LA SUBORDINAZIONE DELL’ITALIA NEL CAOS DELLA STORIA ATTUALE

 

Sul Corriere della Sera di ieri (07.08.2011) troviamo un editoriale di Mario Monti che in questa occasione ci pare valga la pena di essere commentato, visti gli argomenti trattati e l’approccio sufficientemente problematico. L’economista inizia considerando che

<<dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie>>.

Sempre i soliti discorsi, direte voi, invece più avanti il nostro europeista così si esprime:

<<Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un «governo tecnico». Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un «governo tecnico sopranazionale» e, si potrebbe aggiungere, «mercatista», con sedi sparse tra Bruxelles, Francoforte, Berlino, Londra e New York.>>

Così il nostro editorialista ammette, implicitamente, il cedimento – di fronte “all’attacco” internazionale portato all’Italia e non solo – del nostro governo e dei partiti di maggioranza alle decisioni degli Usa e dei loro “sgherri” europei. Monti afferma di riconoscere l’utilità di certi “vincoli esterni” di fronte alla paralisi politica e decisionale di un paese ma, nel caso specifico, è costretto a segnalare anche alcuni “inconvenienti”. Il primo riguarda la

<<scarsa dignità . Anche se quella del «podestà forestiero» è una tradizione che risale ai Comuni italiani del XIII secolo, dispiace che l’Italia possa essere vista come un Paese che preferisce lasciarsi imporre decisioni impopolari, ma in realtà positive per gli italiani che verranno, anziché prenderle per convinzione acquisita dopo civili dibattiti tra le parti. In questo, ci vorrebbe un po’ di «patriottismo economico», non nel fare barriera in nome dell’«interesse nazionale» contro acquisizioni dall’estero di imprese italiane anche in settori non strategici (barriere che del resto sono spesso goffe e inefficaci, una specie di colbertismo de noantri )>>.

La questione delle acquisizioni da parte di altri paesi delle nostre imprese non può naturalmente essere trattato con leggerezza; le imprese dei settori strategici, con partecipazione economica e soprattutto “politica” pubblica, devono essere difese dalle “scalate” dei concorrenti esteri e contemporaneamente risulterebbe importante stabilire accordi internazionali (joint ventures ecc.) per inserirsi in “aree di influenza” extra-europee e extra-Usa. Il secondo “inconveniente” concerne il “downgrading politico”:

<<Quanto è avvenuto nell’ultima settimana non contribuisce purtroppo ad accrescere la statura dell’Italia tra i protagonisti della scena europea e internazionale. Questo non è grave solo sul piano del prestigio, ma soprattutto su quello dell’efficacia>>.

Il terzo “inconveniente” a cui l’economista fa riferimento riguarda il “tempo perduto”. Particolarmente fuori luogo gli è parsa  la “perseveranza” con la quale si è preferito ascoltare solo poche voci, rassicuranti sulla solidità della nostra economia e anzi su una certa superiorità del modello italiano. Effettivamente, però, un ”mercatista” come Monti dovrebbe ammettere che tanti suoi colleghi ritengono certe affermazioni un po’ “ottimistiche”,  utili per rassicurare i piccoli investitori finanziari e in generale consumatori e risparmiatori. L’idea che la “fiducia” possa rimediare a tanti problemi dell’economia, anche “reale”, è stata sempre molto diffusa salvo in  momenti di crisi “vera”, come quello attuale, in cui tutti gli “esperti”, guarda caso, fanno a gara per mostrare di essere autentici campioni di “realismo” e pragmatismo.  L’ultima questione su cui pone l’accento Monti riguarda la penalizzazione della crescita a causa delle politiche di risanamento finanziario e debitorio. Così conclude infatti il professore:

<<Gli investitori, i governi degli altri Paesi, le autorità monetarie sono più preoccupati per i rischi di insolvenza sui titoli italiani, per il possibile contagio dell’instabilità finanziaria, per l’eventuale indebolimento dell’euro, di quanto lo siano per l’insufficiente crescita dell’economia italiana. […]L’essersi ridotti a dover accettare misure dettate dall’imperativo della stabilità richiederanno ora un impegno forte e concentrato , dall’interno dell’Italia, sulla crescita>>.

Ma è evidente che la coperta, anche in questo caso, risulta troppo corta; una politica di rientro del debito che propone il pareggio di bilancio per il 2013 renderà le possibilità di crescita del nostro paese ancora minori rispetto all’ultimo periodo  a meno che – evento da considerare poco probabile – gli Usa e il resto dell’Europa non riprendano a “correre” nel breve periodo. Appare abbastanza evidente il fatto che – nonostante il momento sia  critico anche per gli statunitensi ( o forse proprio per quello) – gli Usa, affiancati come non mai dagli stati “guida” europei (Germania, Francia, Regno Unito), stanno togliendo all’Italia e ad altri paesi del vecchio continente qualsiasi margine di autonomia in modo tale da ridurli, se le cose andranno in questa direzione, in una condizione economica e politica di tipo semicoloniale.

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Sempre sul Corriere del 07.08.2011 è apparsa una intervista a Paul Kennedy noto autore dell’importante saggio Ascesa e declino delle grandi potenze (1^ ed. 1987). Kennedy afferma:

<<Per quanto concerne l’ America, osserverò che l’ attuale crisi conferma il suo declino, e ribadirò che i suoi leader dovranno gestire il declino con intelligenza, in maniera da renderlo il più graduale, modesto e tollerabile possibile.[…]Voglio essere cauto: qualsiasi declino di una grande potenza è relativo, sia rispetto ad altre potenze che al proprio passato. L’ America continuerà a espandersi, ma meno della Cina a esempio, e meno rapidamente di prima. […]Il debito pubblico americano esplose negli Anni Ottanta perché il presidente Reagan, repubblicano, ridusse troppo le tasse e aumentò troppo le spese militari, provocando gravi deficit di bilancio. Negli Anni Novanta il presidente Clinton, democratico, ne contenne la crescita riportando il bilancio in attivo. Ma con Bush figlio e con Obama il deficit di bilancio è salito alle stelle: sotto Obama, che ha ereditato da Bush il disastro finanziario del 2008, si è triplicato. Ripeto: il debito sovrano americano è oggi a un livello inaccettabile>>.

Niente di particolarmente nuovo o stimolante in queste affermazioni dello storico americano del quale si può intuire una certa qual vicinanza al partito democratico. E difatti egli così continua:

<<Obama ha fatto quello che i suoi consiglieri gli hanno suggerito. Per salvare la finanza e rilanciare l’ economia ha stampato dollari ed emesso obbligazioni che sono stati comprati da Paesi come la Cina e il Giappone. Ma occorre anche altro, occorrono sacrifici, inclusi aumenti delle tasse, sebbene i repubblicani siano ideologicamente contrari.[…]L’ America si ridimensionerà, con che misure finanziarie non saprei dirlo, dipenderà dalla battaglia politica ed elettorale dei prossimi 18 mesi. Ma penso che si ritirerà dall’ Iraq e dall’ Afghanistan, che non manderà più eserciti smisurati in Medio Oriente e in Asia, riducendo il numero delle truppe. Manterrà i suoi impegni con la Nato e il Giappone, ma non aprirà nuovi fronti come la Libia>>.

Quello che viene spontaneo osservare è che uno storico esperto in economia, come Kennedy, al pari dei suoi colleghi, non riesce ad uscire dagli schemi usuali di interpretazione che volta a volta risultano prevalenti in una determinato momento, a causa evidentemente di un deficit di teoria che gli impedisce di inquadrare la situazione in questa fase di forte cambiamento. Effettivamente la situazione di caos globale in cui ci troviamo rende difficile qualsiasi tipo di previsione perché diventa praticamente impossibile produrre una sintesi a partire dai dati (fatti) empirici senza una griglia ordinatrice. Ma lo schema in cui inquadrare i fatti deve nascere da un potente sforzo di astrazione che renda intellegibile la struttura fondamentale degli oggetti studiati. Questo non significa che il lavoro di analisi debba essere esclusivo, ma l’azione politica compete all’organizzazione dotata di forza  e capacità (personale e cosale, intellettuale e materiale, tattica e strategica, ecc.). Le condizioni per costruirla/istituirla sono eventi singolari , spesso aleatori, seppure caratterizzati da “ragioni necessarie e sufficienti”. Chi riuscirà a cogliere il momento giusto per agire può accettare il rischio e tentare qualcosa.

Mauro Tozzato                       08.08.2011