A TUTTO CAMPO (DUE)
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(materiali preparatori)
1. Immaginiamo un astrofisico che inizia studiando a fondo il sistema tolemaico; poi passa a quello copernicano e infine alla teoria della relatività, ogni volta considerando la teoria successiva come semplice sviluppo, con aggiustamento, di quella precedente. E’ logico che alla fine non avrà capito un gran che di quanto ha fatto: il procedimento deve proprio essere l’inverso. Si parte dal punto di arrivo poiché questo non è un mero sviluppo, bensì una completa “rivoluzione” con riorientamento della struttura teorica precedente. La memoria storica è indispensabile per cogliere gli effettivi mutamenti, ma è da questi ultimi che va studiato e approfondito anche il passato. Marx ha scritto – appunti, non più che riflessioni approssimate degne di successiva rielaborazione da parte di uno storico, cosa che egli non fece perché il suo approccio decisivo non era quello dello storico bensì del teorico della società – le “forme che precedono la produzione capitalistica” quando ormai aveva un’idea ben precisa dell’ultima forma sociale apparsa nella storia. E’ per tali motivi, infatti, che la formulazione di una teoria riguardante una data epoca o fase avviene sul finire di quest’ultima (“la nottola di Minerva … ecc.”); chiunque creda, essendo situato all’inizio di tale epoca, di poter fare previsioni, che non siano pure ipotesi transitorie, circa la sua evoluzione, gioca a fare il profeta; infatti, le sue non saranno previsioni, ma solo “Annunci”, con atteggiamento sapienziale da guru, da “uomo divino” che scopre la Verità Ultima, quella ormai valida per i millenni a venire.
La stessa sorte è toccata a chi ha studiato Marx – ammesso che l’abbia veramente studiato – leggendosi poi Lenin come fosse un semplice sviluppo, con qualche aggiustamento, della teoria marxiana. Ammetto che tale atteggiamento fu facilitato dal fatto che il bolscevico russo, preso da ben altri compiti che il semplice studio, non sviluppò adeguatamente le sue intuizioni teoriche. Egli inoltre, sempre per i compiti del momento, che esigevano il duro attacco ai “rinnegati” della socialdemocrazia del tempo, sostenne d’essere il vero ortodosso rispetto a Marx (e sicuramente lo credé), mentre era invece l’autentico revisionista. Il nostro Gramsci colse, sempre intuitivamente, il problema quando affermò che la “rivoluzione d’ottobre” era una rivoluzione contro Il Capitale, ma nemmeno lui rimise radicalmente in discussione i più sostanziali principi teorici di Marx. Quindi, Lenin e Gramsci rappresentarono un elemento di potenziale ristrutturazione del campo teorico precedente (una “teoria della relatività” al posto di quella “copernicana e newtoniana” ), ma non insisterono fino in fondo, perché ciò non era affatto possibile in quei tempi.
Quando nei dintorni del ’68 discussi, e poi ruppi, con gli operaisti patavini e pisani, mi resi conto della loro arretratezza teorica (il loro Marx mi appariva ridotto a nulla più che il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse) proprio sulla fondamentale questione dell’alleanza operai-contadini. Per loro sembrava quasi che si fosse trattato di banale escamotage, foriero poi delle involuzioni del “socialismo”, perché la vera rivoluzione era soltanto quella operaia. Il capitalismo non si era espanso in tutto il mondo così velocemente come previsto da Marx; comunque, per l’autentica rivoluzione, quella che avrebbe conseguito l’effettivo comunismo, era necessario che il capitalismo (proprio quello studiato da Marx; e soprattutto in riferimento al processo lavorativo, fulcro del suddetto “frammento”) unificasse finalmente il mondo, dividendo la società in capitalisti e operai (tutto il resto sarebbe stato solo “residuo”, inessenziale per il processo rivoluzionario).
Data la lentezza di questo tipo di sviluppo capitalistico, esistente soltanto nella loro testa di “grundrissisti”, e data la loro smaniosa fretta rivoluzionaria, vi è stata poi tutta la fantasiosa rielaborazione dall’operaio-massa fino alle scemenze odierne sulla Moltitudine, capaci di influenzare solo alcuni ragazzotti, incapaci di pensare con le loro teste e rincoglioniti da vecchi residui sessantottardi, patetici “professori” che portano ancora le divise (opportunamente rivisitate dato l’avvento del “postmoderno” o simili altre chincaglierie) di quell’era paleolitica. Mi guarderò bene dal ricostruire qui queste “evoluzioni”, che mi mettono solo malinconia addosso perché ho perso non so quanto
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tempo a prenderle in considerazione, quando meritavano solo un’omerica risata e il gesto dell’ombrello1.
2. Per mia fortuna, pur avendo iniziato il tirocinio con Marx, ho fin dal principio letto a fondo Lenin e sono stato conquistato dalla sua concretezza (analisi della fase o congiuntura) più ancora che dagli schemini della trasformazione o della caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc. Non c’è dubbio che, in un certo senso, sono stato leninista prima che marxista; che è un po’ come essere einsteiniano prima che newtoniano. Ho appreso – intuitivamente – prima le rotture rivoluzionarie di uno schema teorico che questo stesso schema; non ho quindi mai considerato il leninismo qualcosa di “aggiuntivo” e di innovatore nel senso della “modifica” dello schema in questione (il leninismo come “marxismo dell’epoca dell’imperialismo”). Sarebbe come prendere un’automobile e modificarne non solo la linea della carrozzeria, ma pure il motore (con minor consumo di carburante), il sistema di frenata, e tutti gli altri cambiamenti (e aggiunta di optional) che vengono effettuati di “generazione in generazione”. Molto diverso è aprire nuove frontiere tipo informatica, telecomunicazioni, ricerca spaziale, biotecnologie, fonti energetiche prima inesistenti, ecc. L’intero campo di una conoscenza viene ristrutturato, quella che sembra semplice accumulazione di nuove sue parti implica invece un rivoluzionamento interno con suo radicale ri-orientamento; il suo significato generale diventa diverso, “sorprendente”, si aprono direzioni di ricerca prima insospettate, ecc.
L’alleanza operai-contadini sembrò forse all’inizio un escamotage, appunto di congiuntura, legato al ritardo della rivoluzione operaia in occidente, con la presa d’atto che la prima classe operaia del mondo, quella inglese, era ormai preda del tradunionismo, della lotta sindacale meramente interna alla riproduzione del modo (rapporti) di produzione capitalistico. Si dovette pensare, credo, ad un semplice ritardo con adattamento della vecchia teoria ad esso. A questo servono intanto le teorie di fase (anche da me propugnate e così poco capite dai miei critici, sempre alla ricerca della Verità). E’ nella congiuntura – o “analisi concreta della situazione concreta” – che si prende inizialmente atto di ciò che non funziona nello schema teorico che stiamo usando nella nostra azione pratica; e questa presa d’atto prelude al ri-orientamento teorico, che non dipende dalla fretta e dall’agitarsi scomposto di rivoluzionari senza cervello o con cervelli confusi e smanie protagonistiche (“moltitudinarie” per non fare nomi), che poi li consegnano immancabilmente al servizio dei dominanti, ben incensati (in tutti i sensi).
L’alleanza operai-contadini fu al contrario un passaggio obbligato per rompere la “catena imperialistica” nel suo “anello debole”. A questo primo passo, seguì la constatazione che le “masse d’oriente” entravano nella storia con una carica rivoluzionaria ormai in esaurimento – messo in definitivo risalto, con forte ritardo, dopo la seconda guerra mondiale – nel movimento operaio “occidentale”, quello dei paesi a capitalismo avanzato. Certamente, e oggi lo capiamo, era vero che le masse contadine non avrebbero costruito il socialismo; era vero che secondo Marx il comunismo sarebbe dovuto nascere dallo sviluppo capitalistico con la formazione dell’operaio combinato, del “lavoratore collettivo cooperativo”, di cui ho trattato più volte. Solo che, “attendendo Godot”, cioè l’espansione capitalistica mondiale, con la divisione dell’intera formazione globale in capitalisti (divenuti infine rentier) e operai (collettivi di lavoro sia direttivo che esecutivo), non ci sarebbe stato alcun movimento rivoluzionario, poiché le previsioni di Marx erano errate. La Rivoluzione d’Ottobre non ha innescato alcun processo verso il “socialismo e comunismo”; ha portato ad altri risultati non meno rilevanti, al mutamento d’epoca di cui, dopo la cristallizzazione del mondo per quasi mezzo secolo a partire dal 1945, si vedono oggi importanti lineamenti, che ancora non sono studiati da una intellettualità ormai persa dietro alle più perfette “inutilità” di “alta cultura”.
1 Dopo c’è chi mi prende per troppo stizzoso e cattivo; il tempo che ho perso con questi “grandi pensatori” presuntuosi e limitati ma incensati dai radical chic della gauche caviar (questi intellettuali per fortuna ora alla frutta), nessuno lo sa. Ho accumulato veleno, lo ammetto; e non posso liberarmene come vorrei.
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3. L’alleanza operai-contadini, con l’entrata nella storia delle “masse d’oriente” e la rottura rivoluzionaria in paesi molto arretrati in fatto di sviluppo capitalistico, era solo una spia, un sintomo. Avrebbe dovuto spingere alla ristrutturazione del campo teorico lasciatoci in eredità da Marx. I “compiti immediati” dei rivoluzionari, nell’ambito di un periodo storico turbolento e grandioso come quello dei primi decenni del ‘900, non consentivano di soffermarsi su questa ristrutturazione teorica; e tuttavia, chi si è formato con il leninismo prima che con il marxismo ha acquisito pur sempre una sensibilità “più moderna”. Gli sconvolgimenti dell’epoca dell’imperialismo – per quanto fissati, ma in un certo senso necessariamente e comprensibilmente, in caratteri generali della supposta ultima fase del capitalismo prima della rivoluzione proletaria, mito che non poteva non essere coltivato all’epoca – segnalavano, lo comprendiamo ora, la necessità di abbandonare la semplice visione di un modo di produzione capitalistico, sempre eguale a se stesso, salvo la terribilmente dannosa (teoricamente intendo) centralizzazione monopolistica, fonte di errori senza fine.
Si trattava, nella concezione marxiana, di un modo di produzione in estensione, appunto, a macchia d’olio, che avrebbe unificato il mondo e preparato la sua stessa (interna) trasformazione verso il comunismo ad opera di quel preteso soggetto rivoluzionario – la classe operaia, intesa in senso lato (“ingegnere più manovale”) e, dopo Marx, in senso stretto (le “tute blu” di fabbrica) – che non ha mai fatto alcuna rivoluzione, ma solo difeso giustamente le sue condizioni di vita e di lavoro: prima da uno sfruttamento nel senso brutale del termine (non come semplice estrazione di pluslavoro/plusvalore, concetto assai asettico), e poi dall’essere comunque sempre sottoposto alle dinamiche decise dal capitale imprenditoriale in base alle sue esigenze. Le necessità dell’alleanza con i contadini, la rottura negli “anelli deboli”, aprivano ad una concezione diversa: che fu però interpretata, dai delusi della classe operaia, come semplice lotta dei dominati delle aree arretrate (il terzo mondo) contro l’intera società capitalistica avanzata (e il suo “consumismo”).
Il problema era tutt’affatto diverso; e fu ancora una volta intuito da Lenin con la tesi dello sviluppo ineguale dei capitalismi e con quella (seguita anche da Mao) secondo cui la rivoluzione vince non dove i rivoluzionari sono più forti, ma laddove i reazionari sono più deboli. Sono però più deboli non perché giunti alla fine della loro storia, incapaci di sviluppare ulteriormente le forze produttive (e la scienza e la tecnica che ne sono il supporto), ecc.; lo sono perché esplodono ad un certo punto fra loro le più aspre contraddizioni, ed essi entrano “in guerra” portando alla destrutturazione le specifiche impalcature (politiche, economiche, culturali) delle singole formazioni (paesi), in cui essi erano stabilmente installati al potere, tanto stabilmente da potersi appunto permettere di regolare infine i conti per arrivare alla supremazia di alcuni su altri.
Ecco allora che il concetto di modo di produzione capitalistico appare limitato; come una geometria euclidea, da usare ancora per singole osservazioni limitate a spazi ristretti, ma che diventa solo parte di un complesso più vasto, con principi diversi, per una visione (misurazione) di spazi assai più ampi (mi scuso per questa analogia che, come tutte, è imperfetta, ma spero si capisca cosa voglio dire). Fondamentale – anche se siamo ancora lontani da concetti stabilizzati – diventa la formazione mondiale nella sua articolazione interna in tante formazioni particolari, le cui interrelazioni (soggette a periodi di acutizzazione del loro reciproco conflitto seguiti da altri di relativa “calma”) stabiliscono i reciproci rapporti di forza e il sempre incipiente squilibrio con la precipitazione nel loro sviluppo ineguale e in possibili rotture degli anelli deboli.
Il concetto di modo di produzione può essere parzialmente utilizzato all’interno di una singola formazione particolare, e per impieghi di tipo economicistico (la cui limitatezza va sempre tenuta in conto, pur nell’uso che comunque se ne può fare per scopi specifici e ristretti). Ogni problema di questo tipo non deve però mai perdere di vista il complesso più ampio, quello della formazione mondiale in cui quella formazione particolare è inserita. Chiariamo con un esempio onde rendere più perspicuo ciò che intendo sostenere.
Pensiamo a tutta la questione Fiat-Crysler, Fiat-Opel, ecc. Nel blog abbiamo messo in chiara luce in quale quadro complessivo internazionale e geopolitico essa si inserisca e quindi non mi ripeto. Nessuno vuol però negare l’importanza della lotta dei lavoratori per il loro posto di lavoro, il loro
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salario, ecc. La preoccupazione per la chiusura o meno di dati stabilimenti è più che ovvia e da appoggiare. Tuttavia, grave sarebbe se le forze politiche e sindacali, che orientano questa lotta, chiudessero gli occhi di fronte alle manovre degli Usa di Obama, che mirano a servirsi della nostra azienda come testa di ponte per asservirci ancor di più; soprattutto danneggiando gli interessi dell’asse Eni-Gazprom, giacché l’operazione Fiat-Opel indebolirebbe, con l’appoggio della UE, le forze politiche che si battono per il ramo Northstream del gasdotto, il cui ramo sud ci rafforza indebolendo invece il gasdotto Nabucco patrocinato dagli americani, ecc. ecc. Adesso non ripeto quanto esposto più volte nel blog. Allora, se in nome della difesa dei lavoratori (e utilizzando il concetto di modo di produzione capitalistico al solo fine di “vedere” esclusivamente, e molto limitatamente, il conflitto capitale/lavoro), si favorisce l’operazione (geopolitica) più vasta che vuol condurre in porto l’Amministrazione statunitense, è necessario denunciare subito tale miopia (a voler essere molto buoni).
Ecco dunque che la teorizzazione leniniana – all’epoca solo uno svincolarsi dal marxismo tradizionale, e dal suo modo di produzione capitalistico per esigenze di fase – appare in ben diversa luce, come un’esigenza ben più radicale di ristrutturazione del campo teorico marxiano. Lenin non la compì, pensò comunque che si fosse alla fine del capitalismo, non più capace di sviluppo ma solo di lotta per la redistribuzione della ricchezza e del controllo del mondo tra gruppi capitalistici, costituiti fondamentalmente da rentier parassiti e finanzieri (qui sta il suo debito verso il marxismo tradizionale di un Hilferding e in fondo anche del “rinnegato” Kautsky, non criticato infatti adeguatamente dal punto di vista teorico). Tuttavia, le esigenze di fase furono decisive per un mutamento, che fu radicale anche oltre le sue consapevoli intenzioni.
La formazione sociale, in quanto struttura complessa in cui si integrano le diverse sfere della politica e del potere, dell’economia, della ideologia e cultura, diventa il concetto decisivo (pur ancora instabile e fluido). Tale concetto si libra però subito in uno spazio in cui scarsa è la forza di gravità; per cominciare ad attrarlo verso la terra della concretezza, bisogna segnalare la formazione mondiale con le sue varie articolazioni (formazioni particolari) in equilibrio precario (in realtà disequilibrio più o meno accentuato); caratterizzato, dunque, da quelle varie “pulsazioni storiche” costituite dalle fasi monocentriche (maggiore stabilità) e policentriche (massima perturbazione), che preludono al radicale mutamento d’epoca della formazione sociale, delle sue strutture (pensate, teorizzate, non reali in senso proprio): ad esempio, passaggio dalla formazione capitalistica borghese a quella dei funzionari del capitale (altri concetti fluidi, lo ammetto).
Credo non si tratti di pura geopolitica (integrata dalla geoeconomia), ma comunque immagino che ci si avvicini ad esse almeno un po’. In ogni caso, il modo di produzione capitalistico – con le sue varie caratteristiche e le “visibilità” che consente: prima fra tutte lo smascheramento dell’eguaglianza nello scambio mercantile, che occulta lo “sfruttamento” (nel senso della semplice estrazione di pluslavoro in forma di valore) – diventa solo una parte, un aspetto (piatto), del più complesso spazio (politico, economico, culturale) della società. La teoria subisce così un vero riorientamento rispetto a quella marxista “originaria”.
4. Facciamo adesso una deviazione, tornando al momento dell’elaborazione leniniana, legata alle esigenze di fase. Ho sollevato più volte obiezioni sull’impostazione leniniana dell’imperialismo, cercando semmai di porre al centro di quest’ultima, quindi però ristrutturandola completamente, la quarta e quinta caratteristica, che indicano la conflittualità policentrica tra le grandi potenze e la competizione sui mercati mondiali tra le grandi imprese. Tuttavia, Lenin pose come sintesi della sua interpretazione, in modo molto tradizionale, il passaggio dalla concorrenza al monopolio. Egli si arrabattò, ad esempio sostenendo che il monopolio non è la fine della concorrenza, ma anzi “la porta ad un livello ancora più alto”. Non riuscì comunque a districarsi dalle contraddizioni cui conduce questa interpretazione puramente economicistica della centralizzazione dei capitali – in Marx riferita prevalentemente alle forme riproduttive dei rapporti sociali – uno dei più disastrosi errori teorici della lunga, e spesso penosa, storia del marxismo, ridotto a schematismi infantili dal bisogno “reli-
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gioso” di credere nel possibile avvento del comunismo, in quanto Salvezza dell’Umanità; e non invece, com’era scientificamente in Marx, quale previsione fondata su processi indubbiamente in atto nella formazione capitalistica – studiata però con solo riferimento all’Inghilterra, il punto più avanzato, credendo che ciò fosse sufficiente per una teoria generale e valida per tutto il futuro immaginabile – da cui si trassero tendenze dinamiche rivelatesi infine errate.
Un preciso sintomo dell’impasse, in cui conduce la concezione economicistica della centralizzazione dei capitali, si ha nella prefazione di Lenin al libro di Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo. Lenin, sulla falsariga dell’autore del libro, concede a Kautsky che, in linea di principio, esiste nel capitalismo la tendenza, detta ultraimperialistica, alla formazione di un unico grande centro capitalistico mondiale; anzi di un unico grande trust, ancora una volta riducendo la sfera politica (e ideologica) a mero epifenomeno di quella economica (e questo è veramente singolare per Lenin, politico per eccellenza). Onde non cadere nelle allora comprensibili (e ragionevoli) tesi riformistiche, evoluzionistiche, gradualiste, del capo della socialdemocrazia, trattato da “rinnegato”, a questa concessione teorica Lenin aggiunse un poco onorevole, per il suo cervello geniale, “in pratica”. Cioè, egli affermò che, “in teoria”, Kautsky era nel giusto ma, “in pratica”, quella corretta previsione tendenziale si sarebbe realizzata solo mediante la lotta sempre più acuta tra le varie borghesie capitalistiche (tra le varie potenze, di fatto) che, con le tragedie e crescente miseria da essa prodotte, avrebbe innescato l’immancabile rivoluzione proletaria con affossamento del capitalismo e….tutte le altre meraviglie promesse.
E’ passato un secolo, il capitalismo non è finito, ha attraversato (parlo della sua area più avanzata) un lungo periodo di sostanziale pace, di crescita del tenore di vita di tutti gli strati sociali; ha infine vissuto la fine del suo presunto rivale storico (che non era per niente un “socialismo in costruzione”). Adesso, tale formazione sociale può apprestarsi ad un’altra epoca di acuta conflittualità interna (tra potenze) senza dover temere rivoluzioni “proletarie”; la Classe, degradata a “movimento operaio”, si è completamente sbiadita, resa inoffensiva (salvo che per naturali e qualche volta robuste proteste in periodi di disagio e relativo calo delle condizioni di vita e di lavoro). Ormai solo alcuni disonesti si servono del malessere, che probabilmente crescerà, per travestirlo con la vetusta ideologia del comunismo, o del conflitto capitale/lavoro, allo scopo di procurarsi carriere politiche oppure – nel caso di arrivisti accademici nel campo delle scienze sociali – per farsi largo e, giocando al radicalismo, accoccolarsi infine nelle istituzioni dove vengono amorevolmente accolti e gratificati di onori e denaro. Ricordo bene come, nella Dc, una parte non indifferente dei suoi dirigenti iniziasse sbraitando nelle correnti “di sinistra”, per poi raggiungere ottimi scranni o comunque posticini di lauta remunerazione. I sinistri d’oggi, ivi compresi quelli “radicali” e sempre con il “cuore” agli operai (o comunque ai ceti popolari), sono la copia conforme di quei meschini opportunisti.
E’ del tutto evidente che oggi il marxismo non morde più; e anche il leninismo, se ci si attiene meramente alla sua parte più “economica” (come voleva essere quella degli studi sull’imperialismo), non consente di muovere ulteriori passi in avanti; salvo appunto che agli opportunisti più furbi che, partendo dalla radicalità, arrivano poi a contrattare migliori posizioni nell’establishment (ma che cosa si crede sia stato il ’68 e ’77? Esattamente questo tipo di percorso compiuto da presuntuosi intellettuali senza morale, percorso che aveva capito quasi solo Pasolini; e che non è ancora finito, conosce alcune, sempre più miserabili, code). Dunque, non è dall’imperialismo, fase suprema (o ultimo stadio) del capitalismo, che dobbiamo trarre insegnamenti dal modo di procedere di Lenin. Egli, come già detto, non riverì comunque Marx, pur dichiarandosi custode del marxismo (per esigenze politiche di lotta alla socialdemocrazia opportunista).
Le sue intuizioni più fondamentali sono quelle strategiche: le “masse” (non la semplice, presunta, classe operaia) entrano in movimento nella fase di più acuto scontro tra dominanti. Quest’ultimo non si verifica, nella sua parte più “viva” e squilibrante, tra capitalisti (imprenditori) all’interno di un generico modo di produzione capitalistico (appunto in generale), bensì tra i gruppi dominanti – quindi sempre in ogni caso strateghi politici in qualsiasi sfera sociale si muovano – di potenze (formazioni particolari) diverse; e la massima asprezza si raggiunge nel momento in cui lo sviluppo
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ineguale di tali formazioni squilibra la fase di predominio mondiale di una di esse e fa entrare in una epoca (assai lunga, almeno pluridecennale se non secolare) di loro aperto scontro per nuove supremazie.
Certamente, questo scontro – a livello internazionale – mette in moto anche la conflittualità interna ad ogni formazione particolare. Non certo però secondo moduli bipolari; e mai secondo schemi semplicisticamente trasferiti nel tempo e nello spazio. Non dunque secondo il modello della “lotta di classe” iniziata, tanto per indicare una data, nel 1848 e largamente finita da decenni, malgrado la vischiosità ideologica del “comunismo” e del “movimento operaio” (e del “conflitto capitale/lavoro”). Nello stesso momento, si deve tener conto anche di aree diverse della formazione mondiale (aree cui appartengono pure le potenze, di varia forza, che si combattono internazionalmente); nella stessa area, inoltre, è necessario produrre l’analisi specifica – pur non potendo certamente rinunciare alle generalizzazioni, che sono il cuore della teoria – di differenti formazioni particolari.
In ogni caso, soprattutto quando inizia l’epoca dello squilibrio e dell’avvio verso il conflitto più acuto tra dominanti di potenze diverse, gli urti tra di essi, interni ad una formazione particolare, sono fortemente condizionati appunto dalla loro lotta nell’arena mondiale; e non si tratta di scontri di tipo economico e interimprenditoriale, poiché quest’aspetto è solo la maschera ingannevole che indossano tutti gli agenti strategici del capitale; tutti mettono avanti i vantaggi economici, cioè la razionalità strumentale, quella dell’efficienza del “minimo mezzo”, unita – nell’epoca più moderna, per le mutate esigenze del dominio capitalistico – a falsamente benevoli considerazioni sulle condizioni dei lavoratori o della popolazione in genere. La vera misura del successo – e quindi il reale campo in cui si conduce la battaglia – si ha nella politica e nell’efficacia di quest’ultima ai fini dell’acquisizione della maggior potenza necessaria al fine della supremazia; in questa battaglia l’economia (con la finanza in forte visibilità) è solo strumento, importante ma solo quale mezzo per il fine supremo.
In questa chiave va concretamente letto lo scontro tra il gruppo reazionario capeggiato dalla Fiat (con Intesa, Unicredit e quella che denomino GFeID) – decotto, parassitario, mantenuto, e quindi sottomesso e servo della potenza statunitense nel suo nuovo tentativo di predominio mondiale – e il gruppo Eni (che mi sembra un po’ isolato) collegatosi a est con la Gazprom; ancora una volta ponendo in primo piano la sola convenienza economica, ma fruendo invece dell’intervento dei soggetti strategici politici (gli Stati, i governi, le lobbies, ecc.). Si pensi all’incredibile frantumazione degli schieramenti, con gran parte della sinistra e pezzi importanti della destra (mi verrebbe da dire i rinnegati del Pci e quelli del fascismo), che hanno fatto agitazione contro Gheddafi nella sua visita in Italia, mentre quello che era – anche da me – considerato il filoamericano per eccellenza, Berlusconi, sceglieva una posizione quasi contraria (pur senza la decisione che sarebbe ormai necessaria in questa fase storica). Gheddafi è un pezzo importante della politica estera che guarda ai rapporti – per nulla affatto solo improntati all’economia – tra Eni e Gazprom. D’altronde, ci torneremo spesso in seguito. Rilevo solo brevemente che, non certo perché ci siano i buoni e i cattivi ma per ragioni oggettive, mentre la Fiat è decisamente una pedina degli Usa in Italia e nella UE, un ruolo antitetico occupa, appunto oggettivamente, l’Eni, la cui politica serve a mantenere una nostra minima autonomia politica rivolgendosi, per i suoi interessi, verso est, verso la Russia.
5. L’epoca che fu detta dell’imperialismo – ultimi decenni dell’800 e fino alla prima guerra mondiale, ma di fatto protrattasi con caratteristiche differenziate, per la presenza dell’Urss, fino al 1945 – non fu dunque affatto la fase suprema o ultimo stadio del capitalismo, non fu l’epoca in cui la presunta tendenza all’ultraimperialismo non si realizzò solo grazie al diffondersi della sedicente rivoluzione proletaria mondiale, con le sue convulsioni che, dopo il 1945, non toccarono più nemmeno di striscio il mondo capitalistico più sviluppato.
Ridicolo fu l’affannarsi degli ortodossi – fino a tempi recentissimi – per dimostrare che l’ultimo stadio, di cui parla Lenin trattando dell’imperialismo, era semplicemente l’ultimo in ordine di tempo; che fase suprema significava soltanto suprema fino a quel momento. Così procedendo teorica-
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mente, con atteggiamento chiesastico di giustificazione e riadattamento di ogni parola detta dal Profeta, non si va da nessuna parte. Lenin intendeva per ultimo o supremo proprio il limite ormai raggiunto dal capitalismo, dopo di che tale formazione non poteva che entrare in stato di putrefazione e di rivolta delle masse ormai insofferenti perché il capitalismo, giunto al massimo della sua centralizzazione, non sarebbe più riuscito a sviluppare le forze produttive, che ormai premevano invece in direzione del rivoluzionamento dei rapporti fino alla loro nuova configurazione, prima socialista e poi comunista1, in grado di ridare slancio allo sviluppo stesso. Era questa la stessa concezione di Marx, che vedeva la rivoluzione abbastanza vicina come ho dimostrato più volte, citando suoi interi pezzi che non potrebbero essere più chiari in proposito.
D’altronde, affermo oggi, contrariamente a quanto sostenuto altre volte, che Lenin aveva ragione, in un certo senso aveva visto giusto. Però, solo in un certo senso. Nessun marxista ha mai voluto accettare che l’analisi di Marx – giustamente centrata su quello che era il punto più avanzato del capitalismo – era in ogni caso relativa all’unico capitalismo fino ad allora realmente esistente, la cui struttura di base si sarebbe dovuta allargare a macchia d’olio in tutto il mondo. Qui sta l’errore decisivo del marxismo: non tanto di Marx, che studiava quello che poteva vedere, ma dei marxisti successivi. Per quanto concerne il concetto di modo di produzione capitalistico, tutto è rimasto fermo al 1867, alla pubblicazione del I libro de Il Capitale. Solo che il capitalismo inglese si è sviluppato in un “mondo”, in cui è andato scontrandosi sempre più acutamente con altri capitalismi (in particolare il tedesco e l’americano) e, quando si è entrati nell’epoca dell’imperialismo – scontro intercapitalistico violento, ma non come semplice concorrenza tra capitalisti proprietari dei mezzi di produzione (poi definiti imprenditori), bensì sempre più tra potenze capitalistiche, cioè tra gruppi dominanti non esclusivamente dediti alla sfera economica – tale capitalismo (inglese) è andato declinando.
All’epoca della prima guerra mondiale – scontro policentrico per eccellenza, nulla a che vedere con la banale competizione intercapitalistica nei mercati! – il capitalismo inglese, quello studiato da Marx e sulla cui base egli aveva formulato le presunte leggi della sua dinamica trasfigurate in leggi del modo di produzione, era veramente ormai “all’ultimo stadio”. Poiché nessun marxista, e nemmeno Lenin in tal caso, era preparato a pensare che ci potesse essere un’altra formazione sociale dopo il “capitalismo” marxiano diversa da quella in transizione verso il comunismo (tramite il socialismo), ci si convinse di essere all’inizio dell’epoca della trasformazione rivoluzionaria del capitalismo in comunismo. L’imperialismo era l’ultimo stadio in senso proprio; ed infatti lo fu. Solo che era l’ultimo stadio del capitalismo inglese, studiato da Marx, quello che ho provvisoriamente definito borghese. D’altra parte, la fase suprema fu interpretata solo come massima centralizzazione monopolistica – con supremazia della banca sull’industria, e in questo Lenin si “appigliò” al socialdemocratico “revisionista” Hilferding – perché fu la Germania ad essere presa a modello del capitalismo “morente”, giunto all’ultimo stadio, quello che doveva condurre al dominio dei rentier parassiti, al blocco dello sviluppo delle forze produttive, prodromo e causa della sua rivoluzionaria trasformazione in comunismo.
Lenin capì l’irruzione nella storia delle masse (contadine) d’oriente, e nel contempo prese a modello – ad esempio, per gli sviluppi del presunto socialismo in Urss – il taylorismo-fordismo, un aspetto prevalentemente tecnologico, riguardante il processo lavorativo. Nessun marxista si accorse come la nuova formazione, in fase di netto rafforzamento fin dal primo scontro interimperialistico mondiale, fosse una nuova struttura sociale (non solo tecnologica), quella statunitense, nient’affatto proletaria né in marcia verso il suo ineluttabile sbocco nella rivoluzione comunista. Pur con semplice riferimento alla sola sfera economica, il marxismo era impreparato a capire che questa formazione sociale stava assumendo caratteristiche del tutto diverse da quelle del modo di produzione capitalistico inglese; il problema decisivo non era affatto il taylorismo-fordismo che divenne cavallo di
1 Se qualcuno non conosce la differenza tra socialismo in quanto semplice primo gradino del comunismo, che si instaura successivamente dopo ulteriore trasformazione (non più però rivoluzionaria, ma graduale) dei rapporti sociali, se la vada a studiare nei classici del marxismo e in Marx soprattutto. Non posso evidentemente svolgere qui un corso di lezioni propedeutiche a quanto sto dicendo.
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battaglia di certe revisioni del marxismo nel secondo dopoguerra, instradando l’analisi di tale corrente di pensiero verso la sua definitiva via senza più uscita; salvo le ulteriori involuzioni relative al capitale cognitivo, alle “potenze mentali della produzione” come centro del capitalismo e della rivoluzione contro di esso, e alle altre banalità sempre più rarefatte, che hanno condotto agli esiti attuali delle chiacchiere insensate di tipologia operaista.
Già dopo la prima guerra mondiale iniziò il tramonto del marxismo, pur se ha impiegato tanto tempo a “morire” definitivamente. Le trasformazioni del capitalismo americano – lo ripeto: pur attenendosi anche semplicemente alla sfera economica – iniziarono a produrre effetti subito dopo la prima guerra mondiale. La rivoluzione proletaria rifluì completamente dal capitalismo più avanzato, e i suoi predicatori non compresero per nulla le convulsioni prodottesi nell’area del morente capitalismo borghese, dove non si verificarono i presunti movimenti che i marxisti consideravano premonitori della fine del capitalismo tout court, con l’ultima resistenza del capitalismo finanziario e addirittura, in Italia, di quello agrario. I movimenti effettivamente sviluppatisi furono presi quali sussulti agonici del passato, quindi eminentemente reazionari. Mai errore fu più esiziale e nefasto. Il nazifascismo non fu nulla di tutto questo, bensì un’autentica rivoluzione che tentava di eliminare i resti del capitalismo morente (borghese; da qui tutte le decisive tendenze antiborghesi del fascismo), prendendo però un’altra strada rispetto a quella del capitalismo americano. Per studiare seriamente questo problema, inviterei comunque qualche serio storico (non di sinistra né tanto meno “antifascista”, di1quelli odierni!) a ripensare la questione. Debbo proseguire per un’altra via, la mia più con- geniale .
Il marxismo non poté spiegare, al di là della battuta gramsciana circa la rivoluzione contro Il Capitale, perché ormai non fosse più possibile alcuna rivoluzione proletaria – che per i comunisti coincide con operaia – nei paesi a capitalismo avanzato. Il tradunionismo non era prerogativa dell’operaio inglese, ma di ogni altro movimento che, via via, superò la fase della trasformazione dell’economia, in vari paesi in successione, dalla prevalenza dell’agricoltura a quella dell’industria e dei servizi. La rivoluzione, solo proletaria (contadina) e non operaia, continuò a diffondersi nel cosiddetto terzo mondo, ma non appena qualche paese di quest’ultimo accedeva alla vera e stabile fase industriale, il tradunionismo riprendeva il sopravvento, sintomo che – si sarebbe dovuto capire con almeno mezzo secolo d’anticipo – dimostrava l’assoluta non rivoluzionarietà della “classe” operaia; che, del resto, come ho dimostrato mille e una volta, non era quella pensata da Marx, perché le semplici tute blu non potevano essere prese come soggetti capaci di una qualsiasi egemonia nella società.
L’avvento della nuova formazione americana, quella dei funzionari del capitale, prese il marxismo – ancora dedito a cercare l’ultimo stadio nel capitalismo monopolistico di Stato (vero ossimoro, fine malinconica di una grande teoria) – alla sprovvista con le tesi di Berle e Means sul capitalismo democratico in base alla diffusione della società per azioni a proprietà estremamente distribuita, che non era affatto una semplice estensione del modello della società per azioni già considerata da Marx come propria del capitalismo (borghese) e strumento principe della centralizzazione monopolistica, della prevalenza del capitalismo finanziario (dei rentier) ormai parassitario, ecc.; tutte considerazioni già fatte più volte. La risposta del marxismo tradizionale a Berle e Means aveva elementi di buon senso, ma di arretrata difesa teorica. Indubbiamente, la proprietà diffusa consentiva a piccoli gruppi di azionisti, in possesso di quote non maggioritarie, di controllare l’intera corporation, vista solo come grande impresa monopolistica. Il fatto che quest’ultima si autofinanziasse, e si creasse magari la propria banca – con processo invertito rispetto a quello analizzato da Hilferding per il capitalismo tedesco e che sta alla base dell’Imperialismo di Lenin: era la banca a finanziare l’industria e se ne impadroniva creando parassitismo e tendenza alla putrefazione con blocco allo sviluppo delle forze produttive, ecc. – era considerato una semplice variante dell’analisi Hilferding-
1 Guardate però che è decisivo capire che cosa veramente è stata la rivoluzione nazifascista, per nulla affatto passiva. Così solo si può capire l’asineria compiuta dai comunisti nella loro alleanza con la socialdemocrazia, errore che ha accelerato la decomposizione di quel movimento crollato poi verso la fine del secolo.
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Lenin. La categoria del capitale finanziario, la seconda dell’Imperialismo, restava la stessa concettualmente; al suo interno mutava solo la posizione predominante tra i due elementi del capitale in simbiosi: prima dominava quello bancario, ora quello industriale. Povertà teorica di un marxismo ormai nel pallone!
Con la public company iniziò la resa dei conti: non c’è alcun gruppo proprietario di controllo, dato che quest’ultimo spetta al management. Fu Burnham a intuire la realtà; ma non era già più marxista quando lo fece, anzi robusto reazionario. Naturalmente, enfatizzò l’elemento manageriale, vide la graduale scomparsa della proprietà dall’orizzonte della grande impresa; in ciò sbagliò. A differenza però di Schumpeter, che della grande impresa considerava l’elemento della burocratizzazione con progressivo spegnimento della spinta innovativa imprenditoriale, Burnham comprese come questa struttura della nuova formazione sociale (che il sottoscritto non definisce manageriale bensì dei funzionari del capitale) avrebbe ridato forza al capitalismo, creando una sua ulteriore espansione egemonica nel mondo (e lo si è ben visto; o si continua con la cecità?). La proprietà è rimasta, ma come scudo protettivo e, in un certo senso, anche coercitivo.
Di volta in volta, l’ideologo del capitale ha enfatizzato i vantaggi del potere manageriale – può dedicarsi a progetti di lungo periodo senza essere assillato dalla prospettiva di profitto, che riguarda il breve periodo – oppure i suoi danni: irresponsabilità, nessun rischio di fallimento scaricato sugli azionisti non controllori di nulla, ecc. Il quadro era comunque irrimediabilmente mutato; e il marxismo di Marx, il marxismo del capitalismo inglese (borghese) continuava a pestare acqua nel mortaio, a ripetere lo “sfruttamento” e la lotta contro di esso, una lotta sempre più tradunionistica, null’affatto rivoluzionaria se non nel cervello ormai piccolo piccolo del marxista residuato, rinsecchito, rimbambito. E il marxista di questo tipo continua con la sua solfa sulla centralizzazione monopolistica dei capitali, che infine porterà a urtare contro il limite che essa pone allo sviluppo delle forze produttive (il capitale è barriera a se stesso, strepitano ancora i poveri resti di quello che fu un pensiero rivoluzionario).
6. In definitiva, Lenin aveva e non aveva ragione. L’imperialismo fu comunque un ultimo stadio. Per chi non aveva superato la concezione del capitalismo secondo Marx – che però non è mai stata superata, in fondo, nemmeno ora (mi si riconosca di essere l’unico a formulare queste tesi per il momento) – cioè quella delle “leggi” del modo di produzione capitalistico tratte dallo studio del “modello” inglese, è ovvio che dopo tale formazione sociale non potesse esserci null’altro se non la rivoluzione proletaria, l’avvento della classe operaia al potere e dunque l’avvio della transizione al comunismo. La lettura consentita da quella teoria non era in grado di afferrare la trasformazione del capitalismo borghese nella formazione dei funzionari del capitale; nuovo “modello” che, nel corso del secolo si affermò come preminente sul piano mondiale. L’incapacità di comprendere tale processo ha provocato tutti i successivi contorcimenti, l’incredulità dei comunisti nel constatare la loro continua perdita di peso nel capitalismo avanzato, della quale hanno continuato – in pratica fino alla fine della guerra di liberazione nazionale in Vietnam (che si è dimostrata infine tutto salvo che una rivoluzione proletaria) – a consolarsi con la presunta avanzata del comunismo nel terzo mondo.
Ormai siamo per fortuna alla fine di questa triste, e ormai pure ridicola, “istoria”; gli ultimi dementi marxisti “ortodossi” stanno arroccati in qualche posizione accademica e in qualche rivista o sito internet da dove emettono rantoli da morenti o i suoni inarticolati di persone fuori di senno. All’epoca di Lenin, l’involuzione del comunismo marxista – e il rifluire verso un comunismo da sognatori, assai più arretrati e irrazionali dei Sismondi o Proudhon e degli altri dell’ 800 (in specie della prima metà del secolo) – non era prevedibile, anche se era già iniziata. Tuttavia, lo ripeto, si prenda atto che quell’epoca, detta dell’imperialismo, fu un ultimo stadio (non userei il termine “fase suprema”) di qualcosa: appunto del capitalismo borghese di tipologia inglese. Detto meglio: del capitalismo strutturatosi secondo certe modalità durante l’epoca del predominio mondiale (centrale) dell’Inghilterra.
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Prima di trarre le dovute conclusioni dall’accaduto, voglio riferirmi ad un’altra tesi che fu troppo facilmente rifiutata come semplice errore: quella di Lukàcs circa la distruzione della ragione. Era null’altro che un errore simmetrico a quello dell’analisi dell’imperialismo come ultimo stadio. Pure il filosofo ungherese aveva e non aveva colto il fenomeno. In fondo, anche lui constatava un ultimo stadio: quello della ragione illuministica e poi positivistica, giunta alla sua fine come indubbiamente aveva intuito Nietzsche. Solo che, ancora una volta, la fine di un certo tipo di ragione venne pensata quale fine della Ragione. E cosa poteva annunciare tutto questo? Che la borghesia era ormai morente – ed infatti quel tipo di capitalismo, come già detto, stava in effetti morendo, ma nel senso della sua trasformazione radicale in un altro tipo – e tale morte annunciava, errore fatale!, l’avvento della nuova Classe emancipatrice dell’Umanità.
Poiché tuttavia non si era gran che in grado di “scoprire” di quale nuova Ragione fosse portatrice tale Classe (o il proletariato, sempre usato indifferentemente al posto di questa), si escogitò una delle più orride trovate che hanno pesato per tutta la storia successiva: la Ragione era sempre quella – una ragione avulsa dalla storia, mummificata come lo sarebbe divenuto il pensiero del comunismo – perché non poteva che essere una e una sola. La borghesia l’aveva però fatta “cadere nel fango” e distrutta (appunto con il “nichilismo”, vero o presunto che fosse; per me non lo è, ma non mi soffermo su questo, che è inessenziale) perché appunto morente; il proletariato avrebbe raccolto la “bandiera”, l’avrebbe issata e portata a nuovo splendore, a nuova vita. Non ci sarebbe potuta essere scelta più nefasta, di cui lascio perdere le conseguenze perché non sto qui scrivendo di filosofia e cultura.
Althusser, quando attaccò i reazionari filosofi dell’Uomo (perché sono i più reazionari!), aveva afferrato il problema; solo che insistendo sulla fasulla “lotta di classe” quasi fosse una sorta di Demiurgo della Storia, si è avviato lungo una strada senza uscita. Non era sufficiente dichiarare che le classi si formano nella lotta – intento lodevole di non cristallizzare la Classe Operaia, senza tuttavia scalzarla dal suo posto privilegiato – poiché bisogna proprio uscire dal giochetto del formarsi, in questa lotta, di due classi ben contrapposte e portatrici di progetti nettamente alternativi: da una parte, la classe (sempre quella borghese in definitiva) che vuol conservare quell’assetto sociale e, dall’altra, la classe (sempre operaia) che vuol condurre a termine la transizione verso il comunismo.
La fine della borghesia e della sua Ragione non era la fine delle società divise – ma non con netta dicotomia – in (gruppi di) dominanti e in (gruppi di) dominati. La ragione che sembrava prevalere nel capitalismo borghese – quello detto concorrenziale dove migliaia di capitalisti (anche dirigenti della produzione) si accapigliavano fra loro per battersi in tema di prezzi/costi – era quella dell’efficienza economica, del “razionale” uso delle risorse (fattori produttivi) secondo il principio del “minimo mezzo” (o del “massimo risultato”, a seconda del punto di vista). Si tratta del resto di quella razionalità che, secondo Marx, si sarebbe inaridita con la centralizzazione dei capitali e la trasformazione del capitalista concorrenziale in rentier, dedito non all’economia dei mezzi, ma ai vari imbrogli finanziari. Tuttavia – ecco dove nasce l’idea della bandiera lasciata cadere dalla borghesia e ripresa in mano dalla classe operaia o proletariato – una simile razionalità, ormai logorata dai rapporti di produzione capitalistici trasformatisi in limite e barriera, sarebbe ridiventata vitale e decisiva nel socialismo e comunismo per imprimere il massimo sviluppo alle forze produttive onde consentire infine che “a ciascuno fosse dato secondo i suoi bisogni” (principio cardine senza cui Marx non prevedeva alcun comunismo; altro che quello della scarsità, frugalità, anticonsumismo, povertà francescana e le stupidità varie dei precomunisti odierni).
In realtà, anche nel capitalismo borghese, tale razionalità era solo quella che prevaleva sul davanti della scena. In tutte le formazioni sociali succedutesi nella storia, la razionalità decisiva è quella che orienta la lotta per la supremazia; e tale razionalità non ignora né trascura minimamente quella del “minimo mezzo” (anche un comandante in battaglia tiene conto, se possibile, dell’economia in fatto di mezzi e di uomini), ma la pone in posizione subordinata, quale semplice strumento che coadiuva l’affermazione nello “scontro”. La razionalità di uno stratega non si ferma all’economia dei mezzi e va oltre, verso le “migliori mosse” che portano alla vittoria; e, se del caso,
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l’economia dei mezzi, in quanto soltanto uno degli strumenti impiegati nelle strategie, va sacrificata ad altre modalità di condotta. Il capitalismo si distingue dalle forme sociali precedenti perché, ai fini dell’applicazione delle strategie, la sfera produttiva diviene uno dei teatri importanti in cui si svolge la lotta per la supremazia. Nelle società precapitalistiche, la sfera economico-produttiva – asservita ai dominanti – forniva mezzi, risorse, ma le strategie si svolgevano in altri teatri: politico-militare, essenzialmente, e anche ideologico-culturale. Nel capitalismo, le strategie invadono la sfera economica, produttiva.
E perché, con l’avvento del capitalismo, la strategia si impadronisce pure della sfera economico-produttiva? Appunto per la generalizzazione della forma di merce assunta dal prodotto; appunto perché tale prodotto è fabbricato all’interno di una particolare unità produttiva in cui un soggetto (capitalista-imprenditore) organizza la produzione sulla base dell’acquisto di fattori – fra cui decisivo quello costituito dalla forza-lavoro – che sono merci; appunto perché, in definitiva, la merce implica il denaro (nelle varie figure monetarie) e la suddetta organizzazione della produzione diventa calcolo dei costi e del prezzo cui si può vendere il prodotto. Ed ecco allora prodursi tutti i mascheramenti creati dall’apparenza della merce nella forma del denaro. Noi siamo stati abituati, in quanto marxisti “di ferro” sempre strepitanti contro lo “sfruttamento” (estorsione di pluslavoro nella mistificante forma del valore), a considerare la merce, con l’equivalenza (in media) degli scambi in cui essa circola, quale forma di nascondimento di detto sfruttamento.
Questo svelò Marx e questo resta suo imperituro merito storico. Anch’egli cadde però preda di un altro, più sottile nascondimento: quello della competizione intercapitalistica basata sul principio dell’economicità, della razionalità del minimo mezzo che, portata al più alto livello dal capitale, sarebbe poi servita pure nel socialismo e comunismo. Il minimo mezzo è strumento fondamentale della competizione, ma la forma denaro lo fa apparire come minimo costo monetario e poi prezzo tramite il quale si combattono i concorrenti. Tale forma trasfigurata prende appunto il davanti della scena, per cui si crede alla sua decisività nella lotta intercapitalistica, di cui quella interimprenditoriale diventa l’aspetto principale. Il davanti della scena è appunto rappresentato dalla sfera economica pensata come predominante, quella in cui sembrano svolgersi le vere ed essenziali battaglie per prevalere; e la prevalenza si conseguirebbe migliorando i costi, cioè l’utilizzo delle risorse produttive. Sotto questo utilizzo, Marx vide la maggior efficienza nell’estrazione del pluslavoro/plusvalore (in specie relativo), ma non contestò la supremazia dell’economia, pur se va ricordato che egli, di questa sfera, considerò soprattutto i rapporti sociali (“il capitale non è cosa ma rapporto sociale”) e non la semplice economicità come hanno fatto gli epigoni, quelli della caduta del saggio di profitto, della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e di altre “delizie” similari.
I marxisti di questo tipo vanno ovviamente mandati….dove meritano. Tuttavia, Marx restò prigioniero dei rapporti sociali di produzione, cioè della decisività dei rapporti tra gruppi sociali nella produzione dei beni. Il governo – e tuttavia, in definitiva, lo Stato in quanto apparato manovrato dal governo – venne pensato quale “comitato d’affari della borghesia”; quest’ultima, soprattutto formata dai capitalisti proprietari dei mezzi produttivi (e, nel primo capitalismo, anche organizzatori della produzione), se ne sarebbe servita quale strumento di potere e di coercizione. Dunque, la classe dominante veniva collocata nella sfera economica, come pure la classe contrapposta che avrebbe poi dovuto, per dinamiche sempre interne alla sfera economico-produttiva, sostituirla al potere dando vita alla trasformazione comunistica.
7. Se la produzione diventa generalmente mercantile, e la merce è prodotta nelle unità produttive poi denominate imprese, la lotta di queste ultime avviene come primo, e più visibile, impatto nel mercato, che rappresenta il reticolo dei rapporti nella sfera economica; un reticolo non semplicemente di scambio tra prodotti, ma di lotta e competizione per vincere e sopravvivere, semmai espellendone gli altri; fatti salvi gli eventuali accordi, in quanto aspetto parziale, atti a meglio condurre la battaglia (aspetto generale) contro questi altri. Tuttavia, l’economicità (principio del minimo mezzo, cioè costo) è solo uno strumento della lotta, poiché i capitalisti non sono semplicemente organizza-
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tori della produzione (non soltanto, come dice Marx nelle Glosse a Wagner, “contribuiscono a creare ciò che poi prelevano come plusvalore”), bensì sono strateghi che applicano le mosse più “convenienti” (dove non si tratta di convenienza puramente economica, di efficienza, bensì di efficacia) per affermare la loro supremazia. Le strategie, pur se applicate nella sfera economica, sono sempre politiche di un certo tipo; e si apparentano dunque, si stringono in fascio e unione, a quelle in svolgimento nelle altre sfere, in particolare in quella specificamente politica (e anche in quella culturale). I dominanti capitalistici sono perciò gruppi di agenti strategici (in conflitto reciproco per la supremazia) operanti nelle varie sfere, in complicato intreccio fra loro, dove a volte prevalgono in effetti quelli in azione nell’economia, altre volte quelli specificamente politici, a seconda delle condizioni che debbono essere analizzate in congiunture o fasi diverse, e soprattutto con riferimento a situazioni che considererò poco più sotto.
La sfera economica produce ormai generalmente merci, ma queste ultime si rappresentano nel denaro, nelle varie forme monetarie. Dunque, la finanza, il settore dell’economia che “muove” il denaro, è un tipico settore di svolgimento di strategie. La non considerazione di tale tipo di “ragione”, il fatto di aver “visto” solo quella dell’economicità – con la convinzione che questa, nel suo pieno svolgimento in campo economico, avrebbe dato impulso allo sviluppo delle forze produttive, confacente anche alla fase del comunismo – ha nascosto a Marx il carattere fondamentale della finanza. Una volta che la centralizzazione capitalistica avesse condotto alla prevalenza dei capitalisti qui operanti, egli credé di vedervi la decadenza della borghesia, resa sinonimo di decadenza e disfacimento del capitalismo tout court, con l’emergere del vigoroso soggetto rivoluzionario (soggetto oggettivo, si scusi il bisticcio di termini) rappresentato dall’operaio combinato o lavoratore collettivo cooperativo.
Quando il capitalismo borghese, al massimo del suo sviluppo finanziario (che ancora a lungo si protrasse nella superiorità della Borsa di Londra per la solita “vischiosità” dei processi storici), giunse al suo “ultimo stadio” – e cedette poi il posto non alla rivoluzione proletaria, bensì ai funzionari del capitale, con la messa in secondo piano della proprietà (ormai azionaria, quindi in definitiva finanziaria) e l’emergere del management – il marxismo andò nel pallone; da quel momento condusse disperate battaglie di resistenza e si ridusse sempre più all’economicismo, mentre il comunismo, strabattuto, ripiegava sul Principio Speranza affidato all’Uomo pensato da filosofi in realtà senza più speranza alcuna, solo visionari delusi e “scornati”, in totale ritirata dalla scena del mondo “reale”, che è quello in cui si combatte qui ed ora e non si rinviano le battaglie a improbabili “catarsi” del prossimo millennio. L’arte può aprirsi a prospettive non realistiche, ed essere anche grande in questo; la filosofia rischia invece di isterilirsi e la pretesa scienza diventa stanca ripetizione di credenze religiose esposte – e questo è ancora più disgustoso – in formule matematiche, grafici e tabelline.
La merce e il denaro non mascherano solo lo “sfruttamento”; nascondono anche il fatto che gli agenti dominanti – nella formazione capitalistica non meno che in quelle precedenti – lo sono in quanto soprattutto mossi dalla razionalità strategica, di cui quella dell’economicità è semplice strumento. Il capitalismo si distingue dalle altre società per l’allargamento delle strategie alla sfera economica, ma solo perché si sono avute quelle trasformazioni storiche che hanno condotto alla generalizzazione della forma di merce; e tale generalizzazione, qui ha ragione Marx, è stata resa possibile dalla riduzione a merce della forza lavoro, cioè dalla formazione del rapporto del lavoro salariato. Fin qui ci siamo. Dopo no.
L’efficienza del minimo mezzo, impiegata anche per estrarre dalla forza lavoro il massimo pluslavoro/plusvalore possibile, è solo parte della più complessiva efficacia cercata dagli agenti dominanti che ragionano strategicamente. Accenno qui solo di sfuggita alla vicinanza di questa tematica con la “volontà di potenza”; non posso adesso perdermi nei meandri della filosofia (questa comunque interessante e viva, non morta e sterile, veramente ormai distrutta). Resta il fatto, già rilevato, che l’ultimo stadio capitalistico e la distruzione della ragione segnalavano un processo realmente in corso – la fine del capitalismo borghese – ma senza minimamente capire qual era il suo effettivo
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sbocco: non l’avvento del proletariato o classe operaia al potere, non la transizione al comunismo, non il raccogliere la bandiera della Ragione borghese per portarla al suo vero compimento. Soltanto una “grande illusione”, durata un ’“eternità”. Era in arrivo la vincente società dei funzionari del capitale con il (possibile) disvelamento – mai però tentato, perché nemmeno pensato, dal marxismo – della più profonda razionalità che sempre regge l’azione dei gruppi dominanti, in conflitto (generale) fra loro per il tramite del (particolare) formarsi di alleanze ai fini della lotta per prevalere.
Nemmeno Burnham, che si spinse comunque più avanti di tutti (lasciando indietro il marxismo tradizionale), intuì la scelta giusta: egli sostenne la trasformazione della proprietà in management; quest’ultimo è pur sempre l’apparato che organizza e dirige la produzione, è il gruppo di vertice imprenditoriale, prevalentemente se non proprio esclusivamente interessato alla sfera economica, e dunque alla “ragione” ancora fondata sull’efficienza conseguibile in base al principio del minimo mezzo. L’agente dominante capitalistico – sempre, ma in modo nettamente più scoperto nella società dei funzionari del capitale – non è, nella sua figura decisiva (per quanto possa, empiricamente, ricoprire più ruoli, assumere più figure), proprietario né manager né finanziere. E’ l’operatore strategico, quello che fonda la sua lotta su saperi e razionalità che ricomprendono in sé l’efficienza, ma la superano in vista dell’efficacia dell’azione svolta nel conflitto per la supremazia.
Il ruolo strategico, pur quando sia incardinato nella sfera dell’economia in quanto facente formalmente parte dell’impresa (del suo gruppo dirigente), supera tale sfera; e senza nemmeno vi sia bisogno della consapevolezza dell’attore (soggetto) empirico che ricopre detto ruolo. Quest’ultimo si libra in un’altra sfera che avvolge, che pervade, che permea (si cerchi il termine più appropriato) tutte le sfere sociali: economica (produttiva e finanziaria), politica (con le sue diramazioni belliche in senso lato, non strettamente militari), ideologico-culturale. Il soggetto empirico appare realmente inserito in uno degli apparati in cui si condensa il campo delle energie conflittuali che “sorregge” la trama dei rapporti sociali. Egli “fa parte” dell’impresa (apparato della sfera economica) o dei comparti dello Stato (nella sua visibile materialità costituita da “macrocorpi”) e partiti, di gruppi di pressione aventi una forma istituzionalizzata, ecc. (apparati della sfera politica) o di altre istituzioni di tipologia culturale; e via dicendo.
I veri imprenditori svolgono funzioni strategiche – rette appunto dalla loro specifica ragione, che non è quella dell’economicità o quella scientifico-tecnica, ma quella della potenza, che subordina a sé le altre – esattamente come i veri capi di Stato o di partito, i veri costruttori di egemonie ideologiche, ecc. Ecco perché la distinzione e separazione – cui i funzionari del capitale tengono moltissimo, non meno dei precedenti capitalisti borghesi – tra funzioni economico-imprenditoriali e funzioni politico-ideologiche è qualcosa la cui indubbia “realtà” (l’apparenza è realtà, appunto apparente) serve ad obliterare qual è l’“essenza” del dominante capitalistico (come di tutti i dominanti nella storia): l’essere portatore della ragione strategica, della razionalità applicata al conflitto per prevalere. Il capitalismo appare così meschino, così poco capace di grandezza tragica, perché il suo ideologo ci fa vedere l’ “eroe” nella sua miserabile figura di calcolatore dei mezzi rispetto ai fini. Questa figura esiste, non se ne può fare a meno, ogni battaglia esige che calcoli del genere vengano eseguiti. Lo sviluppo della lotta ne tiene però semplicemente conto, sapendo ben andare oltre se ciò è necessario per vincere. Nella sostanza, il dominante capitalistico può essere “eroico” (senza attribuire una connotazione di valore positiva a tale termine; ci sono, ed è spesso la norma, “eroi” del tutto negativi, addirittura terribili in questa loro negatività) esattamente come in altre epoche; e tuttavia la maschera del calcolatore (di Shylock) è sempre sul suo viso.
Noi dobbiamo togliergli la maschera, cosa che nemmeno Marx seppe fare fino in fondo. Cadendo la maschera, appare il vero volto dell’agente strategico: sia “ufficialmente” imprenditore o capo di Stato o di partito o “grande intellettuale” che segna le vie dell’ideologia in cerca di egemonia, ecc. A questo punto, non si può individuare, tramite teorizzazione generale, la sfera sempre dominante – cioè quali gruppi di agenti strategici, di quale sfera, abbiano maggiori possibilità di assumere la supremazia – nel complesso della formazione sociale. Il problema è legato alle fasi, in certi casi alle congiunture di particolari aree del capitalismo. Quest’ultimo non va trattato in termini
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di semplice modo di produzione, che – con analogia solo “evocativa” – può essere assimilato ad una sorta di “geometria euclidea” dello “spazio piatto”, che è lo spazio di una parte minima dell’insieme della formazione sociale; un po’ come l’area su cui giace Roma rispetto all’intera superficie terrestre.
8. Ricordo qui tutto il dibattito sulla preminenza delle forze produttive (del loro sviluppo) o dei rapporti (ma sociali) di produzione. L’althusserismo – cui mi onoro di aver appartenuto – aveva spostato la preminenza dalle prime, cavallo di battaglia dell’ortodossia (economicistica) marxista, ai secondi. Alcuni, provocando un grave arretramento di quel “glorioso” dibattito, si sono messi ad attaccare lo sviluppo delle forze produttive predicando la decrescita; veramente incredibile la rozzezza di questi pretesi “raffinati” pensatori giacché, sviluppo o de-sviluppo, sono pur sempre prigionieri della “nefasta teoria delle forze produttive” (come dicevano i maoisti cinesi). Altri allora, pieni di spiritualismo umanitario (vera religione che semplicemente sostituisce l’Uomo a Dio), si sono messi a chiacchierare su presunte costanti antropologiche – tipo l’innata, incomprimibile oltre certi (ignoti) limiti, resistenza all’ingiustizia; oppure la preferenza umana per il Bene o altre fantasie consimili – che garantirebbero un percorso “più umano” ad una Umanità, in cui si è dileguata ogni forma di interrelazione tra individui, gruppi e raggruppamenti sociali; in cui i conflitti e le loro forme sono del tutto non indagate, al massimo presupposte come transitorie in attesa di chissà quali “miracoli” futuri.
Altri, sia per esaltare o invece criticare la ragione tecnico-scientifica – che indubbiamente si apparenta a quella dell’economicità, del minimo mezzo – si sono messi a parlare di dominio della Tecnica, di questo fausto o infausto, ma comunque “ineluttabile”, destino dell’uomo, ecc. I rapporti sociali, la loro dominanza, uno dei migliori retaggi di Marx e del più avanzato marxismo, sono scomparsi dall’orizzonte. Il loro posto è stato preso dalle “cosali” strutture organizzative che si formano nel processo di lavoro e che, soprattutto a partire dalla seconda rivoluzione industriale (verificatasi nell’epoca del tramonto del capitalismo borghese), tendono ad intrecciare sempre più strettamente i percorsi della scienza e della tecnica (in realtà, tecnologia). Per mutare i rapporti di forza nella società, per renderla più benigna, foriera di maggiore eguaglianza, si ritiene essenziale concentrare l’attenzione critica su tali apparati, esaltando o invece denigrando la tecno-scienza, questa razionalità che, lo ripeto, è simile a quella dell’efficienza del minimo mezzo, solo passando dalla sfera economica – in quanto rete mercantile in cui i capitalisti (e tali sarebbero soltanto gli agenti in tale sfera) competono – al processo di lavoro; passaggio che ha causato un ulteriore e disastroso impoverimento dell’analisi sociale.1
Passare dall’economicismo al tecnicismo è un passo indietro, non in avanti. La critica della tecnoscienza – sia che si ammanti di attacco al Comando Capitalistico annidatosi nella tecnica e organizzazione del processo di lavoro (tempi andati), sia che venga portato nel sedicente sociale (che è poi quello dei servizi, e possibilmente dell’insegnamento dove soprattutto allignano questi devastatori di quartieri di città e di cervelli), sia ancora che si trasferisca nel sedicente ambientalismo (sempre catastrofista) – è la forma più reazionaria di critica anticapitalistica. Essa serve anzi mirabilmente, a contrario, al capitalismo e ai suoi agenti dominanti per: a) dare rilievo ai successi scientifici di tale forma di società, che si traducono in un innalzamento tendenziale (pur interrotto da crisi, che hanno un ben diverso significato e altre cause) del tenore di vita di numerosi e ampi strati sociali (oggi perfino in paesi del terzo mondo, in quelli più popolosi); b) continuare ad occultare il luogo
1 Marx aveva avvertito (Glosse a Wagner) che il “soggetto” della sua analisi era la merce; quei “marxisti degenerati” che sono stati gli “operaisti”, vera peste bubbonica distruttiva di ogni forma di pensiero razionale, hanno iniziato a imperversare con il processo di lavoro (prendendo un pezzettino dei Grundrisse, appunto il “frammento sulle macchine”, totalmente avulso dal suo contesto); poi vi hanno aggiunto la loro interpretazione (secondo me sbagliata, comunque…..cavoli loro) di Nietzsche e Heidegger, si sono appoggiati a Severino e …. voilà, “er pasticciaccio brutto” è stato ammannito ad una massa di ragazzotti senza cervello alcuno.
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del predominio degli agenti (quelli strategici appunto) del capitalismo, della nuova formazione dello stesso.
Bisogna attaccare senza requie questi autentici “mascalzoni in teoria” e riafferrare, di Marx, la centralità dei rapporti sociali. Questo fece l’althusserismo, non predicò, come qualche stolto filosofo umanista osa sostenere contro ragione, il de-sviluppo. Criticò semplicemente – ma quale portata ebbe questa critica! – l’obliterazione della preminenza dei rapporti sociali da parte di chi la pone invece nello sviluppo (o de-sviluppo, che è lo stesso atteggiamento solo cambiato di segno) delle forze produttive; oppure di chi sostituisce ai rapporti sociali le fantasmagorie di filosofi di debole pensiero (non di pensiero debole, lo specifico). Il capitale non è cosa, ma rapporto sociale; non è cosa ma tanto meno è “la Tecnica” e tanto meno ancora è “l’Uomo”. E’ rapporto sociale. L’avranno capito tutti gli asini che ragliano oggi nei vari “gruppetti anticapitalisti”? Sono certo che no, non credo minimamente ad una loro qualche scintilla di intelligenza.
Solo che la preminenza veniva dagli althusseriani assegnata ai rapporti sociali, ma ancora di produzione; si riaffacciava quindi la prevalenza della sfera economica e della sua razionalità di superficie che occulta quella più profonda (strategica). Ad un certo punto si spostò la dominanza dall’economico al politico e ideologico, pur mantenendo, credo per puro ossequio, la famosa “determinazione d’ultima istanza” da parte dell’economia. Tuttavia, lo spostamento alle sfere politica e ideologica fu compiuto enfatizzando il ruolo degli apparati, quindi in un certo senso cosificando nuovamente ciò che va ritenuto, in prima e prevalente istanza, un campo di energie interconflittuali1. Gli apparati rischiano di dirottare nuovamente l’analisi sui processi e regole delle loro “burocrazie”, cioè sui processi di lavoro che in essi si svolgono e sulle loro funzioni. In fondo, si rischia di occultare ancora una volta, dietro una razionalità di tipo economico (amministrativo), quella strategica. Si diede poi eccessiva valenza agli apparati ideologici quasi più ancora che a quelli politici (anche se si definirono, tutti, apparati ideologici di Stato).
Infine, l’elemento strategico caratterizzante il concetto di dispositivo non mi sembra del tutto soddisfacente. L’avrò frainteso, ma mi sembra che, da una parte, si faccia troppo pressante la “volontà di (accrescimento di) potenza” da parte di certi “grumi” sociali; dall’altra, questi vengono disseminati nel “territorio sociale”, immaginando una impersonale razionalità di sistema che temo possa condurre in direzione di una semplice analisi del movimento supposto “reale” e puramente oggettivo, vanificando così in buona parte il “volontario” agire politico, rendendolo piuttosto pleonastico. Mi rifarei alla frase, certo generica, buttata un po’ là da Marx nella Prefazione a Il Capitale:
“Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e quindi anche dell’operaio; nota mia]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista [ . ] può meno che mai rendere il singolo [pure il singolo gruppo sociale; nota mia] responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi” [quest’ultimo pezzo è stato messo da me in corsivo e grassetto].
Mi sembra di poter così interpretare. La “volontà di potenza”, retta da una ragione di carattere strategico – che subordina e rende a sé funzionale quella dell’economicità, e se non vi riesce la abbandona e si muove su un altro terreno, ecc. ecc. – non promana direttamente dai singoli (individui e gruppi), poiché questi sono “trascinati”, “obbligati” a muoversi in un certo modo dal loro essere impigliati in una rete (costituente un campo di energia) di rapporti avente forme storiche determinate, la cui analisi è dunque decisiva per la comprensione dei processi sociali. Tuttavia, questi singoli sono portatori dei processi, quindi “funzionano” relativamente quali “soggetti” che in essi apportano una serie di “sfumature”, di “deviazioni”, di “increspature”, di carattere appunto soggettivo.
1 Non conosco a sufficienza Bourdieu. Rilevo comunque con favore la sua critica agli apparati “althusseriani” e la sua nozione di campo, che non credo troppo simile alla mia. Tuttavia, mi riprometto di guardarlo meglio.
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D’altra parte, sappiamo che “il battito d’ali di una farfalla nel Golfo del Messico ….. ecc. ecc.”; si tratta ovviamente di un’esagerazione, ma comunque l’azione del portatore non va trascurata, previa però analisi accurata del campo di conflittualità in cui si muove. L’azione di questo portatore è appunto retta, soprattutto per quanto riguarda i “soggetti” dominanti, dalla ragione politica delle strategie di conflitto per prevalere.
9. Siamo quindi arrivati ad un punto di snodo decisivo, indicato il quale mi fermerò; non certo per sempre (salvo “incidenti”). Marx è sempre fondamentale per l’analisi; e ancor più lo è Lenin. Spero di averlo fatto capire. Non certo però rimanendo fossilizzati nel loro pensiero, poiché allora li si fa passare per semplici utopisti che hanno immaginato un futuro mai divenuto presente; e i loro errori d’analisi, oggi di possibile seppur parziale comprensione, lasciano chiaramente capire che quel futuro non ha alcuna prospettiva di realizzarsi, poiché i processi storici si sono svolti, e si stanno svolgendo, con modalità differenti. In particolare, lo stesso Marx, svelatore dell’ideologia dello scambio di equivalenti (merci) che occulta lo “sfruttamento”, è rimasto prigioniero dell’ideologia della predominanza della Ragione dell’efficienza (del minimo mezzo o della massimizzazione del fine: per lui, principalmente e quasi esclusivamente, l’estrazione di plusvalore), occultando l’effettiva preminenza della Ragione strategica, del conflitto per la supremazia, che ricomprende – superandola e dunque servendosene oppure scartandola a seconda delle convenienze ai fini della vittoria – quella economica.
Partendo dalla nuova prospettiva si dissolve l’apparenza di una predominanza (magari anche ridotta a “determinazione d’ultima istanza”) della sfera economica, pur trattata dal punto di vista della preminenza dei suoi rapporti sociali, senza concessioni alla Tecno-Scienza o all’Uomo o simili. Mai più il processo di lavoro in primo piano! Solo la rete della conflittualità e della Ragione che la muove, modella e rimodella. Dobbiamo sottoporre Marx (e Lenin) allo stesso processo che egli fece subire alla scienza del suo tempo, svelandone appunto gli intenti di occultamento ideologico. Marx riverì gli scienziati, addirittura gli avversari, quelli che di fatto rendevano eterno il capitalismo, che vedevano in esso il conseguimento di una razionalità ormai definitiva (senza aggettivazioni) nella produzione dei beni. Mentre invece criticò, trattò da reazionari e sovente sbeffeggiò personaggi come Sismondi, Proudhon, per non parlare di Lassalle o di Dühring, che pure si dicevano, nelle intenzioni, “socialisti” o almeno critici del capitalismo.
Così si trattano i veri scienziati, anche fossero laudatori dell’attuale società; e tanto più dunque Marx e Lenin che fondarono la critica – teorica e politica – della stessa. Mentre vanno rifiutati gli odierni “marxisti” dogmatici o i “comunisti” della nuova religione umanitaria, che sono assai peggiori dei Sismondi e dei Proudhon. Marx resta un grande scienziato critico del capitalismo nella misura in cui si scopre in lui il funzionamento – che mai cessa di operare in ognuno di noi – dell’ideologia che annebbia la “vista” (pur da aquila). In questo caso, fu la convinzione che i rapporti sociali decisivi, e preminenti su tutti gli altri, si stabilissero nel capitalismo all’interno della sfera economica. Questo non implica l’economicismo – tipico dei suddetti “marxisti” dogmatici che trattano il capitale come cosa – ma concentra la visione critica di tale forma di società sulla produzione (e la finanza che la duplica e se ne autonomizza), credendo inoltre all’esistenza di una forma “classica” del capitalismo (quello inglese) da cui trarre il concetto di modo di produzione con le sue “leggi” di movimento, che avrebbero dovuto condurlo alla putrescenza e alla sua trasformazione rivoluzionaria in comunismo.
A tale visione si accompagnò, come dimostrato nel corso di questo scritto, la convinzione che la razionalità del minimo mezzo – utilizzata dal capitale per l’estrazione del massimo pluslavoro (in forma di valore) possibile – si sarebbe isterilita con lo sviluppo capitalistico, ma sarebbe stata rivitalizzata nella nuova forma sociale nata dal rivoluzionamento della precedente. Da qui il predominio dell’economia sulla politica e sull’ideologia (l’egemonia ideologica), ridotte a “sovrastrutture” della “base economica”, ad ancelle insomma della riproduzione dei rapporti (sociali) del modo di produzione capitalistico. Non basta criticare il determinismo del rapporto tra base e sovrastrutture, non è
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sufficiente integrare nel concetto di modo di produzione – in quanto “struttura a dominante” (Althusser) – gli apparati della politica e dell’egemonia ideologica. E’ indispensabile svelare l’occultamento prodotto dalla messa in primo piano della razionalità dell’efficienza, dell’economicità, del minimo mezzo. Dominante, nel capitalismo come nelle altre forme sociali – solo che in queste ultime non vi era occultamento, dato che la sfera produttiva forniva solo i mezzi per la lotta tra dominanti, ma in una situazione di suo aperto asservimento ad essi – è la razionalità strategica, che penetra anche la sfera produttiva e quella finanziaria che ne deriva, essendo la produzione una produzione di merci.
A questo punto, la dinamica decisiva che interessa questa società riguarda la rete di rapporti, di cui è intessuto il campo di energie conflittuali. I rapporti sociali sono pervasi dalla lotta. Tuttavia, il campo in questione non può che creare i portatori del conflitto, che sono individui e gruppi coagulatisi intorno ad apparati e istituzioni, con le loro regole e con le loro organizzazioni lavorative che debbono esitare i mezzi necessari all’espletamento del conflitto. Quando sono presenti questi individui e gruppi, e gli apparati in cui essi sono riuniti a “grappoli reticolari”, si formano alleanze – più o meno fluide o stabili a seconda delle circostanze – per la migliore esecuzione delle strategie di lotta. Gli agenti dominanti lo sono perché dominano in quanto portatori di tali strategie, in specie di quelle che, nel reciproco intrecciarsi conflittuale, producono le decisioni più rilevanti per le dinamiche sociali; i dominanti sono dunque soprattutto i decisori. Se vogliamo civettare con il passato, possiamo indicarli quali “decisori d’ultima istanza”, cioè quelli che hanno, nella fase o congiuntura data, “l’ultima parola”.
Sono quelli della sfera economica? O invece di quella politica e/o ideologica? Non si potrà mai rispondere a queste domande in base al concetto di modo di produzione, in base alla “lotta di classe” (poi degradata a mero conflitto) tra capitale e lavoro. La micragnosità, la povertà e meschinità, di tale concezione è ormai di una evidenza che crea perfino imbarazzo a qualsiasi cervello ancora pensante. Per rispolverare la grandezza delle impostazioni passate, è indispensabile abbandonare, come ormai sostenuto da tempo, il concetto di modo di produzione (e la razionalità dell’efficienza), allargandosi alla formazione sociale con le sue varie sfere e la sua prevalente razionalità strategica. Questo passo ne implica però subito uno successivo. Non basta più aver comunque posto in evidenza la trasformazione storica del capitalismo borghese in quello dei funzionari del capitale. Occorre allargare e “ristrutturare” anche lo spazio; arrivare alla visione della formazione mondiale con il suo articolarsi in rapporti (reticolari) tra formazioni particolari.
Anche i rapporti tra tali formazioni particolari sono situati in un campo di energie conflittuali, nel cui ambito si “condensano” apparati e istituzioni (gli Stati nazionali, gli organismi internazionali, ecc.), che sono gli “individui” portatori “soggettivi” del conflitto in questione. Anche in quest’ambito, la lotta tra i portatori conduce alle alleanze, più o meno stabili e durature, che si formano in funzione dello scontro, non sempre attuale ma sempre potenziale, sempre sullo sfondo; e quest’essere sempre sullo sfondo comporta comunque effetti e riarticolazioni dello spazio attraversato dalle interazioni tra i portatori in quel campo costituito dalla rete di rapporti entro cui scorre l’energia conflittuale.
Lo spazio non deve però essere scisso dal tempo (storico) degli eventi, che sono infatti i “grumi” (condensati a partire da un dato punto d’osservazione teorico) dello “spazio-tempo” relativo al campo del conflitto. Si torna dunque al passaggio tra capitalismo borghese e quello dei funzionari del capitale (il tempo storico appunto), ma integrandolo con l’intreccio reticolare del conflitto tra formazioni particolari nel “territorio” (spazio) della formazione mondiale. Altro che mero, e povero di contenuti esplicativi, conflitto tra capitale e lavoro nella sfera economica (produttiva) di un capitalismo completamente spolpato della sua ricchezza di lotte e scontri. Altro che centralizzazione monopolistica dei capitali, che continua da oltre un secolo ad ossessionare certi economisti e li ossessionerà per un altro secolo. Altro che finanza sempre parassitaria e che tuttavia mai crolla, ma sempre rinasce dalle ceneri di ogni suo periodico “eccesso” (intrinseco al suo autonomizzarsi rispetto al resto delle sfere sociali), mentre si riconfigura nello spazio della formazione mondiale; e sem-
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pre ri-contribuisce (quasi schumpeterianamente) a nuove fasi di sviluppo, e di nuovo riappare poi il suo “parassitismo” per l’eccesso di autonomizzazione, ecc. ecc.
10. Va allora reintrodotta la periodizzazione che da tempo suggerisco. Non si deve più parlare di imperialismo, poiché si tratta soltanto di un caso particolare del policentrismo; con questo termine si intende, in un significato più generale, un periodo (tempo storico), in cui lo spazio della formazione mondiale si disarticola nell’aperto conflitto tra le formazioni particolari, le cui interazioni lo costituiscono; con prevalente riferimento a quelle formazioni particolari divenute potenze nel corso del tempo relativo a questa fase policentrica, in cui lo squilibrio si accentua in quanto effetto dello sviluppo ineguale di queste ultime. D’altro canto, tale tipo di sviluppo e il conseguente accentuarsi dello squilibrio dipendono dal fatto che il conflitto – ora più aperto ora più nascosto “dietro i sorrisi” – è fattore permanente che permea la formazione mondiale e le sue varie parti interrelate.
Il monocentrismo – preminenza inglese nell’ottocento (fin oltre la metà del secolo) e quella Usa dopo il 1945, per quanto limitata ad un’area del mondo, comprendente comunque tutta quella del capitalismo più avanzato, della formazione dei funzionari del capitale – coincide non solo con il netto predominio di una data formazione particolare sulle altre in quell’area (spazio geopolitico) per un determinato tempo (storico), bensì è pure grosso modo caratterizzato dalla decisiva e relativamente stabile conformazione “strutturale” della società per quell’intero tempo; come già detto, prima il capitalismo borghese (preminenza inglese) e poi il successivo (preminenza americana).
La Rivoluzione d’Ottobre, con tutti i limiti già considerati, pensò di essere l’innesco di una più generale trasformazione del capitalismo nella società comunista, considerata lo sbocco ultimo del processo; poi si convinse di poter avviare almeno la “costruzione del socialismo”. Non si è in realtà mai iniziata quella strada; e l’obiettivo del comunismo non è mai stato all’orizzonte, pur se ancora “gli ultimi giapponesi nell’isola” non l’hanno capito. Tuttavia, quel grandioso evento comunque rivoluzionario, attraverso tortuosi e tuttora poco capiti processi storici, contribuisce oggi all’inizio di una nuova fase policentrica 1; e su tale ipotesi punto nella presente elaborazione teorica.
Il policentrismo – cui non applicare pedissequamente (e dogmaticamente) le categorie teoriche dell’analisi leniniana dell’imperialismo, di cui ho dimostrato, fra l’altro, la debolezza proprio nella parte rimasta aderente alla concezione marxiana delle dinamiche (sociali) del modo di produzione capitalistico (identificato con la struttura produttiva del capitalismo inglese, lo ricordo ancora) – spingerà assai probabilmente alla trasformazione della società dei funzionari del capitale in direzione di una nuova forma dei rapporti sociali tuttora informe, instabile, non conosciuta ma nemmeno, secondo la mia opinione, conoscibile se non per alcuni spezzoni ipotizzati come realistici. Una conoscenza più adeguata sarà consentita in una fase ben più avanzata dell’epoca policentrica, quando lo scontro tra formazioni particolari (alcune divenute nuove potenze) avrà assunto contorni meglio delineati.
Qui, come già preannunciato, mi fermo. Mi sembra comunque di avere raggiunto un punto della formulazione teorica discretamente fermo, dotato di qualche stabilità. Non credo di essere più nella fase della mera decostruzione, dello sgombero delle macerie, che sono comunque ancora tante e assai ingombranti. Nuove leve di giovani si devono mettere al lavoro; non limitandosi a chiosare Marx o gli altri marxisti, la cui grandezza va rispettata proprio traendo dai loro errori – considerati tali con “il senno di poi” – la lezione e la spinta per un decisivo balzo in avanti. E senza mai tornare a prima di Marx, come fanno gli economicisti e gli umanisti (sempre loro!). Con economicisti e umanisti noi siamo incompatibili. Non sono nemici, per carità, ne abbiamo di ben altri. Semplicemente, li riteniamo completamente al di qua, per la loro decrepita vecchiezza, della ricostruzione di una teoria adeguata alla nuova fase; qui ed ora, non fra secoli.
1 Ho assegnato al multipolarismo il significato di transizione al policentrismo, poiché questo, al suo avvio, vede ancora in posizione decisamente prevalente la formazione particolare (potenza) predominante nella precedente epoca monocentrica. Probabilmente, multipolarismo è termine ambiguo e non del tutto adatto all’uso che ne faccio. Per il momento, l’importante è capirsi sulle ipotesi relative al succedersi degli eventi nel loro tempo di scorrimento storico.
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