CHI DORME, CHI SORNACCHIA E CHI STA SVEGLIO

Ci risiamo. Dopo un buon comunicato – tardivo, discutibile, nemmeno del tutto condivisibile ma se non altro accettabile – di condanna all’intervento Nato e di appello alla salvaguardia della popolazione libica dalle violenze dei ribelli, Rifondazione torna a concentrarsi grottescamente sul Giro di Padania. Sia chiaro, non ho nessun intento provocatorio né tanto meno mi interessa innescare un dibattito in un’area che considero ormai da molto tempo sepolta sotto le macerie lasciate non solo da Bertinotti, ma – come abbiamo più volte ripetuto in questo sito – anche e soprattutto da decenni di progressivo slittamento berlingueriano, trasformazione pseudo-culturale ingraiana e trasformismo occhettiano, sino al netto passaggio di campo da parte di larghe fasce del vecchio PCI, dalle ragioni sovietiche alle ragioni atlantiche. Lasciamo perdere anche tutta la più ampia vicenda teorica di un dibattito vecchio, noioso e stantio che ormai ha ridotto Marx ad un profeta indù, ad un santone new-age buono per tutte le stagioni o ad un rimedio “sentimentale” contro la depressione e la frustrazione personale. Tuttavia, dinnanzi ad eventi internazionali di tale impatto come quelli innescati dai fermenti nel Nord Africa e in parte del Medio Oriente, e alle relative ripercussioni geopolitiche e geostrategiche in termini di cosiddetto balance of power, sembra davvero assurdo che diverse decine di militanti in passato impegnati “contro la guerra”, in questi mesi non soltanto abbiano latitato nelle strade anche dopo le numerose operazioni militari della Nato in Libia, ma siano persino scesi in piazza, inizialmente, a sostegno di quelle stesse legioni di mercenari e tagliagole che richiesero a gran voce i bombardamenti “umanitari” sul proprio (?) Paese.

Negli ultimi giorni, il Giro di Padania – evento ai più totalmente sconosciuto e a malapena nominato nei rotocalchi nazionali – è diventato il cavallo di battaglia delle lotte politiche dei militanti di Rifondazione, pronti a brandire – incredibilmente – il tricolore, la bandiera nazionale, il simbolo di quel patriottismo che, fino a poco tempo fa, diversi “compagni” di partito, in un cartellone per un evento nel modenese, definivano, citando a braccio, “l’ultimo rifugio delle canaglie”. Non prendiamoci in giro. Dice benissimo Costanzo Preve, quando afferma che questo volgare ed artificiale patriottismo riscoperto a sinistra in funzione anti-leghista è quanto di più grottesco e contraddittorio possa esser proposto. Sappiamo bene quali sono le derive e le tendenze attuali di questo ambiente: residuati di trotzkismo e di luxemburghismo, nostalgie demo-operaiste, un po’ di femminismo di condimento, qualche citazione da Marx (da Engels no, perché “non ci va”), un po’ di Lenin per fare i “duri” e niente più. Nulla a che fare col Lenin “concreto” di “Imperialismo, fase suprema…”, con la questione nazionale di Stalin, con le riflessioni di Georgij Dimitrov, con la liberazione nazionale di Ho Chi Minh o col Fronte Unito di Mao Zedong. Tanto più perché tale pseudo-patriottismo decade non appena vi sia da ragionare in termini reali di resistenza nazionale, di sovranità, di indipendenza, allorquando, cioè, si richiede una maggiore capacità di analisi politica nazionale ed internazionale, per comprendere il contesto complessivo, in funzione del fondamentale criterio di relatività dei conflitti. Il tricolore brandito come un’arma di propaganda contro la Lega Nord, viene immediatamente riposto nello sgabuzzino non appena si ricomincia a parlare di “fronte democratico” anti-B., non appena si ricercano accordi “tattici” con il Partito Democratico, con i “popoli” – viola o non viola – di Repubblica, di De Benedetti, di Montezemolo, e in generale con tutti quei settori politicizzati del capitalismo finanziario italiano maggiormente responsabili nell’opera di svendita del nostro settore industriale strategico e nella drammatica distruzione delle basilari garanzie sociali in tema di lavoro e previdenza sociale, dove per basilari si intendono le garanzie fondamentali del diritto al rispetto del contratto nazionale, del diritto al riposo, del diritto alla sicurezza sul posto di lavoro, del diritto ad una pensione dignitosa e del diritto all’assistenza sociale. Non certo le perverse logiche clientelari del “settore pubblico” o i residui di una vergognosa era assistenzialista e consociativa, che gli ultimi burocrati dei sindacati parassitari ancora si ostinano a voler disperatamente e inutilmente blindare come la sabbia in una scatola bucata.

D’altronde, si sa. In questo ambiente politico, la sentenza è facile, lo slogan viene naturale: Gheddafi è “un dittatore”, Assad “uguale”, “le masse” chiedono “giustizia”, “i popoli sono fortissimi”, “cacciamo Berlusconi”, “evviva Santoro”. Ecco che, dunque, dinnanzi alla situazione libica il tifo che, da sinistra, è arrivato a favore dei ribelli, ha squarciato il velo sulla più completa incapacità di osservazione, sul qualunquismo e sulla demagogia a buon mercato: un atteggiamento indisponente ed odioso, neanche più minimamente paragonabile alla “svista” – ben più comprensibile e legittima – di quella “vecchia generazione” che credeva, a suo tempo, di sostenere e costruire il “comunismo”, mentre in realtà si trattava di ben altro, di un mutamento storico e strategico che di fronte ad una spaventosa “accumulazione originaria” e ad una sempre più forte polarizzazione imperialista occidentale, seppe reagire con una adeguata risposta di potenza da Est, capace di innescare un effetto a catena in vaste aree del pianeta a lungo compresse o marginalizzate. Si trattò di un processo con enormi pregi e anche con grandi difetti, ma fu comunque qualcosa di diverso (e di ben più concreto tenore) rispetto a quanto prefigurato attraverso il filtro dell’ideologia.

A differenza di allora, stavolta è tutto molto più chiaro. La fase è quella di un unipolarismo alla frutta, la nuova era – per nulla dominata dai fantomatici ed inesistenti crismi del “libero mercato” e della “globalizzazione”, buoni solo per inutili astrazioni teoriche con cui i friedmaniani amano eccitarsi – è una delle peggiori e più barbariche in termini di aggressività neo-coloniale, a partire dalla prima invasione dell’Iraq nel 1991 e dalla caduta del governo socialista afghano nel 1992, che hanno sprigionato un’inaudita instabilità internazionale ed una delle più losche e criminali collusioni tra centro imperialista (Usa) ed ascari periferici (curdi iracheni, mujaheddin bosniaci e albanesi, monarchia saudita, separatisti ceceni, salafiti siriani, indipendentisti tibetani, wahabiti libici e così via…).

Dinnanzi ad un’operazione mediatica così infame e vergognosa, tutta volta alla demonizzazione di Mohammar Gheddafi e della Jamāhīriyya libica, a fini di invasione e conquista, non c’erano dubbi su quali fossero le reali intenzioni delle potenze occidentali, frettolosamente precipitatesi a prendere in mano la risoluzione n. 1973, per piegarla ed adattarla artificiosamente ai propri piani di invasione militare. E invece la sinistra di casa nostra ha atteso, ha gridato alla cacciata del “dittatore”, alla “libertà dei popoli oppressi”, unendosi di fatto al coro degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, che incassano e ringraziano per il sostegno alla loro “impresa” in pieno stile neo-vittoriano.

Ora che sotto l’occhio del ciclone finirà ancora una volta la Siria – ultimo baluardo della stagione del socialismo panarabo rimasto in piedi in Medio Oriente – sarà curioso vedere quali saranno le posizioni della sinistra italiana: da una parte l’amicizia di Diliberto e del PdCI con il Partito Comunista Siriano di Ammar Baghdash, ricompreso nel fronte unito patriottico della coalizione che sostiene Bashar al Assad, dall’altra Sinistra Comunista (cioè la corrente bordighista di Rifondazione guidata da Gianluigi Pegolo) che pochi mesi fa pubblicò un articolo di Franco Ferrari (anch’egli PRC) dall’inconfondibile titolo a scopo denigratorio “Stalinista e antisemita, l’amico siriano di Diliberto”.

Nel mezzo, incertezza, fermenti contrastanti e la presumibile previsione che si possa ripetere un altro scenario di piazza, simile a quello che lo scorso febbraio vide un migliaio di militanti riconducibili al PRC, al PCL di Marco Ferrano e a Sinistra Critica di Franco Turigliatto, assaltare l’Ambasciata Libica, per sostituire, a scopo dimostrativo, la bandiera della Gran Jamāhīriyya Araba di Libia popolare e socialista con la bandiera, precedente al 1969, della monarchia libica di Re Idris, utilizzata dai ribelli. Nemmeno più la vecchia e semplice vulgata della “repubblica” come “conquista progressiva” della modernità, sembra reggere dinnanzi a tanta idiozia collettiva. Se un giorno dovessero scendere in piazza dei cinghiali, possiamo star sicuri che certi personaggi non esiterebbero a sostenerli nella caccia al “cacciatore cattivo”.

È ormai chiaro il dna di certe frange che tornano utili per tutte le stagioni, e sono ormai preventivabili tutti i complici silenzi o l’assenza di giudizio dinnanzi ai temi centrali della nostra epoca storica. Se la vulgata della globalizzazione lanciata dall’idealismo dell’era Clinton è una delle più colossali mitologie astratte degli ultimi anni, è senz’altro vero che ormai il pianeta è interamente conosciuto, sul piano geografico e politico, da tutti i soggetti internazionali, e che – a differenza di qualche secolo fa – tutti sono costantemente al corrente di quanto accade nei più remoti angoli della Terra. Da almeno tre secoli, cioè dal definitivo completamente delle rotte navali delle potenze marittime europee, è stato innescato un processo storico che – al di là dei suoi aspetti più catastrofici – ha comunque imposto la “globalità” come criterio di analisi della società. Fu anche per questo che Marx ritenne evidentemente impossibile studiare il capitalismo “monocentrico” britannico della sua epoca in astratto da quanto avveniva nel resto del mondo o indipendentemente dai traffici commerciali mondiali e dai domini coloniali di Londra in India, in Cina o nel Sud Est Asiatico. Senza un’adeguata comprensione delle dinamiche globali, appare davvero assurdo pensare di poter comprendere le questioni interne, specie in un Paese subalterno e sub-dominante come è il nostro nell’alveo dell’alleanza nord-atlantica.

Invece, si resta indietro. Ci si aggrappa ad una dialettica capitale-lavoro già di per sé mal posta, e male interpretata, non solo anacronistica ma addirittura eterodossa rispetto a quanto esposto da Marx, soprattutto in virtù di un diverso concetto di “classe operaia” (combinata e non meramente esecutiva o moralisticamente “umile e oppressa”). Paradossalmente è stata la Teoria delle Tre Rappresentanze fissata dall’ex presidente della Repubblica Popolare Cinese Jiang Zemin, a provare a ripescare questa impostazione, adattandola al contesto cinese degli anni Novanta-Duemila, e mettendo assolutamente in chiaro il carattere avanguardistico del Partito Comunista Cinese come rappresentante delle forze nazionali produttive più avanzate (comprese quelle “private” o “di mercato”), delle forze culturali più avanzate del Paese e degli interessi della stragrande maggioranza della popolazione.

Senza alcuna pretesa di rifondare alcunché, soprattutto qualcosa di puramente astratto e di a-storico, la Cina – piaccia o non piaccia – ha imboccato una sua direzione storica, partita dal marxismo e giunta ad una logica dimensione decisamente concreta e nazionale, che nessuno può in qualche maniera pretendere di schernire dall’esterno con giudizi superficiali. Non è un caso che i principali denigratori del gigante asiatico si annidino proprio tra i settori della sinistra radicale, chiaramente intenti a lanciare strali su quello che, dalla loro ottica storica completamente distorta ed idealista, continuano a ritenere una restaurazione capitalista o un rinnegamento borghese. Non è possibile dialogare con simili personaggi, che sarebbero pronti a spogliare intere popolazioni faticosamente uscite da epoche di inaudita sofferenza, delle loro conquiste sociali e tecniche, per soddisfare il proprio perverso gusto di colonizzatori latenti, di imperialisti interiori, ed il loro falso candore “rivoluzionario” che, dalla comoda poltrona di casa, vorrebbe ricreare un “romantico” quadretto di “guerriglia e ribellione”, ispirato al poverello assisano o al subcomandante Marcos.