ABBASSO L'EUROPA! VIVA L'EUROPA! (di Giuseppe G.)

Per oltre cinquanta anni abbiamo vissuto nella retorica, spesso stucchevole, dell'Europa unita. Nella scuola impregnata di romanticismo deamicisiano degli anni sessanta, ogni narrazione sull'argomento era zeppa di oh! e di ah! di meraviglia sui paesaggi montani e marini, sulle città, sui popoli in armonia nel continente. Una sorta di rimozione collettiva della tragedia dei conflitti secolari trascorsi e degli enormi problemi politici legati al progetto unitario. L'Italia, tra i grandi, è il paese che ha più abusato della retorica e che meno ha discusso, al proprio interno, concretamente, del progetto politico. Una vera e propria forzatura ideologica dozzinale che ha impedito ogni serio impegno di tutela ed integrazione dell'interesse nazionale nel contesto comunitario; la conseguenza, un approccio fideistico che delegava al legame comunitario la motivazione dell'impulso ad affrontare i problemi interni del paese. Il risultato è stato, per decenni, una acquiescenza supina alle direttive di una istituzione tutt'altro che rappresentativa, espressiva di un proprio potere statuale pressoché inesistente, accompagnata dai peana a un parlamento europeo praticamente inutile. Ma se il primo trentennio, tra i disastri di una politica agricola di aperta discriminazione delle produzioni mediterranee e l'inesistenza di peso politico in un mondo bipolare in cui non erano richiesti e graditi altri attori, ha quantomeno contribuito alla creazione di una ossatura industriale di base, dalla caduta del muro di Berlino le contraddizioni della costruzione si stanno cumulando e la retorica non è più sufficiente a coprire il vuoto politico; anche questo, comunque, un artificio verbale che serve a nascondere indirizzi ben presenti e dissimulati.Il problema è che la costruzione europea , sin dall'inizio, è segnata da alcune stimmate che ne hanno definito la natura profonda e che renderanno necessaria, probabilmente, una implosione se si vorrà rifondare un rapporto tra popoli e stati libero dai vassallaggi statunitensi.

 

 

Il primo limite, vero peccato originale, è il suo tropismo, la sua impossibilità ad esistere ed alimentarsi senza l'impulso esterno americano. Le vicende di politica estera, in cui sono coinvolti i paesi europei, sono emblematiche. Se nel dopoguerra questa dipendenza era sostenuta discretamente dai confini circoscritti della Comunità, dalla relativa omogeneità delle condizioni di partenza e dal potente contrappeso ideologico del sovietismo che spingeva ad una grande cautela nella gestione dei rapporti politici e sociali interni, dagli anni '90 cambiano totalmente i parametri di riferimento entro cui muoversi. Nel nuovo scenario la pressione americana per giungere ad un suo allargamento repentino agli stati centro-orientali e alla Turchia è insistente e fruttuosa, tanto più perché accompagnata al sostegno efficace alle forze separatiste nei Balcani e ai confini della Russia. L'obbiettivo strategico era allargare la propria area di influenza, destabilizzare e umiliare la Russia, con il corollario non trascurabile di indebolire l'Europa e, con l'ulteriore frammentazione, poterla manipolare meglio; accentuare, quindi, il carattere economicistico del sodalizio, vista l'eterogeneità della condizione dei singoli stati. In questo ha trovato un fondamentale alleato, addirittura un promoter, nella Germania e nella sua possibilità di riesumare  l'antica opzione pangermanista sotto la nuova veste della valorizzazione e difesa delle autonomie linguistiche ed etniche presenti nei vati stati e nella pragmatica costruzione di una area di influenza diretta e di una cintura di paesi legati strettamente.

Se in una prima fase la sintonia tra il progetto geostrategico americano e quello da potenza regionale della Germania è stata pressoché totale, da pochi anni si nota qualche divaricazione.

 

Il secondo, conseguente al primo, ma ancora più pregiudizievole, è l'impostazione economicistica e liberista della costruzione. La Comunità Europea, il suo progetto di unificazione, sin dalla sua titolazione originaria “economica”,  poggiano sull'assunto che l'integrazione economica, la costruzione di un libero mercato sono propedeutiche non solo alla costruzione amministrativa ma anche politica, nel senso pieno anche della unificazione degli stati e delle istituzioni.

Il cittadino consumatore è il soggetto sovrano, il libero mercato il campo operativo, l'interazione caotica e indistinta tra atomi il tipo di relazione che regola i rapporti tra i soggetti. Ovviamente, una illusione.

Compiti della Commissione Europea (CE) sono la tutela del consumatore, l'apertura massima possibile del mercato, con la rottura dei regimi di monopolio e di controllo e ultimamente, in ossequio alla politica di stabilità e supervalutazione dell'euro da parte della BCE, una definizione comune dei parametri di spesa pubblica, un avvicinamento dei sistemi di imposizione fiscale, maggiori vincoli nella concessione del credito bancario, operando sulle riserve.

Manca totalmente, se non come mera enunciazione, una politica diretta e di indirizzo degli investimenti produttivi, specie nei settori strategici.

 Un approccio esiziale per le prospettive di sviluppo e indipendenza della Comunità di Stati, tanto più che le condizioni operative dei singoli sono estremamente diversificate e sperequate.

 

Uno degli assunti su cui poggia l'elaborazione e il giudizio politico dei redattori del blog è quello del carattere attualmente reazionario della teoria del libero mercato di A. Smith, funzionale alle esigenze di dominio e penetrazione della potenza dominante, gli USA; dominio strategico, quindi politico prima che economico e con il politico che pervade i vari ambiti; non solo, la stessa teoria è solitamente adottata dai ceti subdominanti per legittimare il loro ruolo di dominio subordinato con la tendenza, quindi, a giustapporre il gioco politico a quello economico, sino a ridurlo progressivamente ad esso.

Le istituzioni comunitarie rappresentano un veicolo essenziale di questo dominio e capacità di condizionamento; emblematica è l'estrema permeabilità concessa al sistema finanziario.

All'interno stesso della Comunità, la stessa impostazione permette di determinare surrettiziamente ulteriori gerarchie  tra  i paesi sulla
base di priorità affatto neutre.

 La quotazione iniziale dell'euro, la sua successiva survalutazione rispetto al dollaro, il contrasto della speculazione finanziaria attraverso il drastico contenimento dei deficit pubblici e dello stock debitorio piuttosto che con il divieto e l'inibizione di determinate operazioni finanziarie (provvedimenti, per altro, adottati con successo in altre parti del mondo), la modificazione in senso sfavorevole del rapporto indebitamento/riserve delle banche, la mancata emersione dei portafogli di titoli spazzatura posseduti dalle banche sono politiche che favoriscono la penetrazione  massiccia della Germania negli altri paesi euro e a loro discapito favorendo i paesi con sistemi bancari più compromessi (Francia, Germania), penalizzando i paesi più orientati verso le aree esterne all'euro (Francia,Italia per il cambio, l'Italia per il ruolo preponderante delle banche nel finanziamento delle attività, ect)

Un discorso a parte merita il ruolo nefasto, più volte denunciato dal blog, della CE nella destrutturazione di aziende e settori strategici tesi a favorire la subordinazione atlantica del continente.

 

Il terzo è la evidente fragilità istituzionale del sistema che vede il peso essenziale della Commissione Europea, con alle sue dipendenze un imponente apparato burocratico, con l'impossibilità di rendere esecutivi gran parte dei provvedimenti se non appoggiandosi ai singoli apparati statali nazionali e con un peso politico autonomo, decisamente sovradeterminato dal potere di veto dei singoli stati, esercitato nella comunità a ventisette stati e dalla possibilità di giostrare in una pletora di interessi; il ruolo rilevante del Consiglio Europeo, costituito dai capi di governo, non previsto dai trattati istitutivi, il cui funzionamento è reso problematico dal carattere pletorico dell'assise cui si sopperisce, recentemente, con la costituzione di assi preferenziali come quello attuale tra Francia e Germania; la funzione di mera rappresentanza del Parlamento Europeo; l'inesistenza di un apparato statuale autonomo.

 La stessa CE agisce, non per leggi, ma per direttive e pareri di conformità su specifici provvedimenti che si risolvono in provvedimenti spesso ad personam, spesso contraddittori tra loro, tanto più che i principali paesi hanno normative difformi, più o meno protezioniste. Rappresenta, quindi, il terreno più fertile, senza la mediazione legislativa e politica, per le più sfacciate e scandalose politiche di lobby, attraverso il rapporto diretto e la costituzione di vere e proprie agenzie. Un mercato politico, quindi, dove i più forti hanno l'esclusiva e la direzione e dove, quindi, americani e tedeschi, in subordine francesi e britannici hanno le migliori chances, con tutte le contraddizione presenti, comunque, nei singoli paesi.

Questa stessa fragilità istituzionale avrà una influenza negativa nella gestione delle diverse identità e organizzazioni statuali nazionali.

La mancanza di strutture e apparati statali europei, accompagnate all'indebolimento degli stati nazionali e al rafforzamento di comunità territoriali caratterizzate identitariamente rischia, in caso di acutizzazione dei conflitti, di creare le premesse per una ennesima soluzione traumatica e drammatica dei contrasti

Un discorso a parte meriterebbe il ruolo dei singoli stati nella comunità, specie quelli più legati organicamente alla potenza dominante, come la Gran Bretagna.

 

Sono, questi,  i tre ingredienti di una maionese che per una qualsiasi contingenza o cumulo di contraddizioni può essere destabilizzata e impazzire.

L'opzione atlantista e economicista rischia quindi di destabilizzare drammaticamente e accentuare il declino, anche se in maniera diseguale, del continente.

L'attuale vicenda della Libia rappresenta un primo indizio significativo del futuro possibile e dei possibili tentativi di emarginazione e colonizzazione di singoli paesi, in questo caso dell'Italia.

In questo quadro va collocata la posizione dell'Italia e dei suoi gruppi dirigenti, specie quelli formatisi dagli anni '90.

Una interpretazione più radicale di questo europeismo becero ha consentito e giustificato le peggiori svendite del patrimonio strategico del paese in cambio della formazione e conservazione di ceti imprenditoriali e genericamente professionali di tipo parassitario, assieme a sacche di vera e propria distruzione di ricchezza espressi da gruppi dirigenti frammentati che hanno bisogno di cercare all'estero, sempre più, la propria legittimazione; dall'altra una critica occasionale, scomposta, di nazionalismo, spesso cialtrone che ha consentito la parziale difesa del patrimonio strategico residuo, ma che non ha consentito la formazione del blocco sociale necessario a porsi in maniera autorevole di fronte agli altri stati e alle istituzioni; una critica che, politicamente, per alcuni anni, ha convissuto con una ipotesi separatista, quella iniziale della Lega, tesa a fare della Padania un'area satellite, anche se prospera, della Germania; dall'altro ha agito contraddittoriamente passando dall'abbandono del progetto Airbus, all'adesione alla guerra in Iraq, alle relazioni “pericolose” con Russia e Libia.

Quella della Lega è una ipotesi ridimensionata per il momento, un po' per motu proprio un po per la possibilità della Germania di crearsi una cintura alternativa.

 

I condizionamenti esterni sono stati, comunque, determinanti quanto il comportamento contraddittorio di questa componente.

 

Continuare ancora, però, dopo trenta anni di dismissioni e svendite massicce, precedute, nei decenni antecedenti, da ricorrenti ridimensionamenti dei tentativi di acquisizione di maggiore potenza e autonomia, a recriminare ex post sulle acquisizioni dei pochi gioielli di famiglia rimasti ha del patetico. Con la prospettiva già in corso della secca riduzione del risparmio privato e della distruzione di ricchezza del paese, in questo contesto si arriverà alla svendita non più delle sole aziende ma della stessa sovranità e delle infrastrutture del paese. Eppure, in Italia, a differenza che in Francia e in altri paesi d'Europa, il dibattito non retorico su una rifondazione d
ell'Europa sulla base della sovranità degli stati o su quella di un cosmopolitismo tecnocratico (base culturale, ad esempio, delle nuove leve del PD), tuttalpiù fondato su libertà individuali e tutele di genere, ma che prescinda dalle identità nazionali fatica a prendere piede.

Quello che si tende a riaffermare stancamente è un'ipotesi federalista, la cui realizzazione appare irrealista in tempi storici ragionevoli o un'avversione generica.

Quello che si rischia, con l'incancrenimento della situazione, è la riaffermazione di un nazionalismo distruttivo e sciovinista o l'anarchia di una frammentazione caotica delle comunità. La prima, piuttosto che la seconda.

Giuseppe G.

PS

il pezzo è ispirato dalla lettura di alcuni articoli, testi e interviste di Jacques Sapir, Aymeric Chauprade, Marcello Foa e dalla lettura degli ultimi due documenti del Consiglio Europeo, oltre che dal patrimonio costituito dal blog