi da vivere”), non può svilupparsi altro che la libera – non subito, ma la grandezza di Marx è di aver individuato lo sfruttamento prescindendo dagli “attriti” ancora esistenti – contrattazione tra capitale e forza lavoro. Insomma, si è dovuta formare la massa del lavoro salariato: questo il movimento (storico) di instaurazione del rapporto sociale che è il capitale, secondo la definizione di Marx.

 

2. Ulteriore obiezione, che potrebbe essere sollevata dagli “operaisti” (grundrissisti e non marxisti) e dal “secondo” Althusser, anche lui stordito dal ’68 e dalla Rivoluzione culturale cinese. Forse che la produzione è cosa, e non invece processo? E in tale processo non ci sono rapporti sociali? E per di più, non è questo il processo in cui si realizza (attua) l’estrazione del plusvalore (prima solo potenziale)? In ogni processo di produzione, in qualsiasi formazione sociale storicamente esistita, si realizza lo sfruttamento in quanto pluslavoro (poiché il plusvalore è solo la forma di valore del pluslavoro). Di che vivevano, di grazia, i feudatari o i proprietari di schiavi? Tuttavia, nelle formazioni sociali precapitalistiche il processo di produzione era condotto completamente (salvo alcuni casi storici, rilevanti ma che qui tralasciamo per semplicità) dai lavoratori, sia pure con mezzi di produzione non propri, ma da essi adoperati e organizzati nel loro sistematico processo di utilizzo. Nel processo produttivo capitalistico, il capitalista avrebbe il potere di “comandare” il lavoro (perché nel processo lavorativo esiste la forza lavoro in atto, quindi l’erogazione della sua energia), manovrando a piacimento l’organizzazione d’uso dei mezzi (le tecnologie); questo preteso “comando” sul lavoro sarebbe, per alcuni, il rapporto di capitale.

Nel lavoro a domicilio, in cui il mercante consegnava la materia prima all’artigiano e poi ritirava i prodotti per commercializzarli, il rapporto tra lavoratore e mezzi produttivi era simile a quello precapitalistico. Eppure Marx indica tale fase come ormai aperta transizione verso il rapporto specificamente capitalistico. Quest’ultimo si realizza precisamente nel momento in cui i mezzi (tutti: materia prima e mezzi di lavoro, gli strumenti in un primo tempo) sono separati dal lavoro ormai salariato, cioè “libero” ma obbligato per vivere a contrattare quale merce la sua forza lavoro. Nella manifattura, che all’inizio, come indicato da Marx, è solo una bottega artigiana allargata, il rapporto è già capitalistico. Non ci sono più garzoni, non più produttori legati al mercante (nella figura appena sopra descritta); ci sono capitalisti proprietari di tutti i mezzi che acquistano forza lavoro da lavoratori “liberi” (segnalo ancora le virgolette).

Tuttavia, questi lavoratori possiedono pur sempre, in un primo tempo, il loro mestiere artigianale. Quindi non sono separati dai mezzi di estrinsecazione della loro attività nel corso del processo produttivo in senso stretto; anzi tale affermazione è valida per tutto il periodo della manifattura fino a quando, con il macchinismo indotto dalla rivoluzione industriale, non viene invertito il rapporto tra uomo e mezzo del suo lavoro. Tuttavia, fin dall’inizio della manifattura (solo una bottega artigianale allargata come dice Marx) siamo in pieno rapporto capitalistico. Se questo è sociale, deve essere un rapporto tra “soggetti umani”, sia pure personificazione, soggettivazione, dello stesso, costituitosi in un processo storico indipendente dalla loro volontà. Questo rapporto sociale (che è il capitale) corre tra il possessore dei mezzi produttivi e il possessore della forza lavoro, libero da costrizioni servili e dunque obbligato, per vivere, a vendere questa sua capacità come merce (al suo valore di merce), che allora contiene già in sé la potenzialità del pluslavoro/plusvalore (lo vedremo in dettaglio nella prima parte).

Tale rapporto di scambio viene prima di ogni trasformazione del processo lavorativo, in cui poi variano le forme (assoluta e/o relativa) del pluslavoro divenuto plusvalore. Anzi, è solo questo rapporto – che implica il successivo impiego della forza lavoro da parte del possessore dei mezzi al fine di realizzare la potenzialità del pluslavoro/plusvalore – a dare vita a quel processo di produzione in senso stretto che ha percorso la via del progresso tecnico e della divisione tecnica del lavoro; il cui fine non è sottomettere il lavoro al proprio comando (sciocchezza sesquipedale di intellettuali “innamorati della lotta per la lotta”, veri soreliani minori, anzi miserrimi), ma battere i concorrenti capitalisti. In effetti, essendoci la libertà dello scambio di merci – quindi la libera scelta di che cosa acquistare e di che cosa vendere e quindi (prima) produrre – chi produce a minor costo ha possibilità di sconfiggere ed espellere dal mercato i competitori. Qui sta il fulcro del processo di passaggio dalla sottomissione formale a quella reale del lavoro al capitale, dalla forma assoluta a quella relativa del plusvalore.

Quando Marx, non potendo ovviamente prevedere l’avvento di “marxisti” come gli “operaisti” ed un “certo” Althusser, scriveva che il capitale non è cosa ma rapporto, manco per niente intendeva riferirsi al processo di produzione, in quanto lavorativo, e ai rapporti che al suo interno si formano e che sono rappresentati da un crescente conglomerato di mansioni e ruoli particolari in più o meno sistematico, ma complicato, intreccio. Innanzitutto, questo complicato intreccio di ruoli e funzioni è creato dalla divisione (detta) tecnica del lavoro, con sue periodiche riorganizzazioni; e tale divisione non è tanto frutto della presunta “lotta di classe”, bensì della concorrenza intercapitalistica tesa a vincere nel mercato mediante abbassamento dei costi e prezzi. Siamo arrivati alle assurdità trontiane che il Capitale mutava questa divisione come risposta al Lavoro in lotta. Una “pensata” da intellettuale, che eseguiva una curva a sinistra talmente stretta e rapida da provocare gravi sbandamenti. Il lavoro, semmai, si è sempre difeso contro certi mutamenti; ma ha ripetuto in continuazione l’attestazione e resistenza in trincee superate del processo lavorativo, solo frenando provvisoriamente il “progresso”, che è comunque sempre andato bellamente avanti, nel lungo periodo, rendendo obsolete tali lotte (di retroguardia) proprio come superò alla fine gli ostacoli luddisti.

In ogni caso, Marx non si riferiva, quale primo passo teorico, a quanto avveniva dentro il processo lavorativo. E questo nonostante non abbia avuto il concetto di impresa, bensì solo quello di fabbrica, in cui si andava, secondo lui, costituendo una larga massa di operai in piena sottomissione reale. Tuttavia, era conscio del pericolo di fraintendimento ed insistette, nell’ultimo scritto veramente teorico, le Glosse a Wagner, che il soggetto (nel senso del sub-giacente, quindi diciamo pure l’oggetto) della sua analisi era la merce; di conseguenza non il processo lavorativo, ma lo scambio. E qui si potrebbe inserire un altro banalone e sostenere che allora Marx è stato veramente l’anticipatore della “globalizzazione” odierna. Difendersi contro tutti gli sciocchi non è facile. Chi non vuol pensare, non penserà mai comunque!

Il rapporto di scambio decisivo nella formazione sociale a modo di produzione (sociale, non semplicemente lavorativo come potrebbe pensare un sindacalista) è quello tra capitale e forza lavoro, scambio che vede come “soggetti” (ma proprio soggetti a questo loro rapporto storicamente costituitosi) il possessore dei mezzi produttivi e il possessore (liberato da costrizioni servili) di forza lavoro, obbligato quindi a venderla come merce in libera (e questa volta senza virgolette) contrattazione. In simili condizioni di libertà contrattuale, soltanto, si ha lo scambio di questa merce particolare al suo valore/lavoro (con prezzo oscillante attorno ad esso) in ogni dato periodo storico dello sviluppo capitalistico.

Non le tante mansioni e ruoli formatisi nell’organizzazione dei processi produttivi (in quanto lavorativi) contano, bensì questo rapporto interno alla produzione sociale complessivamente considerata, ma logicamente antecedente e dunque esterno a quello di lavoro. E’ questo rapporto – tra due “soggetti” (raggruppati in classi sociali), di cui l’uno possiede i mezzi produttivi e l’altro la forza lavoro (possesso separatosi dal precedente) – a caratterizzare la formazione sociale capitalistica, nel cui ambito viene resa possibile la riunione, nella produzione effettiva, di questi due “soggetti” solo mediante lo scambio della speciale merce forza lavoro. Scambio (in media) di equivalenti, corrispondente alla libertà contrattuale, in cui è già potenzialmente inscritto il pluslavoro (che prende la forma del valore).

Fu quindi sbagliato pensare – come fecero gli althusseriani, fra i quali il sottoscritto per un paio di decenni – che Marx avrebbe fatto meglio ad iniziare Il Capitale non dalla merce, bensì dalla terza Sezione (“La produzione del plusvalore assoluto”) o addirittura dalla quarta (“La produzione del plusvalore relativo”). Semmai, si sarebbe potuto sostenere l’utilità di premettere a tutta l’analisi del modo di produzione capitalistico il cap. XXIV, quello che tratteggiava il processo della “cosiddetta accumulazione originaria”, processo storico di formazione del rapporto sociale nella sua forma capitalistica – liberazione del produttore da legami servili e sua separazione dai mezzi di applicazione della forza lavoro – del tutto decisivo per poi analizzare gli sviluppi della nuova forma dello sfruttamento (pluslavoro). Tuttavia, si sarebbe fatta confusione continua tra la costituzione storica del rapporto, nei suoi empirico-concreti svolgimenti, e le mosse dell’indagine scientifica del modo di produzione (sociale, non semplicemente lavorativo) capitalistico, indagine che procede per astrazione teorica, generalizzante e semplificatoria, mentre la storia cerca di inseguire le mutevoli particolarità.

 

3. Sia come sia, non importa stare a discutere oggi la scelta di Marx nella disposizione del suo materiale (soprattutto teorico, con alcune esemplificazioni storiche). Il decisivo è afferrare bene qual è l’effettivo rapporto sociale, di cui Marx parla quando afferma: “il capitale non è cosa ma rapporto”. Non si riferisce ai mezzi produttivi in quanto tali, ma nemmeno al processo produttivo in senso stretto in cui essi vengono impiegati. Centrale, per iniziare ogni analisi del capitale seguendo i percorsi marxiani, è il rapporto del lavoro salariato, il rapporto della separazione dei mezzi dalla forza lavoro che vi si applica; una separazione che, data la liberazione dalle costrizioni servili, è colmata solo tramite il rapporto di scambio intercorrente tra chi possiede i mezzi e chi la sola forza lavoro, un rapporto tra equivalenti che cela la diseguaglianza insita nella proprietà dei mezzi, e fa apparire eguali (per diritto) tutti i membri della società moderna.

Simile chiarezza circa il rapporto sociale, che è il capitale, è indispensabile per espellere dall’orizzonte teorico marxiano (il “porto di partenza”) un’altra deviazione, apparsa in un ormai lontano dibattito sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo, in cui le due tesi fondamentali a confronto erano quelle di Paul M. Sweezy e di Maurice Dobb. Gli altri apportarono ulteriori specificazioni a tali tesi, ma le due in oggetto furono espresse più chiaramente dai suddetti autori. Sweezy, di origine keynesiana e influenzato da storici come Pirenne (io non escluderei nemmeno Polanyi), sostenne che il feudalesimo fu dissolto dallo sviluppo dei commerci. Ci si ricordi che a lungo essi furono quelli su grandi distanze ed interessarono una parte minima di quanto era prodotto per la vita di comunità assai locali (che erano in genere quelle dei feudi, i cui rapporti interni erano da “padrone a servo”), e separate fra loro, che vivevano in condizioni di sostanziale auto-sussistenza.

Marx sostenne che lo sviluppo del commercio, e dunque l’affermarsi di una borghesia mercantile che conquistò anche posizioni di supremazia sociale, era stata soltanto una iniziale fase di transizione, presto abortita con infeudamento di tale classe tramite matrimoni con nobili e acquisto di terre, ecc. A parte la discussione intorno ai concreti processi storici di trapasso da una forma societaria all’altra, dal punto di vista teorico dare importanza al commercio significa affermare la predominanza della forma merce tout court. In tema di rapporti sociali, il rapporto che è il capitale diventa quindi quello dell’interscambio mercantile, M-M, naturalmente con l’intermediazione del denaro, M-D-M. Uno scambio che, in media, avviene per equivalenti. Salvo pensare ai primi commerci su grandi distanze, in cui poteva verificarsi un acquisto a basso prezzo – data anche l’inesistenza di confronti mercantili generalizzati – e una vendita ad altro prezzo, ben più che sufficiente a coprire i costi di trasporto e i rischi, lasciando margini elevati di profitto. Non siamo però nelle condizioni di un mercato capitalistico.

Anche ammesso che una certa accumulazione mercantile di capitale – da intendersi però come semplici somme di denaro guadagnate nei commerci, quindi come cosa e non rapporto – abbia immesso un “germe” di futuri sviluppi capitalistici, è evidente che non è qui il rapporto di capitale per eccellenza. Il capitalismo è una società, in cui ciò che appare in piena evidenza è la liberazione da vincoli servili e una intensificazione tale dello scambio di merci che ormai non esiste più alcuna possibilità di auto-sussistenza per nessuna comunità; salvo quelle residuali e sempre più emarginate. Non esiste forma di società, altra rispetto al capitale, che abbia saputo resistergli; è stata generalmente spazzata via o, appunto, relegata ad un’esistenza del tutto marginale. Di fatto, tutti vivono di scambio mercantile; e tutti devono avere una qualche merce da scambiare per procurarsi quanto necessario alla vita. Anche se sono sussistiti a lungo, e ancora sussistono, fasce di popolazione mondiale che non si possono considerare libere, pensare lo sviluppo capitalistico come semplice frutto di uno sfruttamento di tali fasce è stato, ed ancora è (pur se ormai in misura irrisoria), un errore che conduce ad un vicolo cieco nell’analisi di questa formazione sociale.

Marx non commise un simile errore ed in questo consiste la sua grandezza e la sua modernità. Personalmente insisto sulla necessità di allontanarsi da una certa sua impostazione, di valutare fino in fondo, sia pure con “il senno di poi”, l’errore che commise e che lo condusse a previsioni non mai realizzatesi. Sia però chiaro che l’errore in questione non riguarda per nulla le sue affermazioni sottoposte a critica dalla scienza dominante (dei dominanti), che ne ha commessi di ben maggiori e che non è proprio in grado di capire l’impostazione di fondo del pensiero marxiano. Grave è però che nemmeno sedicenti marxisti, pensatori convinti di poterlo “aggiornare”, abbiano in realtà afferrato il suo effettivo punto di partenza. Marx parte dal presupposto, per quanto difficilmente esistente al suo “stato puro” e mai privo di imperfezioni e scostamenti, che lo scambio di merci sia perfettamente libero nella sua contrattazione e che quindi, sia pure attraverso continue oscillazioni, esso avvenga nella forma dell’equivalenza in valore fra le merci scambiate.

Se i possessori di merci sono perfettamente liberi nello scambiarsele, e se quindi l’effettivo rapporto di scambio tra di esse oscilla, ora in più ora in meno, rispetto alla parità dei loro valori, nessuno può avvantaggiarsi a senso unico in tale scambio; qualcuno perde e qualcuno guadagna in un gioco a somma zero. E chi guadagna oggi può perdere domani; nel lungo periodo – proprio come quando si getta in aria una moneta un numero n di volte, con n assai grande – tutti i soggetti scambisti restano più o meno su di un piede di parità, nessuno guadagna in modo permanente. Un conto, lo ripeto, è quanto può avvenire in un commercio tra comunità complessivamente auto-sufficienti – organizzato da gruppi di mercanti esistenti negli interstizi tra le une e le altre (e magari su lunghe distanze) – un altro è ciò che si verifica in un mercato generalizzato, quando nessuno può vivere se non scambiando una qualche merce per entrare in possesso delle altre, in regime di libertà contrattuale e del conseguente scambio di equivalenti.

Il profitto è però un guadagno permanente di una data classe di scambisti, i possessori di quelle merci che sono mezzi produttivi. Essi devono dunque trovare nel mercato una merce che abbia un valore, in base al quale avvenga mediamente la sua compravendita, ma ne contenga potenzialmente uno superiore, che si manifesta (si attualizza) nel suo uso. E questa merce è la forza lavoro. Se è stato gravemente sbagliato, e ha portato fuori strada molti marxisti, sostenere che non bisogna iniziare la lettura de Il Capitale dalla merce, o per meglio dire dall’intera prima sezione (“Merce e denaro”, tre capitoli), è altrettanto vero che la parte cruciale – da leggere dopo, proprio seguendo l’ordine di esposizione della massima opera marxiana, ma sulla quale soffermarsi in modo del tutto particolare – è la seconda: “la trasformazione del denaro in capitale” (quarto capitolo).

In definitiva, va detto che, nella sostanza, era Dobb ad avere ragione nel dibattito sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo. Non tanto in base all’indagine “concreta” dei processi storici dell’accumulazione originaria, dove si possono sempre trovare appigli per una tesi o per l’altra. La ragione è precisamente teorica, sta nella “scoperta” della “legge” per via di astrazione (generalizzazione) scientifica. Nella storia, si ha sempre più o meno l’avvicendarsi dell’“uovo e della gallina”, per cui si è indecisi nel decidere la “causa prima” del formarsi di una forma (sociale o biologica). Quando però una data forma si è affermata e stabilizzata – ci si ricordi che l’analisi scientifica viene compiuta sempre post festum, come dice Marx (ma non so quanti altri autori); in ogni caso si legga la parte terza (sul metodo) dell’Introduzione del 1857 – inizia appunto tale analisi che individua un preciso anello, la “causa prima” (a volte un postulato), da cui svolgere l’intera concatenazione logica (e sistematica) relativa alla configurazione (struttura) di quella forma.

Per non appesantire qui il mio scritto, metto in appendice una serie di passi tratti da questa decisiva sezione (da leggersi subito, prima di continuare); decisiva proprio al fine di afferrare qual è il rapporto sociale costitutivo del capitale secondo la concezione marxiana. Questa prima parte del mio testo si fonda, in definitiva, sull’illustrazione di tale concezione, traendone le varie conclusioni possibili e mostrandone la correttezza e congruità. I marxisti “alternativi” ne hanno capito poco e hanno alla fine annientato la reale impostazione marxiana, con fraintendimenti più gravi ancora del suo “errore”, situato in tutt’altro “luogo”. I dogmatici hanno compreso il fulcro del ragionamento marxiano, ma lo “ascoltano” come oracolo, non come formulazione scientifica che mostra sempre nel tempo le sue parti caduche e svianti.

Questo in ogni caso è il porto di partenza, alla cui conoscenza almeno per sommi capi bisogna dedicarsi. Altrimenti si parte a casaccio, senza sapere da dove prende inizio il viaggio né quale rotta si sta prendendo. Proprio questo è stato il grande caos creato nel marxismo da “deboli pensatori” negli anni ’70-’80, preludio al suo affossamento invece di renderlo mezzo per la “scoperta di nuovi continenti”, com’era nell’intento di Leggere il Capitale (1965).

 

PARTE PRIMA

 

LA RICOGNIZIONE DEL PORTO DI PARTENZA

 

1. Mi ripeterò in molti punti, e fin dall’inizio di questa parte, poiché ritengo utile farlo dopo una così lunga assenza dal porto di partenza. Che cos’è lo sfruttamento in Marx? E’ un comportamento del capitalista che si pone con l’operaio (il lavoratore salariato) in reciproca lotta (di classe)? E’ qualcosa che ci si gioca dentro il processo di lavoro, dove l’operaio deve eseguire e il capitalista può comandare in virtù della proprietà (potere di disporre) dei mezzi produttivi? Chi pensa questo non ha capito un bel nulla di Marx, ma nemmeno di che cosa significa fare scienza. Se si studia la “caduta dei gravi” per estrarne la “legge”, non è che ci si mette a discutere nel contempo dei mezzi tramite cui utilizzarla ai propri fini. Per capire l’impiego di una “legge” (non naturale, ma specificamente storico-sociale, nel caso dello “sfruttamento”; e per di più quello capitalistico) è intanto necessario definire le condizioni nel cui ambito essa si manifesta.

La “scoperta” che fa di Marx un grande, comunque lo si utilizzi oggi, è la differenza tra lavoro e forza lavoro. E’ questa scoperta che lo differenzia nettamente dai classici; per cui chi lo considera uno degli economisti classici (che continuavano invece a confondere i due termini e quindi non avrebbero mai nemmeno potuto concepire lo sfruttamento) è tanto superficiale quanto colui che considera marxista chiunque accetti come punto di partenza questa scoperta. La forza lavoro è ciò che esiste in potenza nella corporeità umana (nei muscoli, nervi, cervello); il lavoro è l’attualizzazione, l’estrinsecazione, di tale potenzialità. Marx accetta dei classici l’idea che il lavoro (l’energia che “sprizza” dall’uso della capacità potenziale) è ciò che stabilisce il valore dei prodotti umani. Se questi – attraverso processi storici specifici, da Marx presi in esame soprattutto nella loro modalità inglese dell’epoca, che non esaurisce l’intera gamma della loro possibilità di manifestazione storico-sociale – assumono generalmente la forma della merce, l’idea del loro valore quale lavoro (estrinsecazione della forza lavoro) in essi incorporato fornisce la chiave interpretativa del loro reciproco rapporto di scambio.

Prima dello scambio, quindi, i prodotti – pur divenuti generalmente merci – hanno un valore ben preciso (appunto il lavoro, in quanto energia spesa in un dato tempo dalla forza lavoro per porli in essere). Il rapporto di scambio – che, a causa di altri processi storici specifici, si esprime nella figura del prezzo in denaro, cioè nella merce universalmente accettata nello scambio – non si forma in quest’ultimo se non come variazione continua di questo prezzo, ma intorno ad un “livello medio”, ad un centro di gravità, che è il lavoro incorporato. Questa è la “legge” individuata da Marx; in questo certo seguendo i classici. Si può discutere e criticare tale impostazione, non però seguirla solo in apparenza, facendo invece della “legge” il risultato di una lotta. Senza dubbio esiste la lotta degli scambisti per eliminarsi dal mercato e restare vincitori. La lotta però implica, secondo la concezione chiaramente esplicitata, l’esistenza di un centro di gravità attorno a cui essa si può scatenare. Ovviamente, quest’ultimo non appartiene all’ambito della natura, ma a quello storico-sociale, dove sussiste una temporalità diversa; esso quindi muta in base all’evoluzione delle forme sociali, ma ha pur sempre una sua oggettività indipendente dalla volontà e decisione dei vari singoli individui, perché dipende dall’intreccio delle azioni di questi ultimi stretti fra loro in specifici rapporti.

La lotta, insomma, spiega l’oscillazione dei prezzi intorno al valore (lavoro) dei prodotti-merce, non spiega minimamente questo valore, che è dato in altra sede, è dato quale presupposto rispetto allo scambio mercantile. Appunto, è la “legge di gravità”, che non dipende da eventuali alterazioni ad essa apportate “artificialmente” per certi scopi. Chi confonde il valore – e dunque, in ultima analisi, il prezzo – delle merci con il risultato di una lotta (ad es. tra scambisti) è un semplice empirista, che s’inchina di fronte alla famosa concretezza del “la pratica val più della grammatica”. Si dedichi all’applicazione di determinate tecniche utili per scopi specifici; lasci perdere la scienza che esula proprio dalla sua forma mentis, è qualcosa a lui ostile, refrattaria al suo modo di ragionare.

Ripeto: è lecito criticare una data idea-guida, un concetto fondamentale, che regge una determinata impostazione scientifica. Non è minimamente lecito strapazzare la scienza, la ricerca di “leggi” (che, nella scienza storico-sociale, non hanno magari la stessa valenza e legalità temporale che in quelle naturali), per farne il risultato di una generica “pratica umana”, pratica di applicazione di tecniche per usi particolari. Tanto meno, si possono interpretare come il risultato di una lotta; a meno che non si precisi l’ambito di quest’ultima e, soprattutto, quali “leggi” vigano nel suo condurla, nel suo estrinsecarsi. Il Manuale di Von Clausewitz o il Sun Tzu non sono mere delucidazioni di tecniche peculiari. Malgrado l’apparente specificità delle regole strategiche in contesti diversi, se ne cerca il fondamento “legale”, una certa generalità, attorno a cui avvengono variazioni nel tempo storico (nelle congiunture) della loro applicazione; non però variazioni a piacimento, senza rispetto di quelle date, ma non “cristallizzate”, generalità. L’aspetto “impositivo” della scienza rispetto alla mera pratica umana esiste anche in questo contesto. La singolarità delle situazioni non è posta in irriducibile antitesi con la “legalità”. Altrimenti, è inutile parlare di strategie; si suggerisca ad ogni contendente di agire in base alla pura (e “cervellotica”) spontaneità. Non pensare ma agire: la norma degli scervellati che vediamo in “movimento” in ogni epoca di scatenamento della dissennatezza.

 

2. Ritorniamo quindi allo “sfruttamento” in senso marxiano (non dei “marxisti” da me letti ultimamente). In definitiva, esso è un’operazione “matematica”, di sottrazione. Si parte dal valore del “bene”/merce (tempo del lavoro erogato per produrlo) e gli si sottrae intanto il valore della forza lavoro che è stata impiegata in questa produzione per quel dato tempo. Questa è soltanto un’affermazione iniziale che va almeno minimamente spiegata. Intanto, bisogna capire perché si parla del valore della forza lavoro. Il motivo dipende da un processo storico-sociale che ha condotto dal lavoro (parlando con esattezza: dalla prestazione di lavoro) servile a quella del lavoratore salariato. Quest’ultimo deve essere stato (o deve essersi) liberato dai condizionamenti servili. Il salario è appunto un prezzo ed implica quindi la presenza di uno scambio di merci. Ma quest’ultimo deve avvenire in un libero mercanteggiamento, in una contrattazione tra due soggetti che si scambiano una “cosa” senza essere obbligati da alcunché a cederla ad un dato prezzo; deve trattarsi di una contrattazione “alla pari”, senza costrizione esercitata su nessuno dei due contraenti.

Innanzitutto, la “cosa” trattata qui come merce di scambio, oggetto di una contrattazione mirata a stabilirne il prezzo, è appunto la forza lavoro, la capacità di un uomo di erogare energia lavorativa (manuale e intellettuale) insita nella sua corporeità. Se deve venderla alla stessa guisa di una merce, due sono le condizioni essenziali: a) che non abbia altro da offrire per poi procurarsi quanto gli è necessario per vivere, tenuto conto che si tratta del vivere in una data società; b) deve essere libero nella vendita di questa particolare merce (che non si può staccare dalla sua persona), senza essere obbligato a cederla a condizioni non contrattate ma stabilite da qualcun altro, ad esempio l’acquirente o un suo “rappresentante” munito di forza (di fatto lo Stato).

Evidentemente, ci deve essere una condizione preliminare. La società non deve essere una sommatoria di tanti Robinson, ognuno dei quali impiega propri mezzi di produzione cui applica la propria capacità lavorativa ottenendo dei prodotti con cui vivere. Lo sviluppo della società e del suo livello di vita (medio) deve essere tale che nessuno potrebbe produrre da solo tutti i beni necessari per vivere nel suo “splendido isolamento”. E’ indispensabile dedicarsi alla produzione di uno o pochi beni e scambiarli reciprocamente con quelli (diversi) di molti altri. Ognuno diverrebbe un piccolo produttore di beni da scambiare, cioè di merci. Mai è esistita una società costituita in prevalenza da simile struttura produttiva (mercantile generalizzata); e non entrerò adesso qui nella spiegazione di simile “fatto”, che aprirebbe tutto il mondo delle forme sociali precapitalistiche. Prendiamo atto che la vera società mercantile generalizzata è quella capitalistica. In essa esiste però una preliminare condizione sociale (condizione di un rapporto sociale decisivo per il funzionamento complessivo di tale forma societaria) ben precisa: deve esserci separazione netta tra chi ha i mezzi produttivi e chi presta il lavoro nei vari processi produttivi. Tale separazione non deve tuttavia comportare servitù alcuna di chi presta il lavoro nei confronti di chi può utilizzarlo avendo il possesso dei mezzi di produzione.

Questa condizione preliminare si realizza appunto con il capitalismo, forma sociale in cui i possessori dei mezzi si fregiano del gran merito di aver liberato i prestatori di lavoro (nel processo di produzione) da ogni condizione servile, di averli resi eguali e liberi alla guisa di ogni altro membro della società; per cui essi sono allora in grado di trattare la forza lavorativa esistente nella loro corporeità come una loro esclusiva proprietà che possono, ma solo se vogliono e senza quindi alcuna costrizione (salvo quella di non sapere poi come vivere), vendere in un mercato particolare: quello, appunto, della forza lavoro.

La tesi della “mano invisibile” (Adam Smith) va calata in tale contesto storico, in cui esisteva ancora uno Stato e condizioni sociali e politiche, in cui erano più che visibili e operanti condizioni di non ancora eliminata costrizione al lavoro; esistevano vestigia, per quanto già sbrecciate, dell’antica servitù. In questo senso l’antistatalismo smithiano non va confuso con la successiva ossessione dei liberisti. Siamo ancora in fase di abbattimento dei residui, non proprio deboli, del vecchio regime (modo di produzione) feudale. Siamo in “rivoluzione”, non in pieno conservatorismo reazionario così come praticato dai liberisti odierni.

 

3. Intanto notiamo subito la confusione mentale di coloro che hanno preso le considerazioni di Marx sul feticismo della merce come si trattasse dell’alienazione umana. Con la merce, l’uomo non produrrebbe più per estrinsecare le sue capacità, la sua creatività, originalità, ecc.; sarebbe invece obbligato a seguire le costrizioni tipiche della produzione mercantile. Intanto quest’ultima, essendo basata sulla libera competizione, non è affatto detto che debba mortificare, se considerata in se stessa, la creatività e inventività dei produttori; anzi si dovrebbe supporre più spesso il contrario. La mortificazione dell’uomo alienato nella merce che produce è in realtà quella dell’intellettuale, autentico opportunista venduto al potere, che scrive e “produce” le sue idee per rispondere all’esigenza di chi lo paga affinché le esprima in modo confacente alla sua (di chi paga) egemonia. Certamente, questo intellettuale non considera più simili idee come proprie. Avendo accettato di acquisire la qualifica dell’intellettuale solo per potersi arricchire scrivendo, e non impiegando né braccia né mente in un lavoro produttivo, egli pensa che ogni produttore di merci, intento a battere i concorrenti, sia paragonabile a lui che sta svendendo il proprio cervello solo per non faticare come gli altri. Non quindi per produrre idee di critica, eventualmente utili a chi è dedito al duro lavoro, ma solo per ingraziarsi i “liberatori” (del lavoro, così adesso è salariato e non più servile) affinché lo remunerino bene per essere incensati nella loro condizione di capitalisti inetti, puri parassiti di una società intera, poiché sono questi settori capitalistici a pagare gli intellettuali opportunisti.

Vi è di più. La società in cui la merce diventa forma generale del prodotto lavorativo umano è quella in cui si è prodotta la separazione tra chi possiede i mezzi produttivi e chi fornisce – liberamente, vendendola a somiglianza di ogni altra merce – la propria forza lavorativa. Non c’entra l’alienazione della propria personalità di lavoratore in qualcosa che, in quanto merce, si estranea da lui e gli si erge contro come un alter ego nemico. Lasciamo perdere questi cerebralismi d’accatto di chi è ripiegato sulla propria egocentrica insoddisfazione. Qui esiste una libertà di superficie, che è garantita; e con ciò è garantito un ambito più o meno ampio, ma mai inessenziale, di scelta. Il problema è che ci si deve decidere, per vivere, a vendere la capacità lavorativa (non la propria personalità, i propri ideali, ecc. come semmai fa l’intellettuale servo del potere) a chi ha i mezzi produttivi per mettere in atto i processi da cui escono i prodotti utili a quel determinato tipo storico di vivere sociale. E in questa vendita, proprio per la libera contrattazione insita nelle condizioni del mercato, la forza lavoro riceve, in media, il valore che è quello proprio di ogni merce.

Ci si deve chiedere se è realistico supporre questa contrattazione libera da ogni impedimento, da ogni costrizione. Difficile immaginare qualcosa di simile; non più però che immaginare sulla Terra la caduta di un “grave” nel vuoto assoluto, in assenza di qualsiasi attrito pur minimo. Eppure tale caduta, in base alla sola legge di gravità e in assenza di ogni attrito, è supposta, altrimenti mai si stabilirebbe il valore della forza di gravità stessa. Marx non ha mai pensato, soprattutto nell’epoca in cui viveva, che tra i due contraenti, capitalista e salariato, vi fosse perfetta parità. Tuttavia, con lo sviluppo del sindacalismo si è in seguito arrivati a condizioni in cui può essere il secondo, e non tanto raramente, in condizioni di vantaggio quanto a rapporti di forza: nel semplice mercato della forza lavoro, però, mai nelle condizioni di possesso dei mezzi produttivi. Per inciso, anche quando questi ultimi – tramite una rivoluzione che ha comunque fatto epoca e “cambiato il mondo” – sono stati avocati nel loro complesso allo Stato, il potere di decisione, controllo, orientamento produttivo, ecc. non sono spettati ai possessori di forza lavoro, rimasti meri venditori di una loro “proprietà” (la forza lavoro). Spesso nemmeno venditori liberi, ma obbligati a date condizioni da chi deteneva il potere nello Stato e negli organismi di esercizio dello stesso.

Un’ultima precisazione. Il lavoro salariato – che è semplicemente la vendita della forza lavoro in qualità di merce – avviene con pagamento in denaro; esso ha quindi un prezzo. Lasciando adesso le discussioni sulle varie funzioni del denaro, è ovvio che, con riferimento alla compravendita di merci, esso funziona da intermediario nello scambio; è come se quest’ultimo avvenisse tra merci, solo con una simile mediazione. Il salario reale è in effetti quello espresso in termini di potere d’acquisto di dati pacchetti di merci per vivere (nell’ambito di un dato assetto dei rapporti sociali). Lo scambio va supposto, come la “legge” di gravità, in assenza di attriti. Uno scambio senza “attriti” (che sempre invece ci sono) avviene nella forma della reciproca cessione di prodotti di pari valore (lavoro incorporato secondo l’ipotesi marxiana, in ciò seguendo senz’altro i classici): la forza lavoro contro un pacchetto di altre merci (quelle acquistabili con il salario), però tramite uso di denaro (in definitiva nelle sue diverse figure monetarie). Come dice Marx, la “regola” (lo scambio di equivalenti) si afferma però attraverso una successione di “sregolatezze”, di continui scostamenti dall’equivalenza.

Del resto, è come la media statistica. Se si butta in aria cento volte una moneta, la regola ci dice che dovrebbe uscire cinquanta volte la testa e cinquanta la croce. Si effettuino cento gruppi di cento lanci; è problematico che se ne verifichi uno con cinquanta e cinquanta. Eppure questa è la regola. Il vettore di composizione delle forze non è, salvo che casualmente, nessuna delle forze in campo; però ha i suoi precisi ed inequivocabili effetti, e sono questi ad essere presi in considerazione alla fine. Il trend di una curva sinusoidale è in pochissimi momenti della stessa inclinazione di quest’ultima; eppure, se si deve valutare l’evoluzione di un processo per lunghi periodi al fine di trarne conclusioni storiche meno effimere e contingenti, si considera il primo più ancora dell’andamento a serpentina della seconda.

 

4. Arriviamo adesso al clou del problema. La forza lavoro viene venduta, in media, al suo valore. Il salario reale (che esprime il pacchetto di merci acquistabili) non è altro, in ipotesi marxiana, che il lavoro incorporato in questo insieme di merci (il lavoro erogato dalla forza lavoro per produrle), cioè il loro valore. Tale salario, in realtà, oscilla continuamente attorno al valore della forza lavoro acquistata come merce; è insomma la “sregolatezza”, legata ad attriti vari (fra cui la lotta sindacale), ma oscillante intorno alla “regola” rappresentata da quell’in media, che ha validità per determinati periodi storici, elevandosi tendenzialmente di periodo in periodo. Marx, infatti, mai sostenne l’esistenza di un valore medio della forza lavoro – quello attorno a cui oscillano gli effettivi salari reali – immutabile, sempre eguale ad un livello di sussistenza quasi biologica. Egli distinse invece sempre una componente storico-sociale nel valore della forza lavoro, componente appunto in aumento come trend. Si vedano le polemiche con il “cittadino Weston” in Salario, prezzo e profitto e numerose altre affermazioni disseminate nelle sue opere.

A questo punto, il problema dello “sfruttamento” (come “sottrazione”) diviene un gioco da bambini; chissà perché ignorato da fior di “marxisti”. La forza lavoro, “libera” (supponendo teoricamente l’assenza di “attriti”, pur sapendo che essi sempre ci sono), ha un determinato valore (medio), che è il lavoro incorporato ecc. ecc.; mi auguro che a questo punto il lettore sappia proseguire. Immessa nel processo produttivo, essa eroga però un (tempo di) lavoro maggiore di quello che rappresenta il suo valore di merce (quindi d’acquisto nella “superficie mercantile”); questa “maggiorazione” è il pluslavoro, che in ambito generalmente mercantile si esprime come valore (il pluslavoro incorporato nelle merci prodotte diventa quindi plusvalore). Esso – nella sua figura fenomenica, in quanto realizzazione raggiunta con la vendita dei prodotti nel mercato – è il profitto capitalistico; lasciando perdere in questa sede la rendita, e la suddivisione del profitto nei vari settori in cui si distribuisce (industria, commercio, banca, ecc.), tenendo conto che solo di distribuzione si tratta perché il plusvalore (pluslavoro) non si forma certo nel commercio e nella banca (commercio di denaro). Se nemmeno questo problema risulta chiaro, non so che farci; non posso qui mettermi a spiegare per filo e per segno per quale motivo il commercio (di prodotti e di denaro) – attenendo al puro livello dello scambio mercantile, che è scambio di equivalenti – non è in grado di creare alcun “surplus”, poiché si tratterebbe di una contraddizione in termini.

Lasciamo anche perdere tutte le complicazioni introdotte dalla valutazione del lavoro complesso e semplice (e dalla traduzione del primo nel secondo), dalla cosiddetta trasformazione, ecc. Qui non c’interessa la perfezione o meno dell’aspetto quantitativo (matematico) del problema, bensì il suo significato più generale. Innanzitutto la merce ha un valore già presupposto (il lavoro incorporato), che giustifica il suo prezzo; e non viceversa. Quindi, pure il profitto ha come presupposto il plusvalore (pluslavoro incorporato); non si forma nel mercato di vendita dei prodotti per abilità del venditore, per la sua forza o astuzia, per imposizione sull’acquirente. E nemmeno certamente – ricordando che il venditore dei prodotti, in un sistema di generalizzazione della loro forma di merce, è il capitalista giacché esiste la dissimmetria tra possesso dei mezzi di produzione e possesso di sola forza lavoro – il profitto nasce dall’imposizione esercitata dall’acquirente di quest’ultima sul suo venditore. Non si suppongono “attriti”, semplicemente la vendita di ogni merce, e dunque della stessa forza lavoro, al suo valore/lavoro.

Il lavoro incorporato (indirettamente, come abbiamo spiegato) nella merce forza lavoro è X; il lavoro che essa è capace di erogare nel processo produttivo (dove i mezzi sono del capitalista) è X+Pl. Nulla di trascendentale, nulla che abbia spiegazione altra se non la legge del valore e degli scambi delle merci secondo valori equivalenti; equivalenza che esprime il fatto sociale precedente la generalizzazione della forma di merce, la liberazione di ogni individuo da costrizioni servili, la libertà quindi degli scambisti, che nel mercato non è puramente formale, è libertà piena ma limitata ai “soggetti” solo in quanto possessori di merci. La diseguaglianza consiste nel possesso di merci diverse; che manifestano tuttavia appieno la loro diversità nel processo produttivo, non nel mercato. Ed è questo “fatto” che ha creato confusione nella testa di certi “marxisti”, convinti che allora lo “sfruttamento” nasca soltanto nel processo produttivo, attraverso la “lotta di classe”, la lotta tra capitale e lavoro, che è invece divenuta, in ogni sistema specificamente capitalistico, lotta sindacale, tradunionismo, in cui si è in effetti ritirata, con il tempo (dello sviluppo capitalistico), la sedicente “Classe” (demiurgo della Storia), mostrando il suo carattere non rivoluzionario. E qui il discorso è difficilino. Vediamo se si chiarisce.

 

5. Per capire l’“inghippo”, in cui sono malamente caduti molti “marxisti”, è necessario comprendere bene il carattere della scienza, che ricerca “leggi” (da generalizzazioni dell’esperienza) tramite “astrazione” dalla concretezza empirica; l’astrazione (che non è pura immagine fantastica) precede dal punto di vista logico tale concretezza, è il presupposto dell’esperienza empirica (“quotidiana” detto in senso lato), che la scienza cerca di ordinare in connessioni intellegibili. La “legge” in un certo senso “esiste” tramite le sue manifestazioni empiriche; tuttavia, l’“astrazione”, che tale legge è, è eminentemente “reale”; nel senso che è la base fondamentale delle nostre azioni, se a queste vogliamo dare un senso compiuto. Altrimenti, ci si deve rassegnare ad agire come i ragazzotti scemi di un qualsiasi “movimento”, orientato da intellettuali cialtroni e pagati dal Capitale, contro il cui Comando inveiscono in modo da servire i reali capitalisti, quelli peggiori e più reazionari, quelli che appunto li “pagano” per far agire da scervellati un branco di effettivi decerebrati (la “decerebrazione” è la “legge” che precede, ed è presupposto nonché spiegazione, dello “scervellamento”).

Lo “sfruttamento”, nella sua forma (storicamente specifica) capitalistica, si esprime tramite due movimenti, cui viene dato lo stesso nome, il che ha creato appunto molte confusioni. Intanto, deve essere definita la “legge”, l’“astrazione” dal movimento concreto in cui essa si manifesta e realizza (nell’empiria). Tale legge ci dice che nel sistema dello scambio mercantile generalizzato – e la generalizzazione si ha soltanto quando si forma e diventa predominante il rapporto sociale tra possessore di mezzi produttivi, l’acquirente di forza lavoro, e il possessore di quest’ultima, il suo venditore – si verifica appunto lo scambio di tale merce specifica al suo valore (una media), rappresentato da una quantità X di lavoro incorporato nei beni necessari alla sussistenza (storico-sociale) del suo portatore (il lavoratore). Tale forza lavoro però, tenendo conto del complesso sistema sociale delle forze produttive esistente in quel dato periodo storico, ha in potenza la capacità di erogare un tempo di lavoro X+Pl (pluslavoro). Non avendo mezzi produttivi, il venditore di tale merce la deve cedere al possessore di questi ultimi, che lo inserisce nel processo sociale di produzione (ma in un particolare processo di lavoro, che è parte dello stesso) in cui l’erogazione di X+Pl può attuarsi.

Lo sfruttamento, quindi, esiste già potenzialmente nell’atto di scambio della forza lavoro divenuta, attraverso un lungo processo storico, merce; e non si deve badare agli attriti esistenti (imposizioni, astuzie, raggiri o altro), ci si deve attenere al fatto “astratto”, ma presupposto, che ogni merce si scambia con altre, o con il loro intermediario universale, sulla base dell’equivalenza, dell’eguale quantità di lavoro incorporato in esse. La potenzialità si attua poi in un processo di lavoro, parte del complessivo processo sociale che produce merci, in continuo accrescimento ed estensione (a ritmi diversi) per quanto concerne il sistema delle sue forze produttive (di cui è via via più decisivo il lato tecnologico). Lo sfruttamento, già esistente come “legge” allo stato potenziale nel livello (“superficiale”) dello scambio mercantile, diventa certo attuale nel processo di produzione e, in particolare, in quello di lavoro in cui la forza lavoro viene inserita. Fin quando esiste lo scambio mercantile generalizzato – che solo sulla base della separazione tra possesso dei mezzi produttivi e (libero) possesso della sola forza lavoro può storicamente realizzarsi – la “legge” dello sfruttamento capitalistico, nella sua generalità (che è la potenzialità), esiste ed è ridicolo il pensare di abolirla, o rivoltarla a piacimento, con un qualsiasi genere di lotta o di imposizione (magari da parte dello Stato) o con altro inutile marchingegno che si pensi di escogitare.

La lotta si sviluppa solo intorno alla forma e all’evoluzione di questa “legge”. Lo ripeto: già data nel livello del mercato, per cui tutti quelli che hanno voluto snobbare il primo capitolo de Il Capitale, quello appunto sulla merce, hanno perso di vista i connotati effettivi della legge del valore o l’hanno trattata quale inutile orpello escogitato da un Marx economicista. La formazione del mercato, con tutte le sue “leggi” (che esistono, non sono invenzione dei liberisti), è fenomeno storico e sociale per eccellenza. Il liberista le ha solo ipostatizzate ed eternizzate in quanto “forma finalmente scoperta” del produrre secondo Ragione (astorica); ed è questa la precisa accusa fatta loro da Marx (ad es. nella Miseria della filosofia). Se con il capitalismo la sfera economica è venuta in piena evidenza e ha avuto effetti decisivi sul resto della formazione sociale, tale fatto non è una fantasia del preteso economicismo marxiano.

La lotta non è per l’ottenimento del plusvalore (pluslavoro come sua sostanza e profitto come sua figura fenomenica), è al massimo (ne vedremo fra poco i limiti) per la forma, assoluta o relativa, dello stesso. Da leggersi a questo proposito, bevendosela, tutta la trattazione al proposito fatta da Marx ne Il Capitolo VI inedito (da capire perché l’ha tolto dal I libro de Il Capitale, da lui pubblicato), nelle mirabili e chiarissime parti riguardanti la sottomissione (o sussunzione) formale e reale del lavoro sotto (nel) capitale (è in tale capitolo, detto per inciso, che si trova una delle più esplicite e lucide indicazioni circa la formazione dell’operaio combinato in quanto coordinamento tra potenze mentali e lavoro manuale, che è la supposta, da Marx, base sociale cruciale per la transizione al modo di produzione comunista).

 

6. Plusvalore assoluto – grosso modo corrispondente al primo affermarsi del capitalismo, con il rapporto sociale considerato già in formazione ed ampliamento, ma con un sistema di forze produttive ancora poco avanzato, corrispondente all’iniziale fase di sviluppo della manifattura – significa allungamento della giornata lavorativa in modo da accrescere il tempo corrispondente al Pl (il surplus rispetto a X). In seguito, e massimamente dopo la prima “Rivoluzione industriale” (macchinismo, ecc.), la forma assunta dal plusvalore (pluslavoro) è quella relativa, implicante la riduzione, grazie al crescente sviluppo della produttività del lavoro assistito tecnicamente, del tempo di lavoro rappresentante il valore dei mezzi di sussistenza della forza lavoro (del suo portatore). Il tempo di lavoro complessivo (la giornata di lavoro) resta eguale, ma la parte che costituisce X si riduce e quindi aumenta Pl. In questa fase storica, quella assai più lunga e rilevante della storia del capitalismo (del suo modo di produzione), si ha spesso anche un accrescimento del Pl nella sua forma assoluta tramite intensificazione dei ritmi di lavoro (lo stesso tempo rappresenta una maggiore quantità di energia erogata).

La forma del plusvalore (pluslavoro) non è però il plusvalore, bensì soltanto la sua variazione; lo sfruttamento già esiste comunque perché implicato dalla forma dello scambio mercantile che avviene tra possessore dei mezzi produttivi (capitalista) e possessore di forza lavoro (operaio, lavoratore salariato). E del resto, anche la lotta intorno alle forme (assoluta e relativa) del plusvalore non si svolge principalmente dentro il processo di produzione (in senso stretto, cioè lavorativo, quello detto spesso “di fabbrica”); a meno di non considerare lo sciopero, in quanto con esso viene bloccato tale processo, quale lotta dentro lo stesso. Il che sarebbe un errore marchiano. Di conseguenza, in nessun senso lo “sfruttamento” è legato ad una lotta diretta tra capitale e lavoro dentro i processi produttivi in senso stretto. Lo “sfruttamento” (la potenzialità), quale “legge” del modo di produzione capitalistico – così come la sua manifestazione nelle forme assoluta o relativa – appartiene al complessivo processo sociale di produzione nella sua specificazione storica detta capitalistica, processo di produzione che implica, necessariamente ed ineluttabilmente, il passaggio per la fase dello scambio mercantile (scambio di equivalenti) generalizzato. Nessuno sfruttamento, immediato e diretto, si forma costitutivamente (cioè come “legge”) dentro un qualsivoglia processo produttivo, in quanto lavorativo, dove tuttavia si verifica l’attuazione dello stesso nelle concrete forme empiriche assunte da detto processo di lavoro.

Siamo sempre alla necessità di comprendere la “legge” (pur non “eterna”, non espressione di una Ragione Assoluta, bensì storico-sociale) nella sua “astrazione” scientifica, che mai va confusa con le manifestazioni empiriche, da cui essa è tuttavia tratta tramite l’attività del pensiero; se questa è assente, non resta appunto che immergersi nel “vivo della lotta”, “calarsi il passamontagna”, incitando torme di “cavallette” (in forma di “movimenti giovanili”) ad immolarsi nella disfatta a maggior gloria della “pagante” schiera dei più reazionari e parassiti capitalisti esistenti in quella data fase storica. Cialtroni e disonesti, effettivi “cattivi maestri”, in forma di pseudo-rivoluzionari anarcoidi ed ambiziosissimi, pronti poi ad abbandonare i loro turlupinati per assidersi su qualche “trono” da maître à penser (versione degradata del Pulcinella).

Gli infami e fastidiosi non pensatori, denominati in Italia “operaisti”, si sono messi a raccontare che lo sfruttamento era opera del Capitale dentro i processi di fabbrica (di lavoro), contrastato baldamente da sciagurati in vena di puro “casino”. In seguito alla Rivoluzione culturale cinese (1966-69 soprattutto) – processo con indubbie venature di puro vandalismo sfascia-tutto, e tuttavia passibile anche di alcuni insegnamenti meno catastrofici – perfino l’althusserismo sbandò per un certo periodo (adesso non mi perito a dire fino a quando) e cercò di dare dignità teorica ad un pensiero eminentemente antiscientifico, venendo a raccontare che lo sfruttamento si giocava dentro il processo produttivo in senso stretto. Si arrivò all’autentica bestialità (senza offesa per le bestie, che scuseranno questo linguaggio di noi aberrati umani) dell’affermazione secondo cui la divisione tecnica del lavoro – risultato dello sviluppo della tecnologia e concomitante organizzazione del processo lavorativo, elemento di sicuro accrescimento della forma relativa del plusvalore, ma non certo causa dello “sfruttamento” capitalistico in quanto “legge” del complessivo processo sociale di produzione in questa “storicamente determinata” forma di società – era in realtà quella autenticamente sociale, in quanto risultato della lotta tra capitale e lavoro.

Qui andò perso ogni orientamento, si spense ogni possibilità di riflettere realmente sui limiti della teoria marxiana, annegata nel “calore della lotta proletaria” per l’emendazione del mondo dal diabolico capitale. Questo il segno distintivo di una fase storica, che è all’origine del degrado intellettuale e culturale dell’ultimo trentennio del XX secolo e da cui non ci siamo ancora rimessi, anzi si sta affondando sempre più nell’ignominia e nell’abbrutimento. E questo segno distintivo, piaccia o non piaccia, è “di sinistra”, questa ignobile deriva del fu comunismo, ormai capace solo di suscitare disgusto, semplice ricettacolo di tutto il pensiero più arretrato e reazionario, pieno di odio puramente viscerale verso il capitalismo, ma in nome di un ritorno al Medioevo, alla candela, al cavadenti con la tenaglia, al chirurgo con sega e martello.

La divisione tecnica – da Marx considerata quale lascito rilevante del modo di produzione capitalistico, senza la quale mai si conseguirebbe quel copioso fluire dei beni in grado di realizzare i “fondamentali” del comunismo: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, il “lavoro come primo bisogno della vita”, il “tempo libero” per dedicarsi a quelli che chiamiamo hobbies, ecc. – non è affatto la causa dello sfruttamento e non è certo obiettivo principe della lotta di classe in quanto tesa a contrastare il maligno capitalista. Fra l’altro, essa è semmai più frutto della lotta tra capitalisti che tra capitale e lavoro. Certo il suo risultato è l’aumento del plusvalore relativo, ma sanno i pseudomarxisti che cosa questo significa? Tale aumento non è ottenuto tramite allungamento o intensificazione (dei ritmi) del tempo di erogazione lavorativa.

Quest’ultimo può persino essere accorciato, perfino reso meno intenso, per il fatto che è la produttività del lavoro, grazie alla tecnologia, a consentire l’accorciamento del tempo di lavoro necessario a produrre i beni per la sussistenza della forza lavoro (del suo portatore) con accrescimento del tempo corrispondente al Pl. Facendo il classico esempietto da scuola elementare, mettiamo una giornata lavorativa di 8 ore, in cui 4 rappresentino X e 4 il Pl. Se raddoppia la produttività del lavoro (in specie nei settori che producono beni-salario) il 4 di X si riduce a 2 e il Pl passa a 6. Si può anzi aumentare il salario (quello reale, quello del tenore di vita dei lavoratori) del 50%. L’X equivarrà allora a 3 ore, ma il Pl sarà pur sempre maggiore di prima (5 ore). Marx disse non so quante volte che Ricardo sbagliava a mettere profitto e salario in correlazione inversa (uno aumentava quando diminuiva l’altro); entrambi possono crescere, con reciproca soddisfazione. Ma i marxisti ignoranti del ’68 e successivi, no, fecero progredire il marxismo (cioè il loro semplice “grundrissismo” perché sembrava non avessero mai letto veramente Il Capitale) come i gamberi.

La divisione tecnica del lavoro non è lo sfruttamento in quanto “legge” del capitalismo, che estrae comunque pluslavoro in base alla forma capitalistica dei rapporti inerenti al complessivo processo sociale di produzione, organizzato sulla base dello scambio generale in svolgimento tra eguali possessori di merci, divisi però dalla separazione dei mezzi produttivi dalla forza lavoro che li mette in opera e che quindi va venduta come merce essa stessa. La divisione tecnica, frutto del progresso delle tecnologie e dell’organizzazione lavorativa e dovuta più che altro alla competizione tra capitalisti (oggi diremmo imprese), accresce senz’altro il plusvalore (relativo), ma spesso con soddisfazione di entrambi i “soggetti” in lotta giacché comporta il tendenziale aumento (certamente differenziato, nessuno lo nega) del tenore di vita generale. Solo gli intellettuali e gli studentelli (quelli figli di papà, di cui era zeppo il movimento sessantottino) – mai al lavoro; e i primi ben pasciuti dal Capitale per raccontare le loro panzane “ultrarivoluzionarie” – potevano piangere sugli operai sfruttati dai negrieri che introducevano infernali marchingegni macchinici per sfruttarli bestialmente.

Poi, appena la Fiat mise in opera solo pochi reparti “avanzati” come il LAM o il ROBOGATE, allora gli stessi buffoni si inchinarono in adorazione dei peggiori capitalisti italiani. Nella saldatura delle scocche comandata elettronicamente, come vidi di persona, gli operai fumavano, se la raccontavano e intervenivano saltuariamente quando si verificava qualche intoppo. E il salario che percepivano era più elevato della media. Che meraviglia! In pratica lo sfruttamento era diminuito di colpo; ed invece era quasi sicuramente aumentato, il Pl era andato su e l’X giù! Perfetti idioti, che hanno unito alla rinfusa a Marx tutti i pensatori più o meno grandi che incontravano nel loro iter accademico (Heidegger o Bateson, Nietzsche o Prigogine, Foucault o Maturana-Varela, ecc.) in un’orgia di vigliacca demenzialità che ha creato un corto circuito generazionale, una interruzione di trasmissione di saperi per un reale avanzamento della conoscenza della società odierna. Fuori dalle Università questi mentitori, questi imbonitori, servi del peggiore capitalismo; siano mandati nelle miniere di carbone che ancora esistono nel mondo e, se non accettano, alla fame, senza pensione né sussidi né assistenza sanitaria.

 

7. Un piccolo sfogo, proprio minimo a confronto di quanto si è dovuto ingoiare da parte di queste mafie intellettuali di “sinistra estrema”, “radicale”, alcuni ancora (finti) comunisti e marxisti. Vili mestieranti di una scienza che calpestano, di un autore che hanno cancellato, a volte però incensandolo con fumi nauseabondi per impedirne la conoscenza. La divisione tecnica è sociale solo nel senso che il progresso tecnico è parte integrante di una società caratterizzata dai rapporti che abbiamo pur succintamente descritti. Tale divisione non è però frutto di marchingegni diabolici, inventati nella lotta di classe dai capitalisti per meglio sfruttare gli operai (i salariati). Se si è ben seguito il ragionamento, si è capito cos’è, nella sua “legge” storicamente specifica, lo sfruttamento. La divisione tecnica può aumentarlo nello stesso senso in cui, come trend, ha accresciuto pure, e non di poco, il tenore di vita degli sfruttati. Tale divisione – interna al processo di lavoro – ha un altro significato assai più utile per noi, anche teoricamente.

Essa è il risultato dell’applicazione all’attività umana della razionalità del minimo mezzo (o sforzo o costo) per raggiungere un dato obiettivo (risultato, “prodotto”). Nel recente mio ultimo pezzo teorico (“Procediamo lentamente, ecc.”) l’ho designata come razionalità del minimax (minimo sforzo per un dato risultato o massimo risultato con un dato sforzo). Per semplicità la indicherò spesso così. Si tratta di una razionalità sempre conosciuta, credo, dall’essere umano (nemmeno gli animali, immagino, ne siano scevri). Tuttavia, è indubbio che la sua applicazione su larga scala, la considerazione d’essa come la massima forma di razionalità, si ha con il capitalismo. In tale forma sociale, la suddetta razionalità diventa sinonimo di efficienza economica, essendo in modo particolare applicata nella sfera economica (in specie produttiva), dove precedentemente non era “moneta corrente”.

Credo si possa dire che era già in auge nella prima fase (ancora di transizione) della formazione capitalistica, quella del capitale commerciale. Tuttavia, con lo sviluppo dell’impresa, organizzazione specifica dell’unità produttiva capitalistica, si afferma in tutta la sua estensione. E una volta affermatasi nell’unità produttiva, questa razionalità informa, almeno nell’ideologia dominante, ogni ramo di attività umana. In ogni ambito si tende, o si dice di tendere, al conseguimento del massimo di utilità possibile. Si cerca di organizzare il proprio tempo libero secondo una sua distribuzione razionale, intendendo per razionale tale procedimento. Credo che nello sport, forse perfino nella sfera amorosa, si pensa di poterlo utilizzare. Non intendo però addentrarmi in discorsi dispersivi. Di sicuro, il minimo sforzo informa l’intero nostro modo di pensare (di scrivere, non ne parliamo).

Inutile negare che si tratta dell’affermazione di una razionalità, che nel capitalismo ha trovato la sua massima estensione d’uso nella sfera economica. A simile comportamento è dovuto l’enorme sviluppo delle forze produttive, il progresso tecnico, quello stesso scientifico nella misura in cui una “scoperta” implica immediatamente la sua organizzazione in esplorazione sistematica del campo di conoscenza apertosi, con utilizzo di imponenti mezzi a tal fine, utilizzo possibilmente razionale nel senso indicato. La concorrenza intercapitalistica (interimprenditoriale) è informata dal medesimo principio. L’affermazione della borghesia quale classe dominante nella nuova formazione sociale è risultato della concorrenza e del suo inimitabile impulso impresso allo sviluppo produttivo e all’innalzamento delle condizioni della vita di una popolazione, la cui crescita si impennò per un lungo periodo di tempo (sempre meno per aumento della natalità, sempre più per la forte diminuzione della mortalità, allungamento della vita, ecc.).

Non è per nulla strano che Marx stesso abbia dato a tale principio la massima importanza, ponendolo al centro dell’attività capitalistica; sarebbe stato strano semmai il contrario. Accrescere il plusvalore (pluslavoro) nella sua forma relativa è obiettivo specifico della razionalità del minimax. Marx considerò anzi la sempre più ampia applicazione della stessa quale portato positivo della formazione capitalistica. Per questo motivo alcuni marxisti (si pensi al nostro Antonio Labriola, esempio “classico”), giungendo certo a conclusioni aberranti, arrivarono a giustificare le imprese coloniali, viste come semplice mezzo di espansione del capitalismo nel mondo; espansione di una forma della produzione sociale basata sulla più spinta generalizzazione della razionalità economizzatrice dei mezzi e, dunque, in grado di contribuire all’impetuosa crescita del ritmo di avanzamento scientifico e tecnico, favorevole al progresso di tutti i popoli del mondo.

D’altra parte, Marx mai pensò ad un comunismo nella povertà, nella frugalità, alla guisa di quei “preti scalzi” che sono divenuti i degenerati comunisti (“collettivisti”) odierni. Affinché ad ognuno venissero distribuiti beni in base ai suoi bisogni, in continua espansione e moltiplicazione se si immagina una società in sviluppo e trasformazione storica (e non una società tribale “fredda” e immobile), l’uso di una sempre più elevata efficienza economizzatrice dei mezzi a disposizione era da considerarsi positivo. In un certo senso, per quanto riguarda quest’uso, “c’è stata storia, ma ora non ce n’è più”. Ancora una volta si dimostra che in Marx l’elemento mutevole, storico, è la struttura dei rapporti sociali. La critica agli economisti classici per la loro a-storicità riguardante la forma capitalistica della produzione concerneva appunto l’eternizzazione della libertà individuale con mero riferimento a quella dello scambio mercantile, alla libertà dei possessori di merci.

Tale tipo di libertà – poiché per Marx, e qui sta la sua superiorità rispetto ad altri studiosi delle società capitalistica, che videro solo l’ampliarsi dello scambio mercantile (una “globalizzazione” ante litteram) – implicava la larga formazione del lavoro salariato, favorito fra l’altro dalla irreggimentazione dei vagabondi, ecc. E il lavoro salariato significa separazione del possesso dei mezzi produttivi da quello della forza lavorativa capace di metterli in funzione. In definitiva, la generalizzazione della forma di merce implicava quella della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e della libera vendita come merce della capacità lavorativa (mentale e manuale) da parte di chi non aveva altro modo per vivere. Questo il rapporto storicamente specifico (da cui deriva quel tipo di sfruttamento che abbiamo sopra spiegato), passibile di mutamento e trasformazione. La razionalità economica, che è la base della divisione tecnica del lavoro, era invece acquisizione ormai permanente e sarebbe stata necessaria anche per la transizione al modo di produzione comunista. Questa divisione, dunque, si è manifestata senza dubbio in base ad una trasformazione sociale (dal feudalesimo al capitalismo), ma sarebbe poi divenuta necessaria per ogni produzione che si voglia eseguire secondo i criteri del minimo mezzo e della massimizzazione dei risultati.

 

8. Scrive Marx (nel primo capitolo della sua massima opera, sulla merce): “Immaginiamoci infine…un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson [quello dell’economia “borghese”, in particolare neoclassica, anche se non è a questa che Marx si riferisce, ovviamente; ndr.], però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale [anche Robinson Crusoe dedicava una parte del suo tempo e delle sue risorse a produrre mezzi di produzione per accrescere poi la sua produzione di ‘oggetti d’uso’, e questa parte rimaneva logicamente individuale; il problema non è diverso nel caso del ‘Robinson collettivo’; ndr]. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione”.

Il “Robinson collettivo” è evidentemente la formazione sociale arrivata al suo stadio di socialismo, che in Marx è la prima fase della società nel suo farsi comunista. In detto stadio, esiste la ben nota scarsità dei mezzi per soddisfare i vari bisogni (fra i quali vi è anche quello di produrre e non solo di consumare, poiché si consuma solo se si produce; nessun neoclassico si scorda questo fatto elementare). Tra i mezzi scarsi vi è appunto il tempo di lavoro. Il neoclassico, più in generale, direbbe il tempo di vita, ma Marx qui segue i classici, per lui l’aspetto principale è la produzione e si produce lavorando; quindi il tempo di vita fondamentale è quella sua parte che è tempo di lavoro. Questo tempo di lavoro recita nella società che è “Robinson collettivo” (il socialismo) una duplice parte: “La sua distribuzione, compiuta socialmente secondo un piano, regola l’esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D’altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura alla partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte del prodotto comune consumabile individualmente” (ivi).

Come vedete, nella produzione bisogna distribuire razionalmente il mezzo scarso (il tempo di lavoro) tra i vari usi (produttivi) cui può essere adibito; e questa razionalità è appunto quella che massimizza il risultato (prodotto) ottenuto con quel dato tempo di lavoro. Quest’ultimo però, nel socialismo, viene speso socialmente e secondo un piano “razionale” (deciso dai produttori associati, cooperanti): appunto il piano di distribuzione del tempo di lavoro secondo il principio del minimax. Seguiamo la formulazione di Marx: “la distribuzione del tempo di lavoro” viene “compiuta socialmente”, cioè da parte dei produttori che decidono in collettività e piena cooperazione, “secondo un piano”. E cosa decide questo piano? “Regola l’esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni”. Sembra quindi evidente che al primo posto ci sia il bisogno di oggetti utili da produrre (certo per dedicarli sia ad un nuovo ciclo di produzione, che non deve essere ovviamente interrotto, sia al consumo); da ciò segue l’esatta divisione del tempo di lavoro (svolto da differenti funzioni lavorative, quindi tenendo pienamente conto della divisione del lavoro) fra le produzioni che ottengono i differenti oggetti d’uso (produttivo e di consumo).

Siamo precisamente nell’ambito del calcolo economico (razionale secondo l’esigenza del minimax) dell’economia neoclassica (senza concetti marginalistici, uso di matematiche, ecc.). Il Robinson “collettivo” si comporta come quello individuale quanto a razionalità fondamentale che guida la sua condotta. Si deve ottenere il massimo possibile di oggetti utili (al consumo e a perpetuare, accrescendola, la produzione) dal tempo di lavoro scarso. Basandosi inoltre sulla divisione del lavoro esistente in ogni ciclo della produzione; divisione fra cui non va certo dimenticata quella tra potenze mentali della produzione e lavoro manuale, tra lavoro direttivo ed esecutivo. Solo quando, grazie al copioso fluire di beni ottenuto con simile sistema produttivo (pianificato), si saranno create le condizioni atte a dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, a prestare il “lavoro come primo bisogno della vita”, a “dedicarsi a questa o quell’occupazione a proprio piacimento”, ecc., solo allora finisce il problema della scarsità; di conseguenza anche quello della razionalità del minimo mezzo. Non vi sarà più la costrizione indotta da questa scarsità; in primo luogo quella del tempo di lavoro, che diventerebbe un mero accessorio rispetto al tempo di vita nel suo complesso.

Siamo all’Eden della storia dell’Umanità? Non credo, poiché resterebbero un mucchio di malanni, sociali e individuali, ad affliggerla. Non è però questo il centro della questione. Se il problema cruciale da risolvere è quello del copioso fluire dei beni, si può ben dire che il capitalismo ha dimostrato di saperlo assicurare. D’accordo, con differenze enormi tra i “primi e gli ultimi della classe”, con fasi altalenanti, quindi con le ben note, e periodicamente assai gravi, crisi economiche che fanno arretrare le condizioni di vita di vaste fasce della popolazione. Tuttavia, a oltre due secoli dalla Rivoluzione industriale (solo la prima di una serie di cui non si vede interruzione), se si traccia il trend dello sviluppo – dell’aumento delle condizioni di vita di tutte le fasce sociali, e ormai della stragrande maggioranza di una popolazione mondiale moltiplicatasi per non so quante volte – il bilancio è nettamente positivo.

Diciamocelo francamente: pur se Marx aveva considerato storicamente crescenti i livelli salariali (quindi il valore della merce forza lavoro), il marxismo in genere ha sempre pensato in termini di relativa e strisciante miseria. Ancora adesso i “preti scalzi” dei residui “comunisti” ragionano in tali termini; e se non possono riferirsi ai livelli (detti con disprezzo materiali) di vita, si “consolano” cianciando di disagio psichico, delle sofferenze “spirituali” (che sono le loro in quanto falliti su tutta la linea e con il cervello in pappe, strumentalizzati da intellettuali abominevoli che, a pagamento, ne fanno massa di manovra di alcuni settori capitalistici criminali e parassiti). Disperatamente, tentano allora di provocare, ovunque ne siano capaci (laddove glielo lascino fare), danni al progresso scientifico e tecnico, sperando così di poter un giorno affermare: avevamo detto che si tornava indietro, alla miseria delle masse; “socialisme ou barbarie”. Illusi, saranno solo neoluddisti, destinati alla stessa fine dei loro precedenti; e nemmeno da considerare con pietà come quelli di allora.

Del resto chi potrebbe oggi sostenere, senza suscitare ilarità, che una massa di produttori associati è in grado, in piena cooperazione comune, di pianificare la distribuzione del tempo erogato dalle varie funzioni lavorative tra i vari settori atti a produrre i differenti oggetti d’uso di cui abbisogna il “Robinson collettivo”? Chi garantisce la reale associazione cooperativa dei vari produttori? Lo Stato, che dichiara la proprietà comune dei mezzi produttivi, ma è poi attraversato dalla lotta, segreta o aperta, tra varie camarille e gruppi di potere? Non facciamo ancora ridere. Andiamo allora alla proprietà cooperativa di varie unità produttive che agiscono secondo i principi della più aspra concorrenza mercantile? E da chi sono guidate queste unità produttive in proprietà cooperativa? Non si è mai sentito parlare dei manager in quanto funzionari del capitale? Si deve sempre prestare attenzione alla stupidità di chi non ha cervello per pensare in modo minimamente problematico? Per favore, se tanto mi dà tanto, restiamo pure all’organizzazione produttiva specifica della formazione sociale capitalistica. E’ effettivamente più “economica” (razionale secondo il principio del minimax), più flessibile. L’esperienza storica concreta ha dimostrato che la pianificazione statale ha irrigidito e poi fatto crollare il presunto “Robinson collettivo”; ed è anche da questa esperienza che vanno tratte le nuove “astrazioni” (generalizzazioni) scientifiche.

 

9. Torniamo un momento a Marx, a quello che pose sensatamente certi problemi, a colui il quale avrebbe preso a calci nei denti chiunque gli fornisse “ricette per la cucina dell’avvenire”, a chiunque, in preda a demenza furiosa o pagato dai capitalisti furbastri (i più arretrati, i reali imbroglioni), avesse prospettato fumose organizzazioni sociali di beata cooperazione, fingendo che l’Uomo è per natura buono e generoso. Il “Robinson collettivo” è una pura finzione teorica, poiché è un aggregato indistinto, e cumulativo, trattato quale soggetto unico (come l’Uomo o l’Umanità di certi filosofi; e come anche lo Stato per altri filosofi). Marx ha il concetto di formazione sociale, una struttura relazionale tra diversi individui. La società è un intreccio complesso di rapporti interattivi tra individui. Dando la priorità alla sfera economico-produttiva della formazione capitalistica – perché in quest’ultima tale sfera ha conquistato la priorità; non si tratta certo di una fantasia marxiana – era possibile raggruppare questi individui in “classi più generali” in base alla loro funzione espletata nella sfera in questione.

Essa è tuttavia attraversata dalla concorrenza tra più unità produttive; ed è da tale concorrenza che nasce la divisione del lavoro prima di tutto all’interno della manifattura, che “non si distingue ai suoi inizi dalla industria artigiana delle corporazioni quasi per altro che per il maggior numero degli operai occupati contemporaneamente dallo stesso capitale. Si ha soltanto un ingrandimento dell’officina del mastro artigiano” (Il Capitale, libro I, cap. sulla cooperazione). La dissoluzione delle corporazioni, provocata dalla concorrenza mercantile, porta alla divisione tecnica del lavoro (non frutto della lotta di classe tra capitale e lavoro come poi pensato da un marxismo degenerato in comica imitazione della Rivoluzione culturale cinese!), alla divisione dei compiti, che moltiplica e specializza anche i differenti strumenti artigianali “di base” (martelli di ogni tipo, seghe di ogni tipo, pialle di ogni tipo, scalpelli di ogni tipo, e via dicendo). Tale divisione tecnica affina le mansioni lavorative e gli strumenti, preparando e infine facendo esplodere la “rivoluzione industriale”, quella delle macchine: tanti strumenti semplici messi in azione – in una serie di operazioni elementari di cui consta l’apprestamento di un dato prodotto – da un apparato di trasmissione collegato ad un motore centrale alimentato da energia (in genere non più umana).

L’unica radicale lotta “di classe” svoltasi durante la prima Rivoluzione industriale è quella luddista, più che giustificata sul piano “umano” ma oggettivamente reazionaria; vero antecedente storico delle lotte degli ultimi odierni residui sedicenti comunisti (che nemmeno sanno che cos’era il comunismo in Marx) per fermare ogni novità, buona o cattiva che sia, in modo soltanto indiscriminato. Anche il luddismo distrusse sicuramente alcune macchine non destinate a successo; quindi, senza saperlo, favorì una selezione “darwiniana” tra i sistemi meccanici. Non direi però che fu positivo, né che avesse una qualche possibilità di arrestare veramente il progresso tecnico-scientifico, né soprattutto che abbia realmente determinato la direzione di sviluppo di tale progresso e, tramite esso, delle forme capitalistiche realmente affermatesi nel lungo periodo. Avrà provocato qua e là qualche intoppo, favorito la vittoria di questo piuttosto che di quel gruppo capitalistico, accelerato o ritardato il rafforzamento di alcune formazioni particolari (o di aree all’interno di queste), ma la divisione tecnica non è affatto dipesa, per l’essenziale, dalla sedicente “lotta di classe”. Così ieri come oggi; con la differenza che oggi non è possibile manifestare grande comprensione “umana” verso il neoluddismo, che è solo manifestazione di disfacimento di un movimento che ebbe ben altri scopi e compiti.

Marx sapeva, dunque, che le “classi” non si formano in base alla divisione tecnica del lavoro, sempre più fine e spinta (e meccanizzata) per via della concorrenza capitalistica (e certamente per aumentare il profitto con i metodi del plusvalore relativo); essa crea una molteplice suddivisione dei compiti lavorativi, non solo segmentati in orizzontale ma anche disposti in gerarchie verticali. E tutto questo è mosso da quel principio del minimax, che anche per Marx è il massimo della razionalità espressa non soltanto nel sistema capitalistico e per finalità “di classe”, poiché sarà principio da ereditare nel socialismo (il “Robinson collettivo”) se si vorrà superare questo stadio e conseguire infine lo scopo ultimo e definitivo: il comunismo, che metterà fine ad ogni costrizione dell’uomo su altri uomini e condurrà pure all’affrancamento (oggettivo, non decretato da “preti scalzi” in vena, falsa!, di “parsimonia e frugalità”) dal moltiplicarsi dei bisogni. Ci si ricordi delle affermazioni marxiane (e leniniane) circa l’“orchestra” che non riesce ad effettuare le sue esecuzioni in assenza di un “direttore”.

Il rapporto sociale fondamentale che caratterizza il capitalismo non dipende in alcuna misura dalla divisione tecnica del lavoro; esso è legato alla generalizzazione degli scambi mercantili, processo guidato dalla classe (borghesia), che ha assunto la predominanza nella società e che lo ha elevato a definitiva e duratura libertà ed eguaglianza degli uomini (“Dichiarazione dei diritti dell’Uomo”). Invece, il fondamento principale e più caratteristico dello scambio mercantile è la separazione tra possesso di mezzi produttivi e (libero) possesso di forza lavoro quale merce essa stessa. Questa la divisione sociale principale esistente nell’epoca storica del capitale; il rapporto sociale cruciale non si costituisce dunque dentro il processo di lavoro, ma nella forma societaria in cui i processi storici peculiari, che l’hanno caratterizzata per almeno due secoli, hanno condotto al lavoro salariato.

Da qui Marx è partito, non dalla generica affermazione della lotta di classe, che poteva servire quale primo approccio generale nella stesura del Manifesto del 1848. Non è vero che “in principio” sta “la lotta di classe” (altro svarione dell’althusserismo). Una simile generica affermazione vale quanto quella che in principio sta la “produzione in generale”. Sciocchezze. Marx ne è consapevole: “La produzione in generale è un’astrazione…..che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia, questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso un qualcosa di complessamente articolato che si dirama in differenti determinazioni [……] le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale” (Introduzione del 1857; l’ultimo passo è già stato citato all’inizio).

Dunque, l’affermazione in generale serve da “pro-memoria”, è soltanto utile per “non dimenticare” da dove poi è necessario prendere effettivamente l’avvio nella propria analisi scientifica. L’inizio sta appunto nella definizione delle forme specifiche assunte, nell’evoluzione storica, dalla produzione sociale: le forme specifiche della relazione tra soggetto, mezzi ed oggetto di lavoro. E così è per la lotta di classe. L’inizio sta nel definire i processi storico-sociali attraverso cui si costituiscono le classi. Con buona pace di Althusser – e malgrado il suo preteso materialismo, ridotto a semplice ideologia (empiristica) agitatoria e di propaganda – è come se le classi entrassero in campo già formate (le “squadre di calcio”). E’ ovvio che, nella concretezza empirica, non si può mai sapere se è nato prima l’uovo o la gallina; bella affermazione di grande valenza scientifica! Tuttavia, si fa scienza quando si afferra il bandolo della matassa da tirare volendo srotolarla in modo significativo per la conoscenza sociale e non per sentire “il calore della lotta proletaria”.

Nel caso della formazione sociale moderna, tale bandolo è il processo da cui emerge in dominanza il rapporto capitalistico che costituisce le classi in lotta (le “squadre che entrano in campo”). Il rapporto si afferma nella società attraverso la separazione dei mezzi di produzione, posseduti da una classe, dalla forza lavoro che li mette in opera, caratterizzante l’altra classe. Queste le due classi – già logicamente formate dal processo storico di generalizzazione della forma di merce e dalla separazione appena vista tra mezzi e forza lavoro – tra le quali, per Marx, si svolge la lotta nel modo di produzione capitalistico; di cui il generico concetto di produzione in generale, pur avendo un senso, non spiega minimamente l’articolazione specifica, non consente di individuare il vero bandolo della matassa da tirare, il reale punto d’inizio quando si voglia analizzare la specifica formazione sociale capitalistica.

 

10. Una volta arrivati a questo punto, alcuni punti salienti dovrebbero essere se non proprio assodati (nulla è mai certo e al di sopra di ogni dubbio, altrimenti ogni discussione cesserebbe) quanto meno relativamente chiari nell’impostazione marxiana, in quella che Althusser definì l’apertura alla scienza del Continente Storia. Il fulcro della questione sta nella individuazione della configurazione dei rapporti in ogni “storicamente determinata epoca della formazione economica della società”. Dall’impulso che la sfera produttiva imprime a quest’ultima nel capitalismo, Marx trasse la convinzione che il processo sociale di produzione – caratterizzato da dati livelli di sviluppo delle forze produttive, ma conformato soprattutto dalla struttura dei rapporti di produzione – fosse decisivo per scoprire in ogni epoca di quale peculiare forma di società si trattasse e quale fosse in essa il modo di produzione dominante. Gli elementi generali della produzione – soggetto, oggetto e mezzi – si articolano fra loro in base ai rapporti sociali dominanti in quell’epoca e consentono di dividere gli individui, che partecipano al processo produttivo, in grandi classi di “soggetti” per ruolo e funzioni svolte. Marx attribuì particolare rilevanza alla divisione in verticale, tra dominanti e dominati. Quello che contava per lui non era però il ruolo e la funzione svolta nel diretto (immediato) processo produttivo, considerato nella sua empirica concretezza di sistematica sequenza di operazioni inerenti al processo lavorativo (quello poi detto nel capitalismo, semplificando, “di fabbrica”).

Il processo sociale di produzione – che sussume sotto di sé anche i momenti della distribuzione, scambio, consumo (produttivo e individuale) dei beni – veniva indagato soprattutto puntando all’individuazione delle “classi di soggetti” che, in ogni data epoca storica, lavoravano producendo quanto necessario a mantenere l’insieme degli individui viventi in quella determinata formazione sociale e a riprodurre, contestualmente, la struttura delle loro (inter)relazioni. In merito alla società del capitale, si veda il bel passo di Marx (fine del cap. XXI del I libro de Il Capitale): “Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato”. Spero sia chiaro. Il processo produttivo in senso stretto è quello lavorativo (con divisione tecnica, forma relativa del plusvalore, tante mansioni diverse, ecc.). Il processo (modo) sociale di produzione capitalistico è fondamentalmente processo di riproduzione sociale. E che cosa riproduce essenzialmente? L’autentico rapporto capitalistico, quello caratterizzante in specifico questa forma “storicamente determinata” di società, che è il rapporto tra capitalista (possessore dei mezzi produttivi) e l’operaio salariato (possessore, libero, di merce forza lavoro); c.v.d.

In definitiva, nella società antica interessava la classe dei soggetti schiavi, il cui pluslavoro consentiva ai loro proprietari di prosperare, dedicandosi inoltre alle funzioni dette “sovrastrutturali” (politico-militari-ideologiche). Nella società feudale il rapporto decisivo era tra servi della gleba e proprietari fondiari, ecc. Nel capitalismo (il cui fulcro è il modo di produrre ad esso corrispondente), le classi si definiscono in base alla liberazione di ogni soggetto da condizioni servili, accompagnata però dalla separazione tra mezzi produttivi e prestatori della forza lavorativa che li mette in opera. Una separazione prima solo formale (proprietaria) e poi, con l’avanzamento della divisione tecnica dell’organizzazione lavorativa e l’introduzione dei sistemi di macchine, anche reale (vedi soprattutto, come già detto sopra, il Capitolo VI inedito), con le potenze mentali della produzione e la direzione dei processi che si concentrano nel capitale (nella classe dominante di tale forma societaria) di contro al lavoro espropriato effettivamente, concretamente, di ogni capacità non meramente manuale o, comunque, esecutiva.

Non interessa per definire le grandi classi – potenzialmente antagoniste e di cui si prevedeva quindi la lotta, prima sorda poi infine esplicita e manifesta, tesa al superamento del capitalismo – la divisione dei compiti e ruoli all’interno del processo lavorativo (produttivo nel suo senso più ristretto), una divisione via via più complicata e minuziosa, specialistica, salvo la creazione di grandi masse di operai manuali, privi di ogni abilità professionale, ma anche di cultura, quindi di capacità egemoniche sociali (quelle politico-ideologiche). Decisiva era appunto la separazione tra mezzi produttivi e lavoratori. Si definivano così le due classi dei possessori dei mezzi (e del denaro per acquistarli, essendo essi divenuti merci liberamente contrattabili) e dei possessori di sola forza lavoro. Entrambi liberi possessori di merci da scambiare, ma in condizioni di differenza tali che, una volta effettuato lo scambio, ne emergeva la possibilità per il possessore dei mezzi, come già spiegato sopra abbondantemente, di ottenere il pluslavoro (plusvalore) del possessore della capacità lavorativa impiegata nella produzione vera e propria.

La concorrenza tra capitalisti (tra possessori di mezzi) è il vero motore della divisione tecnica del lavoro (con la sua moltiplicazione di ruoli e funzioni entro di esso); ma non è questa la dinamica sociale per cui Marx pensava alla formazione delle condizioni oggettive e soggettive della transizione dal capitalismo al socialismo e comunismo. Tale dinamica, del tutto intrinseca allo sviluppo capitalistico è “l’espropriazione [che] si compie attraverso il gioco delle leggi immanenti della stessa produzione capitalistica, attraverso la centralizzazione dei capitali […]. Di pari passo con questa centralizzazione ossia con l’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi, si sviluppano su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi utilizzabili solo collettivamente, la economia di tutti i mezzi di produzione mediante il loro uso come mezzi del lavoro sociale, combinato, mentre tutti i popoli vengono via via intricati nella rete del mercato mondiale [….] Con la diminuzione costante dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, dell’oppressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico [….] La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati” (par. 7 del cap. XXIV del I libro de Il Capitale, sull’accumulazione originaria).

Tralascio la vecchiezza insostenibile di gran parte di queste affermazioni. Bisogna semplicemente capire che per Marx è il processo capitalistico stesso – in sviluppo attraverso la concorrenza tra i molti capitalisti, in un primo tempo organizzatori e direttori del processo di lavoro stesso e della sua divisione tecnica (con la forma relativa di accrescimento del plusvalore cui essa dà impulso) – a produrre le condizioni oggettive della sua trasformazione (rivoluzionaria) in altra formazione sociale; condizioni oggettive che si riassumono nel processo di socializzazione delle forze produttive, sia dal lato dei mezzi di produzione, della tecnologia, ecc., sia da quello dell’organizzazione del processo in cui la forza lavoro viene erogata, creando valore (una cui parte è plusvalore, cioè in ultima analisi profitto).

Marx era tuttavia convinto che si sarebbero create pure le condizioni soggettive della trasformazione: separazione della funzione proprietaria da quella direttiva del capitalista (unite nella fase concorrenziale), intreccio e coordinamento di quest’ultima con le funzioni lavorative operaie in senso stretto (esecutive, manuali, ecc.). Il risultato ultimo del processo sarebbe stato la formazione del lavoratore collettivo cooperativo, vera base sociale – pensata in costante allargamento – della trasformazione rivoluzionaria. Su questi problemi, e sugli errori di Marx a tale proposito, ho scritto molto negli ultimi due decenni; esplicitazioni si trovano in “Procediamo lentamente, ecc.”. Quindi non mi dilungo.

Va però sottolineato che tali risultati erano creduti possibili da Marx in base alla conquistata centralità della razionalità fondata sul minimax nel sistema capitalistico. Egli era altrettanto sicuro che essa fosse ormai un’acquisizione decisiva per l’estrinsecazione dell’attività produttiva sociale. Quest’ultima quindi, pur attuata per una (necessaria) epoca storica in forma capitalistica, avrebbe infine condotto, per le sue “leggi immanenti” di sviluppo, alla negazione di se stessa trasformandosi (non spontaneamente certo) in socialismo, primo stadio del comunismo, nel cui ambito la razionalità in questione si sarebbe rivelata ancor più decisiva perché applicata in modo collettivamente pianificato al processo sociale di produzione; con la conseguente enorme crescita delle forze produttive e della produzione, in grado perciò di soddisfare ogni bisogno umano, mettendo fine a problemi di scarsità.

 

11. Previsioni largamente errate, non verificatesi proprio nei suoi presunti risultati essenziali – la trasformazione socialistica, il lavoratore collettivo cooperativo, ecc. – come ho messo innumerevoli volte in rilievo. Questo è stato l’errore capitale commesso da chi pretendeva di aver impostato una “lotta di classe” rivoluzionaria, risoltasi invece sempre, alla fine, in sindacalismo e competizione per la distribuzione del prodotto totale, per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Trasformazione ineluttabile della lotta tra capitale e lavoro una volta appurato che lo sviluppo capitalistico non è per nulla destinato, come creduto da Marx (si rileggano le affermazioni sopra citate), ad accrescere “la miseria, oppressione, asservimento, degenerazione” delle condizioni vita della massa lavoratrice salariata. Il miglioramento è stato invece conseguito in notevole misura, smentendo le previsioni marxiane, ripetute come un disco rotto dai comunisti dementi perfino ai giorni nostri. Una trasformazione rivoluzionaria, creduta socialista, si è verificata in paesi largamente pre-capitalistici (o poco capitalistici), ma ha condotto alla formazione, per altra via più rapida e coercitiva, di strutture relazionali capitalistiche (pur mascherate) divenute abbastanza presto troppo costrittive e asfittiche, con il conseguente “crollo” dell’impalcatura politica. Quest’ultimo ha reso, in definitiva, visibili gli effettivi risultati storicamente conseguiti, tutt’affatto differenti però da quelli pensati da Marx e dal marxismo.

D’altronde, solo le previsioni marxiane – pessimistiche in merito alla crescente miseria di masse sterminate di lavoro salariato e ottimistiche invece per quanto concerne l’emergere di una nuova base sociale di massa, il lavoratore collettivo – potevano attribuire un fondamento oggettivo alla costituzione di un nuovo modo di produzione, nucleo centrale della formazione sociale comunista. Questo è proprio quello che è venuto a mancare nel corso del secolo e mezzo susseguente all’opera marxiana. Nei paesi dello sviluppo capitalistico, i comunisti sono quindi spariti o si sono trasformati in scriteriati predicatori di arretratezza e de-sviluppo, in preda alla più nera disperazione, che fa compiere loro le più basse scelleratezze. Essi sono ormai divenuti reazionari, vandeani, puntelli delle rivolte di settori detti impropriamente popolari, del tutto funzionali al predominio dell’imperialismo centrale e ai settori capitalistici sanguisughe e parassiti (i subdominanti), che in vari altri paesi ne rappresentano le quinte colonne.

Il fondamento oggettivo era puramente illusorio perché Marx si convinse – in base ad una certo mirabile costruzione scientifica con molti punti di forza, primo fra tutti lo smascheramento dell’illusoria libertà ed eguaglianza predicate dalla nuova classe dominante borghese; e questo è un punto solido che resta, alla faccia di tutti i detrattori liberali! – che la sfera economica, divenuta quella più propulsiva e dinamica (anche tale punto è indubbio), avrebbe condotto alla più generale applicazione della razionalità del minimax, da cui sarebbe derivata l’intera dinamica sociale appena sopra analizzata e indirizzata alla trasformazione socialistica e comunistica. Marx sapeva che, nelle formazioni precapitalistiche, il conflitto, in particolare bellico, era l’elemento propulsore più dinamico, pur se spesso fortemente distruttivo. Ed anche in tale ambito funziona la razionalità umana, solo in forma diversa: quella indicata come strategica in quanto pensa e applica la sequenza di mosse tese alla vittoria nel conflitto in oggetto.

Tale razionalità fu ritenuta caratteristica delle sfere “sovrastrutturali”: politica e ideologia. Nella sfera economica invece prendeva la prevalenza, con la transizione al capitalismo, una razionalità eminentemente costruttiva e che stava in effetti sconvolgendo gli assetti produttivi, la stessa relazione che da millenni era sempre esistita tra uomo (soggetto) e mezzo (strumento) attraverso cui il primo trasferisce l’attività sull’oggetto, da trasformare in prodotto utile per il vivere sociale. La produzione degli oggetti cresceva esponenzialmente grazie alla nuova razionalità e a quel che aveva comportato in termini di totale capovolgimento della relazione soggetto/mezzo del lavoro. Il lavoro diveniva potenzialmente più facile e meno faticoso, la sua produttività si moltiplicava, gli oggetti utili fluivano sempre più copiosamente.

Ciò doveva indubbiamente avvenire, in un primo tempo, sotto l’egida della formazione del rapporto di produzione capitalistico – quello sociale, su cui adesso non mi soffermo più, solo ricordando che non si forma dentro il processo produttivo in senso stretto (lavorativo) – ma portava conseguenze utili anche per il domani “più radioso”, grazie alle trasformazioni subite dalla struttura relazionale sociale (con la corrispondente “lotta tra classi” già considerata) durante l’evolversi di questa sempre più dinamica società. Più dinamica, ma fino ad un certo limite nella concezione di Marx; secondo cui, e qui errò, lo sviluppo sarebbe stato infine arrestato dalla centralizzazione dei capitali, dalla formazione del rapporto tra redditieri e membri del lavoratore collettivo, ecc. ecc. La rivoluzione era inevitabile; come visto sopra, “gli espropriatori vengono espropriati”. Fiorisce il socialismo, fase in cui la razionalità dell’efficienza economizzatrice dei mezzi (minimax) avrà solo effetti benefici e positivi per l’intera società mondiale; benefici e positivi per la nuova crescita illimitata delle forze della produzione sociale, ma soprattutto per la trasformazione dei rapporti in direzione della società dei realmente eguali (non l’eguaglianza dei possessori di merci, basata sulla diseguaglianza che già conosciamo).

Errore madornale. Ma perché? O lo si capisce o altrimenti si resta al vago umanesimo dei “buoni e semplici”, dei “frugali e parsimoniosi”, di tutti i “comunisti” odierni (e anche comunitaristi, per null’affatto differenti su tale problema) che, quando non sono farabutti pagati dal capitale, sono degli emeriti chiacchieroni, naviganti in un mare di banalità scaraventate nei crani vuoti dei loro adepti con linguaggio “colto”: quello degli inutili contenitori di nozioni a-sistematiche, affastellate alla rinfusa solo pour épater le bourgeois. Noi non siamo quel bourgeois (le gentilhomme, Jourdain, che non sapeva di parlare in prosa) e ce ne sbattiamo della loro cultura. Perciò proseguiamo.

Nelle unità produttive capitalistiche – che Marx aveva analizzato a fondo – era in primo piano, appariscente nel suo ingrandirsi e nell’impetuoso progredire dei suoi macchinari, la fabbrica, il luogo della produzione vera e propria. Abbiamo già spiegato che per Marx ciò non sarebbe potuto avvenire se non si fosse preliminarmente formato il rapporto sociale capitalistico, di cui abbiamo già discusso molto. Tuttavia il processo produttivo in senso stretto, che si svolge nella fabbrica, funziona in base alla razionalità in questione, comportante tutto quel processo di socializzazione delle forze produttive, la sistematica applicazione della scienza alla produzione, ecc. di cui tratta il passo citato dal par. 7 del capitolo sull’accumulazione originaria. Tale razionalità serviva, in un primo tempo, all’estrazione della forma relativa del plusvalore (sfruttamento) ed era il mezzo vincente per eccellenza nella competizione tra capitalisti.

La vittoria di alcuni conduceva però a quella centralizzazione dei capitali che, per Marx, avrebbe comportato la separazione del proprietario capitalista dal processo produttivo vero e proprio, svolto mediante applicazione della razionalità economizzatrice, comportante obbligatoria cooperazione e coordinamento dei diversi lavori ivi svolti. La proprietà si sarebbe separata dalla funzione direttiva del processo in questione, ormai assunta da lavoratori salariati (quell’“ingegnere” che, assieme al “manovale”, faceva parte nella concezione marxiana del lavoratore collettivo). A questo punto, nel processo produttivo in senso stretto, tutto il personale sarebbe stato sfruttato, cioè avrebbe fornito pluslavoro/plusvalore. Quest’ultimo non appariva però più come profitto industriale, profitto della figura che, grazie alla proprietà, aveva il “diritto” di dirigere il processo produttivo, anzi sembrava personaggio centrale della produzione proprio in quanto sapeva dirigerla. Niente più inganno e apparenza. Nel processo produttivo non vi era più bisogno del proprietario (dei mezzi produttivi) per dirigere il processo secondo la razionalità comportante il massimo sviluppo delle forze produttive, quell’aspetto dinamico del capitalismo che ne aveva costituito la legittimazione storica.

 

12. La dinamica capitalistica, caratterizzata dalla crescente applicazione del minimax, avrebbe condotto per Marx alla centralizzazione dei capitali, con fuoriuscita del proprietario dal processo produttivo (quello di fabbrica, considerato decisivo). Il profitto, che è plusvalore (pluslavoro), si realizza però dentro la fabbrica; certamente, lo ricordo, in quanto attualizzazione di quella potenzialità insita nel rapporto di scambio di forza lavoro tra capitalista e operaio salariato, rapporto che è quello proprio del “capitale come rapporto sociale”, perché informa di sé non solo la produzione (di merci e plusvalore) ma soprattutto la riproduzione del rapporto in questione, e dunque la reale riproduzione del modo (sociale) di produzione capitalistico. Il profitto (plusvalore/pluslavoro) tuttavia, dopo la centralizzazione dei capitali e i fenomeni sociali da questa provocati, viene intascato dal proprietario ormai esterno (“assenteista”) rispetto alla produzione vera e propria, è cioè di fatto trasformato in una sorta di interesse da capitale (inteso in simile contesto come “cosa”, come somma di denaro, non quale rapporto sociale).

Non si sarebbe però trattato di capitale semplicemente dato a prestito al lavoratore collettivo che ormai avrebbe gestito l’intero processo produttivo. Tale capitale era prima di tutto investito nella proprietà delle unità produttive (insisto: il cui nucleo centrale era la fabbrica produttiva gestita dal lavoratore collettivo) ormai divenute società per azioni (o comunque per quote). La proprietà di questo tipo, pur avulsa dalla produzione, dava comunque diritto di eleggere gli organi dirigenti, i consigli di amministrazione, al cui interno venivano nominati i massimi vertici: l’amministratore delegato, ecc. Simili dirigenti, tuttavia, avevano perso ogni funzione direttiva della produzione, non rappresentavano più le potenze mentali di quest’ultima, ormai salariate come quelle manuali ed esecutive.

Cosa potevano quindi fare questi dirigenti, nominati dal puro capitale azionario? Dedicarsi all’estrazione del plusvalore (pluslavoro) creato nell’unità produttiva, ormai senza più il loro contributo. L’unico modo per estrarlo era di assimilare il capitale speso in azioni (o quote) a quello di prestito, con in più però il diritto (di proprietà appunto) di nominare quegli organi dirigenti che stabilivano la destinazione del profitto (che è plusvalore). L’azione diveniva una sorta di titolo di credito, però dotato del diritto di disposizione proprietaria. Il profitto (plusvalore) si trasformava in una specie di interesse (il dividendo azionario), ma con la possibilità di impiegarlo in manovre sulla proprietà delle azioni, che decidevano le sorti dell’unità produttiva. In questa funzionava ormai a pieno regime la razionalità dell’efficienza e del potenziale massimo sviluppo delle forze produttive; possibile però soltanto se fosse divenuto generale nella società il rapporto vigente nell’unità produttiva capitalistica, che avrebbe allora assunto la posizione di rapporto sociale dominante.

In effetti, nel rapporto costituitosi nell’unità produttiva vigeva la cooperazione tra i lavoratori del braccio e della mente. Certo, vi sarebbero state le normali controversie legate agli avanzamenti di carriera, all’attribuzione di maggiori responsabilità (e dunque di più alte remunerazioni salariali), al miglioramento delle condizioni di lavoro magari scaricando su altri i lavori più faticosi, ecc.; insomma, tutte le solite miserie della vita associativa degli esseri umani, che sono tutt’altro che buoni e generosi (Marx non era mica un minorato come i “buonisti” d’oggidì). Tuttavia, non vi sarebbe stato nessuno in grado di prelevare il pluslavoro fornito dagli altri, poiché tutti sarebbero stati salariati, quindi pagati, in media, secondo il valore della loro forza lavoro. Il pluslavoro, sempre in valore, veniva assorbito dalla proprietà assenteista grazie al diritto di nominare chi disponeva del “surplus” creato dal lavoratore collettivo nella produzione.

Una volta goduto di questo diritto (azionario) di disposizione del pluslavoro (nella figura del profitto, che veniva trattato come un interesse o dividendo), i proprietari, disinteressati alla produzione, sarebbero slittati verso una mentalità “finanziaria”, con la tipica credenza di questi personaggi che il guadagno nasca dal semplice impiego del denaro in sé. E poiché tali guadagni sono più rapidi in quei luoghi dove ormai si contrattano istituzionalmente i titoli (Borse valori), nulla di meglio che interessarsi solo a questi tipi di investimento (di capitali in denaro o equivalente), disinteressandosi delle sorti delle unità produttive, salvo sporadici “ritorni di fiamma”, ma sempre funzionali allora a mantenere in vita il più possibile (cioè fino a quando non si potessero liquidare vantaggiosamente le proprie posizioni azionarie) la “gallina dalle uova d’oro”.

La prima conseguenza di queste trasformazioni era (sempre per Marx) l’impedimento posto da una proprietà siffatta al pieno sviluppo delle potenzialità contenute nella riunione di direzione ed esecuzione (potenze mentali e manuali) nel lavoratore collettivo. La dinamica capitalistica aveva mostrato – a causa della “concorrenza” per battere gli avversari, quindi non certo per consapevolezza dei capitalisti/proprietari – la forza della razionalità del minimax (e del coordinamento e cooperazione tra più operazioni lavorative) proprio nel suo campo specifico d’applicazione: l’unità produttiva (la fabbrica). Diveniva però anche evidente quanto sarebbe stata ancora più produttiva se si fosse estesa al coordinamento e cooperazione di un numero sempre maggiore di unità produttive. La dinamica del capitale, per sua intrinseca “natura”, indicava la via che dalla centralizzazione dei capitali – ormai divenuta centralizzazione finanziaria dopo la separazione della proprietà del capitalista dalla sua funzione direttiva nella produzione – avrebbe condotto all’effettiva centralizzazione riferita al coordinamento delle varie unità produttive.

Da qui nasceva l’idea che fosse possibile la pianificazione generale centralizzata della produzione; non per semplice imposizione d’imperio, seguendo invece l’andamento dello sviluppo delle forze produttive, socializzate inconsapevolmente dalla stessa dinamica dei rapporti capitalistici. Tuttavia, a tale sbocco “naturale” (naturalmente sociale) faceva da ostacolo e limite la proprietà ormai dedita a manovre finanziarie. In definitiva, questa possibilità (e potenzialità) si sarebbe scontrata con la resistenza dei proprietari, ormai azionisti e dediti alle operazioni di Borsa, ecc., ai quali conveniva perciò non spingere la centralizzazione oltre certi limiti che, annullando progressivamente l’intermediazione mercantile, avrebbe fatto venir meno anche la necessità del denaro.

Quest’ultimo – nella formazione capitalistica caratterizzata dal generale scambio di merci; e già sappiamo nell’ambito di quale rapporto sociale (che è il capitale) si generalizza lo scambio mercantile – allarga necessariamente le sue funzioni: da semplice intermediario alla misura del valore e alla sua accumulazione, facendo confondere il suo possessore, convinto che esso possa accrescersi a partire da se stesso, salvo poi patire il tracollo delle crisi. Se fosse finita la funzione del denaro (ridotto al ben noto buono certificante il lavoro prestato come Marx pensava sarebbe accaduto nella fase socialista), sarebbe stato messo in scacco il diritto di proprietà sulle unità produttive, il controllo tramite pacchetti azionari di queste ultime, la nomina dei consigli di amministrazione indispensabili a mantenere in piedi la distribuzione in dividendi azionari del profitto (plusvalore/pluslavoro estratto al lavoratore collettivo di fabbrica); distribuzione che spesso non viene effettuata (a decisione però dei consigli nominati dai proprietari d’azioni), ma che non deve essere eliminata quale diritto ad effettuarla, altrimenti non esistono più titoli dotati di valore, quindi immediatamente scambiabili in denaro, base indispensabile per la partecipazione a tutte le manovre di Borsa, ecc. ecc.

La semplice centralizzazione dei capitali, quindi, sarebbe entrata in conflitto con quella delle unità produttive, promossa dai vari gruppi del lavoratore collettivo cooperativo. La prima avrebbe dovuto (e voluto) conservare lo scambio di merci e la funzione del denaro per compire tutte le varie operazioni di Borsa e finanziarie; si sarebbe quindi opposta tenacemente alla centralizzazione produttiva oltre dati limiti. Ma è quest’ultima che, allargando progressivamente l’ambito del coordinamento cooperativo e dunque l’applicazione sempre più consapevole della razionalità del minimax, sarebbe in grado di consentire quell’incremento esponenziale delle forze produttive in grado di realizzare l’obiettivo del comunismo: “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.

Ecco il perché della predizione marxiana e marxista (e anche leninista) secondo cui il rapporto di capitale avrebbe infine bloccato lo sviluppo delle forze produttive, facilitando la presa di coscienza dei lavoratori in merito alla rivoluzione. Arrivati alla fase della centralizzazione capitalistica, cioè della separazione di proprietà e direzione con le varie conseguenze che già conosciamo – fra cui la creazione della proprietà azionaria e l’estrazione del plusvalore mediante le nuove forme di controllo sull’unità produttiva (la fabbrica, sede del lavoratore collettivo), che poi conducono alle manovre sui pacchetti azionari, ai giochi finanziari, ecc. – sarebbe stata bloccata l’ulteriore socializzazione delle forze produttive. Quest’ultima, quindi, avrebbe oggettivamente richiesto la rimozione di tale ostacolo al coordinamento delle unità produttive e al conseguente superamento del mercato, comportante necessariamente il denaro con tutti gli effetti cui dà origine (ancora una volta si rilegga il passo citato del par. 7 sull’accumulazione originaria).

Per dirla alla Fantozzi, il “socialismo di mercato” è dunque una “boiata pazzesca”, una contraddizione in termini, un totale abbandono del “porto di partenza marxiano”. Non però perché si è salpati alla ricerca di nuove soluzioni dopo le drastiche, violente, inappellabili, smentite subite dalla storia. Semplicemente perché si è imbroglioni come certe dirigenze di paesi che ancora fingono il “socialismo”; o perché si è intellettuali privi di ogni concretezza, ma attaccati all’idea generica di una società di eguali e cooperanti. In ogni caso, non si è capito nulla dell’intima logica dei passi compiuti da Marx nell’analisi del capitale per arrivare alla conclusione (rivelatasi errata) dell’oggettiva possibilità del socialismo. Questi non pensatori, questi imbonitori da strapazzo hanno occupato il campo per quarant’anni almeno, hanno tutto distrutto e hanno messo in silenzio chi, come il sottoscritto, conosce a menadito gli anfratti di quella teoria, di quel “porto”. Un porto comunque ordinato, ben costruito, solo non più attrezzato per ospitare navi moderne e rifornirle del necessario prima di salpare.

 

13. Una volta arrivati a questo punto, è da ribadire qual è il rapporto sociale fondamentale che ancora farebbe della società, se si fosse avverata la previsione di Marx circa la formazione del lavoratore collettivo, una formazione capitalistica; qual è il rapporto dell’affermazione marxiana “il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale”. Sarebbe pur sempre il rapporto del lavoro salariato, dell’acquisto della forza lavoro come merce, messa a disposizione da chi possiede solo quest’ultima a chi possiede i mezzi produttivi mediante una libera contrattazione, in cui si stabilisce in media lo scambio secondo equivalenti, cioè secondo la parità delle quantità di lavoro incorporate nelle merci scambiate. Sempre ricordando che la merce forza lavoro vale secondo il lavoro incorporato nelle merci necessarie alla sussistenza storico-sociale del suo portatore (e certo secondo le diverse qualifiche e complessità della prestazione di lavoro che quest’ultimo fornisce); quindi, il denaro che il possessore dei mezzi produttivi dà come salario (allora reale) al prestatore di forza lavoro deve equivalere in media alla possibilità d’acquistare queste merci.

Chi presta in qualità di salariato il lavoro direttivo, le potenze mentali della produzione – quelle funzioni che nella prima fase capitalistica detta concorrenziale, precedente la centralizzazione, erano esercitate dal proprietario dei mezzi produttivi, dal capitalista – è interessato, spinto dalla razionalità del minimax, ad estendere via via la centralizzazione e coordinamento (pianificato) delle unità produttive (fabbriche, opifici della trasformazione da materia prima in prodotto finito) a tutta la sfera economico-produttiva. Il capitalista possessore dei mezzi, persa la funzione direttiva che è obbligato ormai ad acquistare come normale lavoro salariato, non può consentire oltre certi limiti a questo allargamento completo della centralizzazione e coordinamento produttivi. Egli non ha più la possibilità, come all’inizio, di confondere il profitto (che è pluslavoro/plusvalore estratto alla forza lavoro) con la remunerazione (salario di direzione) della sua forza lavoro direttiva; può ormai solo fare appello alla “copertura” del rischio di perdita dei capitali. Debole ripiego; nessuno gli chiede di rischiare, rinunci pure al possesso dei mezzi produttivi, che tornerebbero ad essere posseduti da quel lavoratore collettivo operante nelle unità produttive, in cui essi sono già impiegati da chi ha la capacità e compito precipuo di utilizzarli. Così finirebbe la separazione tra soggetto lavoratore e mezzi del suo lavoro, che è stato processo generale attuatosi nella transizione alla formazione caratterizzata da quel rapporto sociale (del lavoro salariato) che è il capitale.

Tanto più che il possesso dei mezzi produttivi, quando essi appartengano a figure sociali totalmente esterne al processo di lavoro in cui sono utilizzati, diventa diritto di proprietà esercitato sulle quote in cui è stato suddiviso il capitale; adesso nel mero senso della cosa e non del rapporto, nel senso di fondi a disposizione dell’unità produttiva per acquistare mezzi e forza lavoro in qualità di merci. Il capitale azionario implica un diritto di proprietà sull’unità produttiva – con tutto quanto abbiamo già visto in merito alla nomina dei consigli di amministrazione, dei vertici d’essa, ecc. ecc. – ma non è altro, in realtà, che una massa di mezzi finanziari (in definitiva di denaro) con cui si acquistano “i fattori della produzione” come merci, mascherando sotto questa cumulativa dizione la differenza tra acquisizione dei mezzi e acquisizione della forza lavoro separata da questi ultimi e costretta a vendersi per unirsi ad essi e produrre, cedendo però il pluslavoro ecc. ecc. (spero che a questo punto si sappia proseguire).

Non a caso, nella formazione sociale – in cui si verifica la centralizzazione dei capitali, in cui si attua cioè sia la separazione della proprietà dalla direzione della produzione in senso stretto sia l’assunzione dell’intero processo, che si svolge nelle diverse unità produttive, da parte dei vari gruppi del lavoro collettivo (cooperante secondo il minimax), ecc. – capitale industriale e capitale di credito (bancario) entrano in “simbiosi” (secondo la definizione leniniana di capitale finanziario, ulteriore sviluppo e precisazione della concezione di Hilferding), si intrecciano indissolubilmente fra loro. Il capitalista, che acquista le azioni in cui è suddiviso il capitale (cosa) delle unità produttive capitalistiche divenendone proprietario pro quota, e il capitalista, che funge apertamente da prestatore (a credito) di capitali esterno alla produzione (anche lui costituitosi in “capitalista collettivo” proprietario pro quota di quelle società per azioni che sono banche), si confondono spesso eppur vogliono distinguersi.

Essi hanno interessi comuni al mantenimento della struttura capitalistica che ormai, nella visione marxiana, blocca lo sviluppo produttivo perché pone limiti alla crescente centralizzazione e coordinamento delle unità produttive e alla possibilità di sanare la separazione tra soggetto lavoratore e mezzi della sua prestazione lavorativa. Tuttavia i loro interessi anche divergono, essendo diverse le “unità di gestione” (quelle produttive e quelle di credito) da cui essi o estraggono il plusvalore (unità produttive) o comunque si distribuiscono il plusvalore estratto (tra le precedenti e quelle di gestione del credito). Gli agenti capitalistici si affannano in continuazione, tramite i loro legulei, per distinguere in punta di diritto la funzione proprietaria da quella del credito. Sforzi vani di ossessivi (e ossessionati) formalisti, perché la gran parte di coloro che acquistano azioni di grandi società, sulle quali non hanno alcuna possibilità di controllo, è come acquistasse obbligazioni (titoli che per lui hanno soltanto un differente regime di interesse); egli compra le une e le altre per collocare i suoi “risparmi” o perché allettato dalle incessanti variazioni delle quotazioni di Borsa, da cui spera di ottenere un lucro (e se rimane pelato, tutto sembra asettico, legato a fortuna o abilità nel navigare tra le “cieche leggi” della “mano invisibile”, che lo è infatti ma nelle sue manovre truffaldine). D’altra parte, chi esercita apertamente e per mestiere la funzione del credito, date le dimensioni delle unità che lo gestiscono e l’entità dei crediti concessi alle varie unità produttive, ha spesso molta voce in capitolo nel controllo e gestione di queste ultime.

Si trovano inoltre parecchi marchingegni per distinguere il credito di esercizio, a breve, da quello per investimenti in capitale fisso, quindi di lungo periodo. Sono in fondo palliativi; non completamente inutili ma certo non essenziali. Così come in altro ambito non lo sono le varie norme stabilite per impedire le pratiche “monopolistiche” (poiché si fissano soltanto confini quantitativi, assoluti o meglio percentuali); o, in altro ambito ancora, il perseguimento (penale) dei “finanziamenti occulti” o degli “imbrogli aperti” o delle “evasioni (o elusioni) fiscali”. E chi più ne ha più ne metta. Ripeto: restando nelle pastoie della fase attuale di questa formazione sociale, simili pratiche sono necessarie per smussare l’effetto di certe “irregolarità”. Tuttavia, non si tocca l’essenza del problema.

Nella concezione marxiana, si sarebbe necessariamente arrivati al contrasto più acuto tra tutti i fenomeni (già visti) relativi alla centralizzazione e coordinamento delle unità produttive, resi possibili dalla razionalità dell’efficienza economica, e quelli ancora derivanti dalla separazione delle unità produttive (di merci), preciso portato del permanere del capitale come rapporto, il cui aspetto decisivo, cruciale, è sempre il rapporto della compravendita di forza lavoro nel mercato. Quando, con la centralizzazione dei capitali, la proprietà si separa dalla direzione e questa si ri-unisce all’esecuzione in unità produttive complessivamente coordinate secondo la razionalità del minimo mezzo (e della cooperazione tra molte funzioni lavorative), soggetto lavoratore e mezzo sanano apparentemente la loro separazione. E’ semplice illusione, perché non siamo nell’artigianato; il mezzo produttivo è ormai divenuto l’intera unità produttiva (fabbrica). Se questa, mediante l’azione del capitale finanziario appena sopra considerata, è ancora in mano altrui rispetto al lavoratore collettivo che coopera all’interno d’essa, il rapporto sociale che è, secondo Marx, il capitale non è per nulla superato. Ed infatti, è il capitale finanziario – sia nella forma del capitale azionario in mano a chi nomina gli amministratori e controllori dell’unità produttiva; o invece in quella del capitale di credito concesso da una unità di gestione dello stesso (mettiamo pure il credito a “cooperative di produttori associati”) – a consentire sia l’acquisto dei mezzi produttivi sia quello della forza lavoro (direttiva ed esecutiva) in qualità di merce.

E’ la permanenza della merce – ma in modo tutto specifico della merce forza lavoro, il rapporto sociale decisivo – a segnalare senza ombra di dubbio che siamo ancora sostanzialmente, al di là delle forme illusorie, nella società capitalistica; alla faccia degli imbroglioni (e/o imbecilli) del “socialismo di mercato”. Secondo la visione di Marx, si viene senza dubbio formando la base sociale della transizione – il lavoro collettivo cooperativo – tramite il processo di centralizzazione dei capitali, comportante la vasta socializzazione delle forze produttive che gli abbiamo visto sopra descrivere (a questo punto si legga al gran completo quel paragrafo 7 citato, di pochissime pagine, perché qui non posso riportarlo per intero). Questa base sociale non è però sufficiente perché il capitale, divenuto quello della proprietà azionaria o del denaro dato a credito (molto simili ormai fra loro, in reciproca simbiosi nel capitale finanziario), impedisce la transizione all’immaginato socialismo.

 

14. Chi garantisce il diritto di proprietà? Lo Stato! Ecco perché sono ambigui i riformatori “progressisti”, quelli della conquista delle maggioranze in “democrazia” (semplice garanzia formale, non sempre nemmeno rispettata, dell’equivalenza nello scambio mercantile e soprattutto della libera contrattazione di compravendita di merce forza lavoro). Bisogna abbattere questo baluardo – sto sempre accettando l’impostazione del problema data da Marx, sono sempre nel suo porto, quello della “mia partenza”! – trinceratosi dietro l’asettico Diritto, in realtà strumento di oppressione attraverso il mantenimento di quel rapporto sociale che è il capitale, della compravendita di merce forza lavoro che assicura comunque il pluslavoro (sfruttamento). Nel capitalismo concorrenziale – proprietà e funzione direttiva nello stesso soggetto, il capitalista – tale sfruttamento è più difficilmente smascherabile, poiché il pluslavoro estratto (già contenuto potenzialmente, lo ricordo, nello scambio tra possessore dei mezzi e possessore di forza lavoro) si confonde con la remunerazione (salario) del lavoro direttivo. Con la centralizzazione, la funzione direttiva del capitalista cade, il salario di direzione è come gli altri salari, equivale alla sussistenza storico-sociale dei lavoratori in quanto dirigenti produttivi.

Resta lo Stato a garantire il diritto di proprietà azionaria, quello del commercio di denaro in quanto credito, ecc, ecc. Hilferding, socialdemocratico, ebbe la pensata di una banca statale centrale, amministratrice unica del credito alle unità produttive, sede dei processi che si supponeva sarebbero stati tendenzialmente controllati dal lavoratore collettivo cooperativo. Non basta invece affatto per garantire la transizione al socialismo. Con quel credito viene acquistata merce forza lavoro, da cui viene poi estratto il plusvalore (pluslavoro) necessario alla restituzione del credito (interessi compresi). E chi gestisce questo credito – con potere di fatto autonomo, nascosto dietro la forma del Diritto, a sua volta garantito dallo Stato, che così protegge pure il reale gruppo capitalistico mascheratosi dietro le funzioni della Banca unica centrale – controlla il plusvalore. Non sono i produttori associati, i membri del lavoratore collettivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”) a gestirlo, a distribuirlo fra gli impieghi utili allo sviluppo di una nuova formazione sociale. Si salta allora la Banca e si affida tutto direttamente allo Stato? Non cambia il problema, soltanto il gruppo che gestisce il potere nello Stato e controlla il plusvalore.

Con la rivoluzione del ’17 e successivi sviluppi, cadde l’illusione della rivoluzione laddove i processi di centralizzazione dei capitali avevano condotto assai più avanti la socializzazione delle forze produttive, e quindi la possibilità di progredire nella centralizzazione coordinata delle unità produttive, contrastando e poi sconfiggendo il predominio proprietario collegabile al capitale finanziario; non inteso da Lenin, questo sia chiaro, in un senso così restrittivo come quello invalso oggi. Si trattava della simbiosi tra industriale e bancario pur se, influenzato da Hilferding (ma in relazione al tipo di sviluppo capitalistico tedesco), il grande rivoluzionario bolscevico vedeva in tale simbiosi la prevalenza del capitale bancario, mentre poi la formazione capitalistica che conquistò il predominio centrale (gli Usa) vide la chiara predominanza della grande corporation industriale.

L’Urss rimase alla fine isolata nella costruzione del socialismo, anche se, finché visse Lenin, non fu abbandonata completamente l’idea del mero “avamposto della rivoluzione mondiale” e non si dichiarò mai ufficialmente la “costruzione del socialismo in un paese solo”; tuttavia, a questa ci si dedicò in realtà, compiendo perfino quell’arretramento, pensato come soltanto tattico, della NEP. Lenin riprese il suo vecchio concetto di formazione sociale (Che cosa sono gli “amici del popolo”), aggiornandolo. In Marx la formazione sociale si confonde in realtà con il modo di produzione. Il capitalismo non si riduce a quest’ultimo; tuttavia la formazione sociale capitalistica è quella in cui tale modo sociale di produrre – in cui, lo ripeterò fino alla sazietà, quel rapporto che è il capitale è, nel suo senso più specifico, quello dello scambio di forza lavoro venduta liberamente come merce dal suo possessore a chi possiede i mezzi della sua estrinsecazione – assume la funzione preminente, indicando l’ineluttabile via dello sviluppo della società detta capitalistica.

In un paese capitalisticamente arretrato qual era l’Urss, Lenin illustrò una formazione sociale composta dalla interrelazione tra più modi di produzione (tra più rapporti sociali caratterizzanti diverse modalità della produzione complessiva in tale società), in disarmonia e conflitto tra loro e di cui uno assumeva la predominanza in fasi successive dello sviluppo societario. Questa era indicata quale formazione sociale di transizione al socialismo. Lenin sapeva che il modo di produzione socialista (da lui non sempre ben distinto da quello in cui sussisteva la proprietà semplicemente statale dei mezzi produttivi, cioè delle unità produttive che rappresentano ormai tali mezzi, usati in esse quali sistemi meccanici) non era all’inizio nemmeno quello dominante. Anzi, sarebbe già stato un progresso – che si cercò di ottenere appunto con la NEP – passare dal modo di produzione della piccola proprietà contadina e semiartigianale (legata in genere alla campagna) al vero modo di produzione capitalistico basato sulla concentrazione urbana di “masse operaie” in grandi fabbriche.

 

15. In un contesto simile, decisivo appariva allora che tale processo fosse guidato, controllato e orientato (verso il socialismo) dallo Stato di cosiddetta dittatura proletaria. E’ appunto qui che sorse il cortocircuito fatale per questa impostazione del problema rivoluzionario, problema ancor oggi irrisolvibile poiché inestricabilmente connesso all’errore di Marx, che vedremo nella seconda parte, ma di cui ho già ampiamente trattato in passato (in ormai almeno vent’anni di studio e riflessione autocritica). Questa “dittatura proletaria” (supposta dittatura della maggioranza sulla minoranza, che dovrebbe quindi rovesciare quella della borghesia, dittatura della minoranza) diede infine origine ad una propaganda tutt’affatto nominalistica, dal momento che non veniva indicato quale effettivo rapporto sociale dominante si deve formare nella società in via di transizione. La dittatura proletaria divenne semplicemente la formula di copertura della dittatura esercitata da una presunta avanguardia (il partito) della “classe” proletaria. Altra illusione ideologica che mascherava la pura e semplice affermazione di uno dei gruppi di potere in lotta per conquistare il controllo dello Stato, in quanto effettivo organo (insieme di apparati politici e ideologici) da cui esercitare la supremazia sul complesso sociale.

La pianificazione centrale non superò mai nella realtà del preteso “socialismo” la forma di merce (qui valgono ancora a mio avviso gli approfonditi studi di Bettelheim). In particolare, la forza lavoro mantenne sostanzialmente questo carattere nel rapporto con le direzioni delle grandi unità produttive sovietiche (i Kombinat). Per di più, essa perse di fatto la libertà di contrattazione, assunta da sindacati che rappresentavano direttamente gli organi di potere del partito (nello Stato), ne erano anzi emanazione. Ci si ricordi la tesi della “cinghia di trasmissione”, uno dei motivi di polemica del comunismo contro i sindacati socialdemocratici, meramente tradunionisti, quindi organi di quella che fu considerata l’aristocrazia operaia giunta ad un compromesso, “per un piatto di lenticchie”, con la borghesia capitalistica.

Nella visione di Marx, la centralizzazione dei capitali – opponendosi, come già visto, alla piena estensione di quella delle unità produttive, comportante la crescente socializzazione delle forze in queste ultime espresse, ecc. (sempre il par. 7 tanto citato) – alla fine bloccava lo sviluppo di tali forze; e questo fatto, assieme al costituirsi della base sociale necessaria (il lavoratore collettivo), avrebbe spinto alla rivoluzione, all’abbattimento dello Stato che difendeva il diritto di proprietà e quindi la separazione tra i “produttori associati” e i mezzi (ormai le unità produttive come complessi sistemi degli stessi) mediante i quali essi esplicavano la loro capacità lavorativa (ai vari livelli direttivi ed esecutivi). Questa visione, direttamente discendente dal suo “errore”, faceva del socialismo (in quanto primo obbligatorio gradino per “salire” al comunismo) la forma sociale che sbloccava lo sviluppo delle forze produttive. Nei quasi cinquant’anni di “guerra fredda”, in quanto competizione tra “campo capitalista” e “campo socialista”, dopo una prima illusione (lo Sputnik, ecc.) si assistette ad un rigoglio, pur tra crisi (le recessioni), del primo campo e all’imbozzolamento, putrefazione e poi crollo del secondo. E i “comunisti” restarono imbambolati per la sorpresa.

Tutto questo ha fatto necessariamente rifiorire le tesi intorno alle “meraviglie” del “libero mercato” (la “mano invisibile” tornata pienamente virtuosa), in cui si esplica la “sana” competizione tra imprese (che non sono mere unità produttive) in grado di portare al pieno sviluppo produttivo, che si pretendeva dovesse invece essere il vanto del socialismo. E non solo lo sviluppo quantitativo, come credono tanti sciocchi critici (decrescisti) del capitalismo, ma scoperta di nuovi settori, lancio di innovazioni nient’affatto superflue come sostenuto dai marx-keynesiani alla Baran-Sweezy nel loro Capitale monopolistico, testo ben più che invecchiato. Il blocco delle forze produttive si ebbe con il “socialismo reale”, che pensò di sostituire alla “privata” la mera proprietà statale dei mezzi, con potere di limitazione della libertà contrattuale dei prestatori di forza lavoro, potere assegnato ai gruppi in lotta per la supremazia nell’ambito degli apparati della sfera politica. Una limitazione accompagnata, per vasti settori di salariati (ai livelli più bassi), da condizioni semiservili a garanzia di una paternalistica protezione in tema di assistenza sociale (poi degradata per mancanza di sviluppo delle forze produttive) e di blandi ritmi di lavoro, con ulteriori fenomeni di stagnazione. E creando inoltre una tensione sociale crescente nei confronti di “ceti medi” con più alte qualifiche e scalpitanti in attesa di essere valorizzati per le loro maggiori competenze, ecc. Insomma, tutto ciò che ha portato ai processi degli ultimi decenni.

E non si creda di salvarsi con l’esempio della Cina. In essa, si è dato libero sfogo – molto più di quanto non appaia nei resoconti ideologici, che non sono solo quelli degli apologeti, ma anche quelli dei critici ignoranti del filo-capitalismo (“occidentale”), sciocchi grilli parlanti contro un comunismo inesistente – all’iniziativa imprenditoriale, spesso addirittura nelle sue dimensioni al massimo medie. Le circa 3000 grandi imprese statali – eredità delle fanfaluche sulla dittatura proletaria, la pianificazione centrale, i “produttori associati”, che sono invece salariati con “libertà limitata” dai sindacati “cinghia di trasmissione” dei gruppi di potere nel partito-Stato, ecc. ecc. – sono decotte, in perdita fortissima. Per pure ragioni di quiete sociale (comunque non proprio assicurata), si cerca di smembrarle e liquidarle con gradualità, utilizzando vari cosiddetti “ammortizzatori sociali”. Comunque, si procede verso una formazione sociale affatto diversa, che non diventerà quella del capitalismo “occidentale”, ma comunque ancora largamente sconosciuta. E mi permetto perfino di prevedere, entro un lasso di tempo non lunghissimo (dieci anni penso saranno sufficienti), cambiamenti, ci si augura non tumultuosi, degli assetti sociali e soprattutto politici, che condurranno poi, in un ben più lungo lasso di tempo, alla formazione sociale “sconosciuta”.

In ogni caso, questa problematica esige, prima di ogni altra analisi, una riflessione approfondita sul problema dello Stato, trattato oggi come si fosse alle “scuole elementari”. Dobbiamo ancora dare l’“esame di ammissione alle medie”. Mi fermo quindi per non iniziare un discorso del tutto nuovo e la cui direzione non saprei al momento indicare. Fin qui, infatti, ho soltanto esaminato – credo però come non si faceva da troppo tempo – il “porto di partenza”. Ovviamente, non ho visitato tutti i moli, tutti i docks e quant’altro ci sia (non conosco molto i porti veri). Ne ho solo tratteggiato uno schizzo e soprattutto mi sono concentrato sulla “insenatura” in cui è situato, per ben individuare quel rapporto sociale che è il capitale, secondo la nota formula marxiana. Se non si conosce questa “insenatura”, si salpa sbagliando rotta e ci s’incaglia fin da subito. Adesso, nella seconda parte, tracceremo la rotta, ma sarò più breve, certamente più breve. In effetti, si prende il mare, si pensa di andare verso le Indie; poi qualcun altro, assumendo il comando delle navi, si troverà magari nelle Americhe. Almeno si spera.

 

 

SECONDA PARTE

 

LA ROTTA DI PARTENZA: L’“ERRORE” (CON IL “SENNO DI POI”) DI MARX

 

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APPENDICE CON CITAZIONI (COMMENTATE) DI MARX

(cap. IV, libro I de Il Capitale: “La trasformazione del denaro in capitale”)

 

<<La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale>>.

 

<<La formazione di plusvalore, quindi la trasformazione del denaro in capitale, non può dunque essere spiegata né per il fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, né per il fatto che i compratori la comperino al di sotto del loro valore>>.

 

<<S’è visto che il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e che quindi nella sua formazione non può non accadere alle spalle della circolazione qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa>>.

 

<<Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire da essa, ed insieme non in essa>>.

 

Passo cardine di tutta la teorizzazione marxiana, della sua spiegazione che il rapporto sociale (che è il capitale) nasce dentro la circolazione generalizzata delle merci – per cui non può esistere nulla che assomigli ad un “socialismo di mercato” – eppure è reso invisibile nella sua sostanza dalla libertà formale che informa i rapporti tra possessori di merci in questa circolazione mercantile generalizzata, portato esclusivo della forma di società capitalistica. Questo è l’aspetto fondamentale di quell’“arcano” che è la forma di merce: rapporto tra cose che si sostituisce al rapporto tra uomini, ma soprattutto rapporto in cui è già contenuta la sostanza dello sfruttamento (estrazione del surplus di lavoro che diventa il profitto capitalistico), ed è nel contempo rapporto di equivalenza nel libero scambio di merci tra eguali possessori delle stesse. Quindi la merce acquisisce lo “statuto” di feticcio, di “misteriosità deità” che guida la vita degli uomini nella formazione capitalistica, facendoli apparire eguali nel mentre sancisce la loro diseguaglianza.

Forse l’unico inconveniente nell’esposizione di Marx è di avere messo il paragrafo sul feticismo nel primo capitolo sulla merce. In ogni caso, non si poteva confondere tale feticismo con l’alienazione, mai citata infatti da Marx. Tuttavia, si rischia di perdere quell’“arcano” fondamentale, direi la reale maschera del capitalismo che non gli viene tolta nemmeno oggi (e tanto meno da marxisti ormai degenerati in “deboli pensatori”): il capitalismo è “libertà ed eguaglianza” e tuttavia, nello stesso tempo, è sfruttamento e diseguaglianza. Come chi si alza la mattina e vede tranquillamente il Sole viaggiare da est a ovest, così il pensatore dei dominanti si acquieta in questa libertà ed eguaglianza e crede alla potenza insita nell’azione imprenditoriale, in pieno rispetto delle leggi di mercato, oggettive e “naturali” (come appunto il “viaggio” del Sole); al massimo lo statalista (a volte ancor più nocivo) ci racconta della possibilità (effettiva) di lenire qualche stortura sociale, con l’intervento del Demiurgo, un insieme di apparati che sono la summa della diseguaglianza di potere e di conflitto tra i potenti.

Quando occorre, tale pensatore, con i vari giornalisti al seguito, blatera contro i finanzieri, che avrebbero provocato quelle catastrofi del tutto intrinseche al funzionamento di questa società; e tuttavia provvisorie, di fase (ciclo), autentiche malattie di un organismo che non lo conducono affatto alla morte, anzi lo sgravano delle tossine accumulate. E i marxisti degeneri seguono questo andazzo, perché anche loro dormono di notte e regolano la loro veglia sull’andamento della giornata che va “naturalmente” dall’alba al tramonto. Che sia la Terra a ruotare (e nella direzione dal tramonto all’alba, da ovest ad est) non possono sospettarlo, restano inorriditi e sprezzanti di fronte a chi glielo rivela, esattamente come i tolemaici ai tempi dei tempi. Ti prendono per matto, in preda a fantasie “pericolose”. E così ancor oggi, nella nuova crisi, dobbiamo veder sciorinata tutta la falsa sapienza degli apologeti di questo sistema, mai contrastati sui punti essenziali dai “critici che più critici non si può”. Basti vedere le solite litanie contro la finanza, meglio se contro i finanzieri che, essendo singoli individui, possono essere fatti passare per persone infide, poco corrette, che si scatenano in imbrogli. E allora giù con gli alti lai sulla decadenza dell’etica, con i capitalisti di una volta che si suicidavano quando falliti mentre questi ci inzuppano il pane. E via con tutte le coglionerie, che si ripetono pari pari da metà ‘800 se non da prima ancora, visto che Balzac è morto nel 1850; ed è incredibile leggere le sue opere e trovarsi nel mondo d’oggi.

 

<<Dunque il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M [Denaro-Merce ; che è la merce forza lavoro; ndr], ma non nel valore d’essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce vien pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo>>.

 

Consumo che avviene ovviamente dentro il processo lavorativo, dove varia la quantità del surplus (pluslavoro/plusvalore) estratta da quest’uso; mentre la “legge” dello sfruttamento capitalistico, con il suo gioco di eguaglianza e libertà celanti la diseguaglianza, si è già costituita con il formarsi del lavoro salariato (mercato della forza lavoro) e la generalizzazione a merce di ogni prodotto lavorativo umano.

 

<<E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro>>.

Ogni commento è superfluo.

 

<<…. affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddisfatte diverse condizioni [………..] la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre per un tempo determinato, poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce [………]. La seconda condizione essenziale, affinché il possessore di denaro trovi la forza-lavoro sul mercato come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci, nelle quali si sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi sia costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente [……]. Dunque, per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella qualità di libera persona, e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro>>.

 

E’ fin troppo chiaro di quali “cose necessarie” si tratti: dei mezzi produttivi, da cui il possessore della forza lavorativa è separato, e senza i quali non può realizzare né un processo “in proprio” (come Robinson nella sua isoletta) né una produzione di merci con cui procurarsi il denaro e acquistare, secondo il principio dello scambio di equivalenti (M-D-M), gli altri oggetti utili al suo vivere. Non siamo alla produzione mercantile semplice dell’artigianato, ma appunto nella produzione capitalistica, in cui il rapporto sociale fondamentale è tra possessore di denaro (con proprietà dei mezzi produttivi da mettere in moto tramite forza lavoro) e libero possessore di quest’ultima, venduta quindi in forma di merce (altrimenti il possessore dovrebbe vendere se stesso assieme alla forza lavorativa e ci troveremmo situati in altro rapporto sociale).

 

Il capitolo si chiude con una delle brillanti “sparate” sarcastiche in cui Marx era maestro e che tuttavia illustra il carattere ingannevole (il “giro del Sole intorno alla Terra”) che la società capitalistica presenta e che ancor oggi non è superato:

 

<<La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro, era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Quivi regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham. Libertà! Poiché compratore e venditore d’una merce, per es. della forza-lavoro, sono determinati solo dalla loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone, giuridicamente pari. Il contratto è espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scambiano equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare solo con se stesso. L’unico potere che li mette l’uno accanto all’altro e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d’una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale>>.

 

E così sia!