A PROPOSITO DI MULTICULTURALISMO E INTERCULTURALISMO

 

Sul Corriere della Sera del 24.07.2011 il politologo S. Maffettone tratta del problema del multiculturalismo anche in relazione ai recenti avvenimenti di Oslo. Il professore si domanda: <<Ma è vero che il multiculturalismo è in crisi in tutto il mondo occidentale e che cosa vuol dire?>> e di seguito così continua

<< Il multiculturalismo come strategia culturale e come insieme di politiche ha circa quaranta anni di storia. Fu inaugurato da Trudeau in Canada sulla scia degli Stati Uniti, poi adottato con vigore in Australia, per diventare negli anni Ottanta un simbolo delle politiche progressiste in Gran Bretagna, Olanda e Germania. Per circa trent’anni, la sua crescita è apparsa inarrestabile e il picco è stato legato a un’interpretazione liberale della cosiddetta «politica dell’identità» , che — secondo molti — avrebbe dominato la sfera internazionale dopo il 1989 e il tramonto della politica basata sul concetto di classe. In suo nome, minoranze etniche, razziali, linguistiche, sessuali e religiose hanno rivendicato diritti e riconoscimenti in varie sfere della vita pubblica: dal governo regionale alla rappresentanza politica fino ai programmi scolastici. Da una decina di anni non è più così>>.

Negli ultimi tempi, effettivamente, il clima è cambiato e il primo ministro David Cameron si è fatto portavoce di una proposta politica antimulticulturalista,  ritrovandosi in buona compagnia in Europa perché la sua piattaforma è stata fatta propria sia dalla Cancelliera tedesca Merkel sia dal presidente francese Sarkozy. Situazioni analoghe si stanno affermando anche in Olanda e Australia  e il tutto ovviamente collegato ad una spinta dal basso derivata  dai nuovi umori delle popolazioni europee e/o di cultura europea e “occidentale”. A questo punto Maffettone per rendere più chiara la problematica cerca di dare una definizione, seppure semplificata, della teoria e della pratica del multiculturalismo:

<<Teoria e pratica del multiculturalismo riguardano tradizionalmente tre aspetti principali: 1. i problemi di minoranze religiose, etniche o linguistiche come il Quebec in Canada e l’Alto Adige da noi; 2. il trattamento diversificato dei popoli indigeni come gli aborigeni australiani e gli indiani americani; 3. la questione dei migranti come quelli che sbarcano sulle nostre coste provenendo dal Nord Africa. È facile notare che la crisi del multiculturalismo riguarda i migranti, ma non tocca particolarmente le minoranza sub-statali e i popoli indigeni>>.

A questo punto il politologo non può far altro che concludere che il problema vero e proprio del multiculturalismo in Occidente si può ridurre ai difficili “rapporti complessi tra arabi musulmani e occidentali” . Ma le conseguenze sono comunque di portata “generale” dal momento che  ne consegue, quasi direttamente, il tramonto dell’idea che lo Stato debba rafforzare e custodire differenze speciali tra gli abitanti del suo territorio.  Le differenze culturali, quindi, devono, nella loro pretesa di riconoscimento, riuscire a mediare  con le tradizionali rivendicazioni riguardanti le classi e i gruppi sociali e imparare a rapportarsi con i conflitti legati allo status dei cittadini e       all’egemonia ideologico-culturale.  Maffettone     nella     conclusione dell’articolo pone, come obiettivo primario da     ricercare, il   raggiungimento da parte delle  minoranze  culturali dei paesi  liberal-democratici di un sostanziale consenso riguardo al regime politico da adottare il quale non può non essere altro che quello dello stato ospite, implicitamente inteso, ancora una volta, come l’unica “vera e giusta” forma di Stato e di governo. Ma a questo punto non ci pare inutile riportare alcune osservazioni sulla nozione di multiculturalità confrontandola con quella a cui viene spesso contrapposta relativa al concetto di interculturalità. Riporto quindi alcuni passi da un articolo di Maurizio Disoteo che ho rintracciato in internet:

<<Come primo punto di riferimento, possiamo assumere le parole del prof. Otto Filtzinger,   dell’Università di Coblenza, che definisce “la ‘multiculturalità’come la caratteristica di una situazione sociale verificabile: la convivenza di persone provenienti da e socializzate in diversi contesti culturali, e la ‘interculturalità’ come la risposta educativa relazionale alla società multiculturale e multietnica”. Questa definizione comporta diverse considerazioni e conseguenze: anzitutto quella che la multiculturalità è uno stato e un dato di fatto, esito di flussi migratori e di incontri tra le culture dovuti a una spinta della storia, Un altro punto che ci sembra di grande rilievo è il diverso atteggiamento verso il contatto culturale che è conseguente ai termini di multi- e inter-culturale. La multiculturalità, applicata sia nella società che nella scuola, non presuppone necessariamente l’attivazione di momenti di contatto, acculturazione e scambio tra le culture. La multiculturalità è una categoria di carattere descrittivo e storico, che si esaurisce nel rilevare la presenza in un territorio o in un’istituzione sociale di culture diverse. La multiculturalità può anche realizzarsi, anzi trova la sua espressione più frequente, nella creazione di nicchie etniche, di piccoli

ghetti in cui ciascuna cultura continua a esistere (e spesso a cristallizzarsi) senza essere sottoposta

al vivificante incontro con l’alterità. Ogni nazionalità, etnia, gruppo religioso continua a praticare le proprie abitudini e le proprie tradizioni senza curarsi delle altre comunità; in questa situazione una parola chiave diventa la tolleranza: tutti possono fare ciò che vogliono sin che non invadono lo spazio di un altro gruppo. In questa situazione, una società può conservarsi anche a lungo, ma nel momento in cui una crisi economica, delle tensioni religiose o etniche o altri fattori rompono l’equilibrio, le differenze taciute e non valorizzate e i conflitti che portano con sé possono deflagrare in modo violento e irrazionale>>.

 

Da quanto riportato sembra proprio che l’approccio multiculturale non sia il più adatto ad alimentare forze che abbiano a cuore l’interesse nazionale, il quale implica, nel rispetto della dignità di ogni singola cultura, una sorta di integrazione – non però con una direzione predefinita come sarebbe quella che ritiene sacri e inviolabili i precetti della liberaldemocrazia nella sua forma classica – atta a garantire un campo di conflitti di emulazione e confronto orientati ad uno sviluppo economico, sociale e culturale con forte autonomia e originalità per ogni sistema-paese.

 

<<L’interculturalità, al contrario, oltrepassa la tolleranza, presuppone il confronto e lo scambio tra le culture, pone il problema della cittadinanza e della partecipazione, esercita la legittima e reciproca critica, concepisce le differenze culturali come un valore. Un atteggiamento interculturale riconosce il conflitto e non lo ignora: qualunque incontro tra culture diverse, qualunque migrazione hanno sempre suscitato conflitti che non vanno negati ma gestiti e risolti in modo pacifico. La prospettiva interculturale concepisce le diverse identità culturali come mutevoli e in continua trasformazione, presuppone che l’identità, per potersi arricchire e sviluppare, necessita del confronto con l’alterità. La concezione per cui, in una società multiculturale, le diverse identità culturali debbono vivere separate l’una dall’altra, senza scambi e contatti, è pericolosa e regressiva; basti pensare che la giustificazione di favorire il libero sviluppo di ciascuna cultura separata dalle altre fu una delle legittimazioni ideologiche di un regime barbaro come quello dell’apartheid>>.

 

Questo elogio dell’interculturalità appare piuttosto ideologico e utilizza un linguaggio da cantori delle virtù della “società civile” (che non è né quella di Marx né quella di Hegel e non vanta, perciò, nessuno statuto filosofico o scientifico) però il riconoscimento che il conflitto anche in questo campo svolge un ruolo di stimolo e avanzamento riguardo alle dinamiche sociali è un elemento positivo. Solo il confronto “agonistico” tra portatori di identità culturali differenti desiderosi di valorizzare il proprio punto di osservazione rispetto a quello degli altri può produrre pratiche creative e progressi teorici.

Mauro Tozzato           24.07.2011