Poste Italiane! Tanti bocconcini per tutti i gusti (di Giuseppe G.)
Il dibattito sulle privatizzazioni e liberalizzazioni procede, in Italia, stancamente proprio perché tende a porsi in maniera ideologica, come una lotta tra il bene ed il male; funge da perfetto complemento alla polemica su pubblico e privato, altrettanto fideistica perché legata all’antitesi bene pubblico/interesse privato.
È la versione domestica, un po’ tapina, di quei grandi panismi (cito Aymeric Chauprade), come le religioni, le ideologie palingenetiche le quali, con la loro forza e motivazione, riescono spesso a piegare inizialmente la realtà storica degli spazi che inondano ma che alla fine esauriscono la loro forza e sono costrette a fare i conti con la realtà, a frammentarsi dopo aver provocato rivolgimenti e, nella fattispecie, danni irreversibili.
Non riesce a cogliere le novità in corso nel dibattito all’estero le quali riflettono l’acutezza di uno scontro che non si limita al puro esercizio argomentativo. Lo scontro per via giudiziaria che ha portato, nel FMI, alla defenestrazione di Strauss-Kahn e alla nomina di Lagarde è solo uno, nemmeno il più significativo, degli esempi. Tale limite, più volte denunciato dal blog, non solo impedisce una valutazione rigorosa e impietosa delle scelte operate negli anni ’90, ma connoterà le prossime come dei veri e propri colpi di mano ai danni delle possibilità future di sviluppo autonomo del paese. Una classe dirigente che non è in grado di prospettare un futuro di paese forte e sovrano, con una struttura economica in grado di sostenere questa ambizione, non può far altro che celarsi dietro l’ineluttabilità del destino, che si chiami esso Europa, Globalizzazione, Occidente, Mercato o chissà quale altra entità astratta, ma che in realtà nasconde il conflitto e il predominio di formazioni e stati ben più agguerriti del Bel Paese. Si tende, quindi, a riproporre, né più e né meno, le stesse soluzioni di venti anni fa con buona parte dei buoi che ormai sono scappati dalla stalla perché il pastore ha volutamente lasciato aperto il recinto. I buoi avevano nomi particolari: IRI, Montedison, Telecom, Nuovo Pignone di ENI, Ansaldo-Finmeccanica. Solo alcuni (ENI, Finmeccanica) si sono appena parzialmente ripresi, in questi venti anni, dal trauma, che già si prospetta una riedizione della fuga.
Una particolare attenzione merita la vicenda di Poste Italiane; una azienda meno strategica di ENI, Finmeccanica, Telecom con un ruolo più delimitato, ma, come vedremo, comunque essenziale che forse le ha consentito di resistere meglio alle tentazioni di svendita e liquidazione, ammesso che allora un valore lo avesse, e le ha concesso i tempi necessari per avviare un processo di riorganizzazione.
Non che gli sviluppi dell’azienda siano passati sotto silenzio. L’Istituto Bruno Leoni, paladino italico del liberismo e delle privatizzazioni, da anni ha prodotto in merito una corposa letteratura; gran parte degli spunti dell’articolo, infatti, sono tratti dalle elaborazioni di Ugo Arrigo, Vincenzo Visco Comandini, Massimiliano Trovato, Lucio Scudiero, Livia Magrone; tutti eminenti studiosi legati da una identica impostazione ed argomentazione delle tesi, ma anche, alcuni di essi, legati ad impegni professionali in aziende operanti nel settore oggetto di analisi; riuscire a conciliare passione e gratificazione ritengo sia il massimo cui possa aspirare una persona.
Quegli stessi sviluppi, avviatisi nell’ormai lontano 1994, tra l’altro non avevano nulla di scontato.
Il primo piano industriale dell’azienda, varato dall’allora direttore generale Cesare Vaciago, concentrava, infatti, tutte le energie e risorse disponibili nella riorganizzazione e potenziamento dei servizi postali di corrispondenza, fondando, senza alcuna base scientifica attendibile, il risanamento su un rapido incremento del 25% dei volumi di traffico postale. L’ovazione fu pressoché generale nel mondo politico, tra i quadri aziendali, nel sindacato e in corrispondenza diretta con il disastro che tale piano stava predisponendo nel tripudio generale. Solo un pugno di persone, non più di quattro/cinque (potrei farne i nomi), obbiettarono con pervicacia sulla fondatezza di quella scelta per una serie di motivi:
- la ristrettezza del mercato della corrispondenza dipendeva solo in piccola parte dall’estrema arretratezza dell’organizzazione dei servizi; la sua estensione sarebbe dipesa dalle caratteristiche della struttura produttiva e di consumo del paese, piuttosto che dalla riorganizzazione dei servizi con un trend, comunque, di declino dei volumi di corrispondenza e di sviluppo della logistica e delle spedizioni;
- storicamente, Poste Italiane ha offerto congiuntamente e in proporzioni simili sia servizi postali che di pagamento per le grandi aziende e di risparmio per la Cassa Depositi e Prestiti, arrivando a raccogliere, a fine anni ’80, prima, quindi, della riorganizzazione, un buon 25% del risparmio nazionale;
- lo sviluppo unilaterale dei soli servizi postali avrebbe messo rapidamente in crisi la rete aziendale, soprattutto uffici e sportelli, sia per l’estrema arretratezza organizzativa del settore finanziario sia perché il grosso dei servizi postali si sarebbe orientato piuttosto che sui privati verso le aziende con relativo servizio a domicilio, accentuando la sottoutilizzazione della rete di sportelli e il loro lento declino;
- lo stesso obbiettivo di redditività dei servizi postali e della logistica sarebbe stato inficiato dal mero obbiettivo di pareggio di bilancio, posto tassativamente dal Governo (Ciampi e poi Prodi), piuttosto che di sviluppo dell’Azienda. Per il conseguimento di quest’ultimo, sarebbero occorsi ulteriori rilevanti investimenti necessari ad acquisire un grande player internazionale, strategia, questa, adottata da Poste Olandesi con TNT e da Poste Tedesche con DHL.
In pratica, nel tripudio generale, si sarebbero messi a rischio oltre centomila dei centottantamila posti di lavoro e la gran parte della rete di sportelli, altra importante risorsa infrastrutturale del paese.
L’evidenza delle cose e la pervicacia di quei pochi consentirono il ribaltamento, in pochi mesi, delle strategie e la sostituzione di Vaciago con Passera prima e Sarmi, successivamente.
Su tutt’altre posizioni, a tutt’oggi, sembrano rimanere abbarbicati gli studiosi sopra citati, alcuni dei quali, però, hanno assunto anche un preciso ruolo nella prima fase di riorganizzazione dell’Azienda e continuano ad averlo, attualmente, in aziende concorrenti.
I cinque concordano all’unisono nell’attribuire al Regolatore (il governo) e a Poste Italiane l’intera responsabilità della fornitura di un servizio con standard scadenti e con tariffe e costi eccessivi se non spropositati e crescenti a carico dell’utenza e della collettività.
Il risanamento finanziario e la significativa positività stessa dei risultati di bilancio sono pesantemente drogati da forme surrettizie di contribuzione pubblica delle varie attività.
La loro critica impietosa e, a mio parere, in gran parte pretestuosa e superficiale, poggia sui seguenti assunti:
- Poste Italiane ha assunto, specie dal 1999 sino al 2010, una posizione di monopolio formale nella maggior parte dei servizi postali e a tutt’oggi e prima del ’99 di monopolio sostanziale;
- la posizione di monopolio non consente l’esistenza di aziende concorrenti di peso significativo nel mercato e impedisce la fornitura di servizi efficienti e a costi contenuti;
- il parziale risanamento del bilancio della Divisione Servizi Postali è dovuto esclusivamente all’aumento esponenziale delle tariffe in un contesto di calo significativo dei volumi di traffico e di scarsa efficienza; un’altra quota significativa è dovuta ad una interpretazione estensiva dei costi del servizio universale (il servizio di corrispondenza ordinaria garantito anche nelle zone a scarsa densità di traffico) coperti da indennizzo pubblico, facilitazioni fiscali e ricarichi sulle aziende concorrenti operanti in zone e settori economicamente vantaggiosi; un’ulteriore quota deriva dall’attribuzione in esclusiva di alcuni servizi. C’è, da aprte mia, da sottolineare che sia le agevolazioni fiscali (IVA) che i servizi in esclusiva tendono a ridursi, nel tempo, significativamente o scomparire. Su questo i nostri appaiono un po’ distratti;
- i clamorosi attivi di bilancio delle altre divisioni di Poste Italiane sono utilizzati, impropriamente, per coprire il deficit dei servizi postali. Essi derivano in parte dal potenziamento dei servizi finanziari, assicurativi e di conto corrente, in parte da forme surrettizie di contribuzione pubblica legati a servizi di pagamento per conto della Pubblica Amministrazione e a corrispettivi legati alla raccolta di risparmio per conto della Cassa Depositi e Prestiti, in parte dall’utilizzo improprio della rete postale, senza una corretta attribuzione dei costi relativi, da parte delle altre divisioni.
I cinque studiosi accusano in pratica Poste Italiane, a volte con ironica e spocchiosa sufficienza, di ostacolare l’introduzione di condizioni concorrenziali nei servizi postali a vantaggio degli utenti e di altri operatori; di sopperire all’incapacità di generare incrementi di traffico, servizi efficienti ed economici a costi compatibili con i ricavi nei servizi postali, diversificando le proprie attività in settori impropri e scollegati tra di loro. I risultati sono il tradimento della mission aziendale e del proprio core business (quelli dei servizi postali), la creazione, in pratica, di “una nuova IRI”; il rischio è quello di “una nuova Alitalia” in grado di galleggiare in un mercato chiuso ma destinata ad affondare in condizioni di mercato aperto.
A questo punto, le prescrizioni necessarie a correggere le distorsioni emergono da sole e vanno adottate contestualmente:
- liberalizzare completamente il mercato dei servizi postali
- ridurre il servizio universale, appaltarlo a ribasso dividendolo per aree geografiche oppure eliminarlo o accollarlo, economicamente, interamente a Poste Italiane
- scorporare le varie divisioni operative dell’Azienda in società da collocare sul mercato, a cominciare da quelle redditizie come Bancoposta
- separare la parte terminale della rete postale (recapito e raccolta) dal resto dell’infrastruttura e consentire l’accesso ai vari operatori della frangia terminale di utilizzare, a pagamento, la rete secondaria
Il professor Arrigo, per sostenere le proprie argomentazioni, arriva ad abbandonare gli aridi lidi della propria disciplina di studio per svettare nei cieli della logica popperiana citando il filosofo: “per smentire che tutti i cigni siano bianchi è sufficiente trovare un cigno nero (mentre un numero anche elevatissimo di cigni candidi non permette di escludere che qualche cigno possa essere nero)”, trovando nelle poste olandesi il cigno nero in divisa da portalettere. Peccato che un brusco ritorno all’analisi socioeconomica del caso, campo che gli sarebbe proprio, potrebbe farlo riprecipitare rovinosamente a terra.
Sul “core business” aziendale ho già detto che i nostri partono da un falso presupposto: Poste Italiane, anche nei momenti più nefasti, non garantiva solo servizi postali, ma anche di pagamento e raccolta di risparmio. Il potenziamento dei servizi finanziari e di quelli ad esso collegati (telefonia, assicurazioni, conto corrente) rappresenta una scelta conseguente rispetto alle conoscenze e alla tradizione aziendali.
Su questo tornerò dopo aver replicato ai quattro punti e alle quattro prescrizioni.
Per i fondamentalisti del libero mercato l’interesse dei consumatori e l’interesse legato alla possibilità di accesso di un gran numero di operatori coincidono sino a identificarsi.
In realtà, a dispetto delle varie attività di vigilanza e della mitologia costruita sulle loro virtù, i casi di accordi e cartelli più o meno dichiarati sono molto frequenti anche in condizioni di mercato aperto e tanto più probabili quanto più sono elevate le condizioni di investimento iniziale e di complessità del prodotto/servizio fornito.
La stessa attività di regolazione di un mercato più aperto può comportare costi tali da annullare i benefici della concorrenza, da creare un sistema artificioso di competizione nel mercato al dettaglio a scapito del peso strategico di grosse aziende nella competizione non solo economica a livello mondiale o da scaricare sulla collettività il costo della gestione delle grandi infrastrutture necessarie a garantire il servizio nella sua parte terminale.
È quanto successo per esempio nel settore della telefonia fissa dove la effettiva liberalizzazione si è arenata sul rifiuto di riconoscere a Telecom i diritti di canone necessari a garantire l’infrastruttura ed i cablaggi con il risultato di aver rallentato il flusso di investimento e introdotto una concorrenza apparente; è quanto succederà nel settore del gas dove per garantire la presenza di operatori al dettaglio si dovrà costituire una società di stoccaggio in grado di trattare con il grosso fornitore con l’unico risultato di indebolire ulteriormente l’ENI nell’agone mondiale; già sono evidenti i primi sconquassi; è quanto potrebbe accadere nei servizi postali se si dovesse adottare la quarta prescrizione con il corollario pressoché certo che l’unico elemento di concorrenzialità reale si ridurrebbe all’introduzione di lavoro precario e in nero nel recapito.
Nel contesto europeo, inoltre, più che di parlare di mercato, si deve parlare di mercati nazionali regolamentati di fatto o legislativamente in maniera diversa dove la presenza di operatori forti ed efficienti nei propri mercati esclusivi consente l’ingresso, attraverso pratiche lobbistiche in sede di Comunità Europea e direttamente negli stati più fragili e meno avveduti, degli stessi nei mercati più aperti.
I cinque dovrebbero chiedersi come mai, in presenza di tariffe postali particolarmente alte, quindi con margini teoricamente elevati di formazione di prodotti concorrenziali, in una fase di ampia liberalizzazione come quella vigente in Italia sino al 1999, non si sia formato nessun grosso operatore alternativo.
Il risultato di quel regime concorrenziale fu la formazione di una pletora di agenzie locali di recapito, concentrate nelle grosse realtà urbane più sviluppate economicamente, dedite soprattutto a pratiche di lavoro illegale e precario con scarsa qualità del servizio. Quando TNT Italia tentò l’acquisizione di gran parte di esse lo fece negando le condizioni di reciprocità nel proprio paese di radicamento.
In pratica, l’attività dei grossi operatori internazionali (DHL, TNT) si concentrò nel servizio di corriere espresso e per lo più in quei bacini di traffico più connessi all’economia della sede centrale nel paese di origine. Qualcosa di ben diverso dalla creazione di una rete nazionale o, tanto meno, realmente europea.
Non a caso il successo di TNT e Deutsch Post è dovuto alla contestuale adozione di criteri privatistici di gestione, all’acquisto, con un importante investimento, di un grande player internazionale e al collocamento azionario, comunque sotto vigilanza pubblica piuttosto che alla mera liberalizzazione del mercato.
Poste Italiane tentò qualcosa di analogo ma, con le scarse risorse disponibile, solo con piccoli operatori italiani e nell’ottica del mantenimento del solo mercato nazionale.
La realtà è che il futuro declinante del servizio postale rende particolarmente rischioso l’investimento in una rete nazionale alternativa a Poste Italiane; ogni livello successivo di liberalizzazione comporta, inoltre, un corrispondente incremento del costo di garanzia del servizio universale, soprattutto in una condizione di contrazione dei volumi.
Andrebbe, quindi, testato attentamente prima di pontificare.
Il problema è che una liberalizzazione potrebbe aver senso nel caso i singoli operatori siano in grado di produrre una propria rete o propri mezzi su di una rete comune e quando il sistema sia in grado di garantire un servizio accettabile su tutto il territorio. Nelle ferrovie, nel trasporto su strada, nell’aviazione, nella telefonia mobile può avere un senso; in altri ambiti molto meno, se non assumere addirittura un ruolo deleterio.
In realtà, l’applicazione rivolta a un settore tutto sommato destinato a diventare sempre meno strategico mira, a mio parere, a nascondere il reale oggetto di tanta attenzione e il reale bersaglio.
Il centro nevralgico dell’Azienda è, non la rete postale, ma la rete di per sé fatta di uomini, logistica, sportelli e circuito informatico. È lo strumento che consente la progettazione e la fornitura di una gamma enorme di servizi, molti dei quali ancora da progettare; e il veicolo che potrà consentire il contatto con l’esterno alle pubbliche amministrazioni ormai prossime, se lo stato non vorrà soccombere sotto il peso della crisi fiscale e finanziaria, ad una radicale ristrutturazione.
Non a caso i cinque paladini riservano l’enfasi maggiore alla proposta di scorporo dell’Azienda e alla vendita soprattutto di Bancoposta.
L’Italia ha già vissuto dolorosamente questa esperienza negli anni ’90. In mancanza di veri investitori industriali nostrani, radicati solidamente nel paese, la gran parte delle privatizzazioni e delle cessioni si sono trasformate in un depauperamento delle attività strategiche in cambio di realizzi di cassa sottostimati, in un degrado delle capacità industriali del paese. In questo modo Telecom, ENI, Finmeccanica, per fare solo alcuni esempi, hanno sacrificato spesso gli investimenti, la direzione strategica nazionale delle scelte o entrambe alle richieste di alti dividendi e di controllo delle attività da parte dei fondi di investimento o direttamente dei centri strategici esteri. Gli scorpori, il più delle volte, sono stati un affare di tipo speculativo per i fondi acquirenti piuttosto che per la solidità e la capacità di programmazione di lunga durata delle aziende.
La situazione attuale è di gran lunga più precaria di venti anni fa e l’Italia rischia di diventare irreversibilmente un terreno di conquista senza, per altro, alcuna condizione di reciprocità negli altri mercati, soprattutto europei.
È di oggi, 9 settembre, la notizia della volontà di cessione della Treni-Ansaldo da parte di Finmeccanica, con General Electric favorita nell’acquisto. Un altro gravissimo colpo in un settore importantissimo, in cui l’Italia primeggiava sino a trenta anni fa e vitale per il processo di riorganizzazione delle Ferrovie Italiane.
Può darsi che la scelta dipenda dalle trattative riservate con i paesi occidentali più forti per scambiare fette di sovranità e di industrie strategiche con una tregua degli attacchi speculativi sul debito come accaduto venti anni fa; può darsi che dipenda dal raffreddamento dei rapporti con la Russia e la Cina, terreno di sbocco di importanti commesse a quanto pare in forse; può darsi che dipenda dalla progressiva gravitazione verso gli Stati Uniti delle attività e del cervello di Finmeccanica; certamente dipende dalla perdita di credibilità del paese in politica estera, con i voltafaccia repentini cui hanno contribuito con pari entusiasmo destra e sinistra e la perdita di autonomia decisionale.
Perdonatemi la chiosa. Torno all’argomento centrale.
Che la battaglia condotta dall’Istituto Leoni non sia puramente accademica o finalizzata a scopi così nobili come dichiara, lo denota la capziosità di alcune argomentazioni e, soprattutto, il silenzio assordante su alcuni aspetti fondamentali.
Intanto l’insensatezza della proposta di separazione della rete dal Bancoposta; gran parte della rete (sportelli e sistema informatico) e Bancoposta (conto corrente, sistema di incasso e pagamento extra conto, raccolta di risparmio) sono la stessa cosa separando le quali tutto si risolverebbe nella cessione a qualche agente bancario/finanziario del portafogli clienti.
La capziosità, poi, dell’accusa di utilizzo improprio della rete postale per la fornitura di un servizio che ormai e, sempre più in futuro, utilizzerà il sistema informatico per la gestione e la trasmissione dati.
L’infondatezza stessa, inoltre, della critica di scarsa trasparenza nella determinazione dei costi, giacché la struttura divisionale consente il calcolo e la ripartizione degli stessi tra i vari servizi e, quindi, una adeguata correttezza gestionale.
La stessa virtù del libero mercato viene curiosamente strattonata “pro domo propria” quando si rimprovera nei servizi postali liberalizzati del 2011 l’adozione di un unico contratto di lavoro di riferimento per i dipendenti e, in un altro articolo, si critica la concorrenza sleale di Poste verso le banche per l’adozione di un contratto di lavoro che garantisce il 30% in meno di stipendio per i propri dipendenti
Dove l’Istituto rischia di perdere totalmente la propria credibilità è sul silenzio che copre la vera novità nel mondo finanziario e dei servizi di questi ultimi quindici anni e le ulteriori potenzialità future.
L’introduzione di una serie di prodotti finanziari e di risparmio a capitale ed interessi garantiti e costi più trasparenti, di strumenti di pagamento standardizzati, alcuni fortemente innovativi, a costi più contenuti e dal servizio capillare e di alcuni servizi collaterali ma dalla spiccata autonomia operativa (telefonia mobile), nonché le enormi potenzialità future di una rete in salde mani nazionali.
Tutto questo è avvenuto non tanto per le virtù idilliache di un mercato libero per altro continuamente ostacolato proprio dai più rumorosi paladini, quanto, piuttosto e ancora una volta, come in Olanda e Germania nei servizi postali, per l’ingresso di una grande azienda dagli scarsi mezzi ma riorganizzata secondo politiche di prodotto precise e tenute costanti sin dal nascere.
Se a questo si aggiunge l’accanimento con cui presenta di per sé come forme di finanziamento pubblico, senza entrare nel merito effettivo della congruità del prezzo, il pagamento di corrispettivi di servizi forniti alle pubbliche amministrazioni, il quadro comincia ad essere sin troppo chiaro. Una operazione di trasparenza, del tutto sconosciuta nell’operato della pubblica amministrazione sino agli anni ’80, tesa ad individuare i costi di alcuni servizi (pagamento pensioni, raccolta di risparmio, utilizzo della rete postale per la corrispondenza delle amministrazioni) diventa nella mente assatanata dei liberisti fondamentalisti una forma di assistenza sleale; l’esatto contrario di ciò che dovrebbero sostenere.
Tutto questo se si rimane in un ambito di confronto quantomeno compatibile con le argomentazioni liberal-liberiste.
Ci sono degli argomenti, essenziali per il mantenimento della sovranità e dell’autonomia dello stato rispetto agli altri contendenti, ma del tutto incomprensibili da chi vede nel mercato il luogo esclusivo dove coltivare le virtù cavalleresche della competizione economica basata sul minimax.
La cessione di Bancoposta esporrebbe ulteriormente il risparmio e il debito pubblico al mercato speculativo e alle crisi violente e predatorie, giacché la ragione dell’ulteriore acquisizione di titoli da parte del settore bancario, finanziario ed assicurativo non è la riscossione dei magri interessi riconosciuti dallo Stato, ma la ricollocazione dei titoli nei mercati secondari, dei derivati e di tutte le altre diavolerie in grado di garantire alti profitti speculativi legati ad alti rischi, molto spesso a carico degli inconsapevoli risparmiatori.
Non voglio criminalizzare queste attività, giacché, nei momenti di gloria, sono ad esempio serviti in parte a finanziare lo sviluppo e il predominio tecnologico, non purtroppo dell’Italia, ma degli Stati Uniti, ad esempio nella Silicon Valley; ma nemmeno beatificarle. Sono, semplicemente, uno strumento di dominio e predominio, di drenaggio di risorse con numerose controindicazioni, specie per gli stati e i paesi più fragili e a scarsa sovranità.
Né voglio, a questo punto, dare l’impressione di voler sostenere a tutti i costi le presunte virtù naturali e innate del pubblico rispetto ai vizi del privato; tanto meno l’articolo vuole essere un peana monocorde rivolto a Poste Italiane
Le opportunità di giudizio e di scelta devono dipendere da una analisi del contesto, non da giudizi di valore, viziati da una visione giuridica positivista dei problemi, secondo me del tutto infondati e fuorvianti.
Lo Stato, intanto, anche se per motivi diversi, al pari dei privati in altre grandi aziende italiane, assorbe la totalità degli utili, se non addirittura qualcosa in più, al pari dei privati nelle stesse aziende di cui prima, di Poste Italiane per coprire il debito anziché incentivarne il reinvestimento; quello degli investimenti, infatti, è forse il punto di maggiore criticità dell’Azienda.
Di converso, l’introduzione di criteri privatistici di gestione e di vincoli di bilancio tipici di una società privata ha sicuramente fornito gli strumenti necessari per innescare gli indispensabili processi di riorganizzazione di una Azienda, sino a quindici anni fa, in uno stato comatoso che lasciava presagire una fine imminente per estinzione e semplice consunzione.
Quei nuovi criteri, in quel contesto di procedure, di finalità e di interessi corporativi consolidati, sono stati il fattore dinamico in grado a volte, ma raramente, di scompaginare, altre volte di modificare le dinamiche operative e le gerarchie di quei gruppi.
In altri contesti (l’ENI e l’ENEL negli anni ’60, l’IRI negli anni ’30), per non parlare poi degli ordinamenti statali veri e propri, è stato al contrario il ruolo pubblico ad assumere un ruolo propulsivo.
Non è stata, quella delle Poste, una palingenesi, né poteva esserlo vista l’oggettiva necessità di garantire comunque le attività senza soluzione di continuità.
Dal punto di vista delle politiche di prodotto i risultati sono stati senza dubbio positivi e hanno fatto scuola non solo in Italia.
Dal punto di vista della riorganizzazione, delle procedure operative e dell’utilizzo delle risorse, i risultati sono alquanto contraddittori, pur in presenza di un generale e progressivo incremento di produttività.
Il modello di corporate governance (governo di impresa) adottato riproduce esattamente lo schema della grande azienda europea; adottarlo non significa, però, poter riprodurre pedissequamente le stesse regole, le stesse procedure e gli stessi obbiettivi in maniera asettica e indifferente all’ambiente operativo.
Ogni azienda ha una storia e un patrimonio, un retaggio dai quali non può prescindere.
Le Poste sino agli anni ’80 erano una azienda composta per un buon 40% di impiegati amministrativi incaricati più che altro del controllo formale di titoli e procedure, con dirigenti impegnati alla verifica della correttezza dei controlli e con un sistema gerarchico fondato sull’assegnazione arbitraria di mansioni superiori in maniera tale da garantire il superamento dei concorsi interni. Il restante 60%, quello grosso modo incaricato della gestione operativa dei servizi, era soggetto ad una gerarchia formata su criteri prevalentemente automatici e statistici e più aperta ad una mentalità gestionale. Una struttura, tutto sommato, poco orientata alla realizzazione del prodotto. Il collante più tenace di questa struttura erano i sindacati sia nel loro ruolo esterno di interlocutori del Governo e dello staff dirigenziale, sia nel ruolo interno di gestione dell’azienda e della microconflittualità. Non a caso la figura portante del sindacato era il capoufficio e tra questi i responsabili di grosse unità, importanti per il numero molto più che per il ruolo svolto nell’azienda.
Le distorsioni erano enormi e sempre più degenerative e sarebbe importante riesumarle a futura memoria.
L’avvio della riorganizzazione ha creato, per alcuni anni, un periodo di parossismo in cui l’applicazione del modello di “corporate” ha in realtà alimentato nel modo peggiore gli istinti di sopravvivenza dei gruppi intermedi più numerosi e il delirio di onnipotenza dei quadri dirigenziali periferici.
Il sindacato ha cessato rapidamente e fortunatamente di assumere quella funzione mortifera di collante, ma contestualmente quei gruppi hanno trovato altre modalità per perpetuarsi e difendere le prerogative.
In quel periodo si assiste alla proliferazione arbitraria di quadri intermedi, attingendo soprattutto dai settori amministrativi, i meno predisposti a funzioni di gestione e responsabilità.
La stessa informatizzazione viene introdotta lasciando pressoché inalterati gli schemi dei processi e delle procedure, attingendo in modo tradizionale alla modulistica prestampata e alla convalida dei titoli. Ho citato solo due degli aspetti critici.
I margini di recupero di produttività erano, comunque, talmente ampi da nascondere in parte il problema.
È stata forse la carenza più grande nella gestione di Corrado Passera, compensata però da una efficace politica di prodotto, ma che continua a pesare significativamente ancora oggi, a oltre dieci anni di distanza.
I fattori sono molteplici e ben conosciuti, in buona parte, anche negli ambienti bancari.
Basterebbe recuperare qualche relazione dei vari consigli di amministrazione di banche per registrare i timori per le enormi potenzialità di Poste ed il sollievo parziale dei relatori, legato agli evidenti limiti organizzativi.
A meno di colpi di scena, sempre possibili, in una fase di crisi sistemica del paese, stanno, probabilmente, maturando le condizioni di un cambiamento radicale.
Tra le cause politiche che hanno condizionato la riorganizzazione in un senso conservatore e, spesso, schizofrenico c’è una sorta di alleanza, non commistione come negli anni ’80, tra i sindacati rappresentativi di grosse concentrazioni di dipendenti in settori destinati letteralmente a scomparire o essere drasticamente ridimensionati e i corrispondenti quadri dirigenziali titolari dell’orticello, in una organizzazione ancora relativamente separata in compartimenti stagni.
Sono evidenti i limiti con cui vengono modificati i vari cicli operativi e la scarsa integrazione tra di loro.
La stessa organizzazione gerarchica, definita nei termini classici di una moderna corporate, di management superiore, attività commerciale e gestione delle risorse interne soffre di scollamenti tra chi definisce gli obbiettivi commerciali e chi gestisce le risorse per raggiungerli proprio per la mancanza di figure intermedie in grado di assumere la responsabilità di gestione delle risorse in funzione degli obbiettivi.
Gli stessi pesanti imput e condizionamenti politici che subisce, spingono il management strategico ad adottare una politica di rapido realizzo di ricavi e profitti, con la richiesta di obbiettivi a cadenza rapida di mesi e con una politica di premio e di ricambio dei dirigenti, legata al conseguimento di risultati immediati, a scapito spesso di una programmazione strategica di lungo periodo, propria di una azienda di queste dimensioni. Una logica simile, quindi, a quella adottata dalle grosse imprese private collocate nel mercato azionario.
Questo, tanto per sottolineare l’artificiosità e la sterilità delle polemiche pubblico/privato.
Ne viene fuori una organizzazione tanto rigida e verticalizzata, quanto produttrice di distorsioni e forzature spesso risolte, diciamo così, in maniera artigianale, dalle propaggini terminali della struttura.
La stessa gestione delle relazioni sindacali ha spesso generato risultati disastrosi dal punto di vista organizzativo. Il primo contratto di lavoro ha definito un tipo di inquadramento professionale tale da raccogliere in una unica qualifica più del80% del personale accomunando figure dequalificate e generiche a figure professionalizzate, responsabili di budget e strutture.
I danni di questo tipo di inquadramento sono stati e sono enormi dal punto di vista della incentivazione alla qualificazione personale, del riconoscimento professionale e dei criteri adottati e spontanei di mobilità professionale, con scompensi enormi tra competenze richieste nei vari cicli produttivi e relativo riconoscimento.
La stessa regola aurea di un sindacato progressista che recita la necessità di favorire il più possibile una organizzazione aziendale efficiente, all’altezza delle potenzialità tecnologiche e modulari del momento, su cui modellare la collocazione del personale, compresi gli esuberi, è stata regolarmente infranta in nome della tutela delle varie riserve indiane e di fatto delle dinamiche interne di confronto, competizione e conflitto dei gruppi dirigenti.
Proprio questo tipo di tutela rende la stessa attività contrattuale dei sindacati continuamente condizionata e distorta dal ricatto occupazionale, alimentando continuamente frammentazioni di tipo parassitario.
Per troppi anni il sindacato si è perso nella logica pubblico/privato, rimpiangendo, a volte con clamore a volte contrito, il primo; nella sua componente apparentemente più radicale ha parlato e continua a parlare di sfruttamento indiscriminato, coprendo con il disagio di alcuni le sacche improduttive e parassitarie interessate a perpetuare la situazione magari sino alla agognata pensione.
Anche nel piccolo di una azienda è evidente, pur con le debite eccezioni, la trasformazione da sindacato confederale ad associazione, difensore di particolari prerogative.
La stessa politica di difesa degli uffici più periferici è quasi sempre stata promossa in una ottica assistenziale (la garanzia del pagamento della pensione e delle bollette con metodi antiquati, la spedizione della lettera, ect) piuttosto che con l’adozione di servizi nuovi, incentivati verso le frange più restie al cambiamento e, quindi, in una ottica produttiva e di progresso sociale.
La responsabilità principale non è quasi mai di una forza che agisce di rimessa, come il sindacato, anche se questa è in grado di fornire buoni motivi ed alibi in un senso o nell’altro.
In una azienda di centocinquantamila dipendenti, a prescindere dal suo carattere privato o pubblico, la gestione dei gruppi è ovviamente fondamentale, come fondamentale è la loro logica di sopravvivenza, perpetuazione e prevalenza; la stessa operatività avviene tramite l’assegnazione di obbiettivi sui quali la periferia opera ancora con ampi margini di autonomia i quali, in mancanza di una visione politica solida e fondata su dati attendibili, consentono distorsioni significative.
L’analisi meriterebbe di essere approfondita e corroborata, anche perchè presenta diverse similitudini con analoghi processi di riorganizzazione di altre aziende e in altre epoche, come quelli di alcune multinazionali americane negli anni ’70.
Certamente il bilancio complessivo è positivo, anche se dall’esito non ancora certo. Molto dipenderà dalle dinamiche interne, molto dal quadro di regole, dal peso politico del nostro paese e dalla possibilità di formazione di un ceto politico legato all’interesse nazionale e alla formazione di una struttura economica e formazione sociale in grado di perseguirlo.
Dipenderà molto di più dagli imput politici in senso lato che riceverà l’Azienda ed il settore, piuttosto che dalle astratte e spesso presunte virtù del mercato.
Mi riserverò di riprendere l’analisi con maggior serenità e autonomia di giudizio quando sarò in pensione.
L’immagine di una impresa con gli occhi rivolti solo al mercato, con una visione esclusivamente economica ed economicista finalizzata alla ricerca del massimo risultato con il minimo sforzo, dove le relazioni sono fissate secondo un modello atomistico, può sopravvivere solo nella testa dei liberal-liberisti. Le relazioni politiche e le strategie di conflitto e dominio hanno una importanza maggiore. Lo stesso mercato, compreso quello europeo, se di mercato e non di mercati si può parlare, è un campo di azione definito da regole frutto di mediazioni, scontri e strategie definite sulla base di interessi non solo economici di vari gruppi; i fatti più recenti, compresa la guerra in Libia, rivelano anche che quando non è sufficiente la “moral suasion” è necessario utilizzare l’hardware, la guerra per determinare le astratte regole di mercato.
La stessa Comunità Europea, della quale ho trattato estesamente in altri articoli, non è uno Stato e questo pone dei seri limiti al funzionamento del mercato europeo, regolato secondo priorità programmate.
Il mondo delle Poste non esula da tutto ciò. È sufficiente osservare la diversità di comportamento dei vari paesi in un mercato comune come si dice essere quello europeo. Solo i liberisti accecati dalle virtù intrinseche del mercato non si accorgono di ciò. Per questo finiscono, quasi sempre, per assecondare gli interessi del più forte, il più delle volte protezionista in casa propria e liberista in quella altrui, con le buone o con le cattive e, nei casi conclamati, liberista sulla base del calcolo della propria superiorità strategica e tecnologica rispetto ai contendenti.
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http://www.astrid-online.it/Liberalizz/Note-e-con/Visco-Comandini_indice-e-introduzion.pdf