ABBOZZO DI UNA CRITICA DEL CONCETTO DI SOSTANZA DI VALORE IN MARX
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Questa annotazione risale al 2003 ed essa ha come contenuto, principalmente, l’esplicitazione dell’ipotesi che in Marx sia presente uno schema teorico implicito che qui chiamo produzione comunitaria semplice. Naturalmente, come nel caso della ben nota produzione mercantile semplice, questo schema teorico non corrisponde a nessun periodo storico o situazione spaziotemporale determinata. La nozione di organizzazione secondo il principio di un piano economico-sociale è, nel caso specifico, semplicemente una costruzione ipotetica ideale e un riferimento semmai ad una rudimentale maniera di gestire il modo di sussistenza in condizioni di reale penuria e non di scarsità economica. Faccio ancora qui uso in maniera prevalente dell’approccio che dà centralità al concetto di modo di produzione mentre, al momento attuale, concordo quasi totalmente con la nuova elaborazione di La Grassa riguardo alla categoria di formazione sociale con le differenziazioni ad essa connesse concernenti le dimensioni geografica, storica, statuale (sistema-paese) e globale. A tal proposito mi piace ricordare che lo stesso La Grassa fu protagonista all’inizio degli anni settanta di un importante dibattito, con Emilio Sereni e altri, che apportava interessanti novità nell’interpretazione della categoria, marxiana e leniniana, di formazione economico-sociale.
Annotazione marxologica.
Premessa
Pur condividendo la posizione di Gianfranco La Grassa riguardo all’obsolescenza della teoria del valore-lavoro e delle tematiche connesse rimane sempre da valutare la possibilità
che si finisca ancora una volta per buttare via “il bambino assieme all’acqua sporca”. Nell’ambito della critica dell’economia politica i concetti di valore e di sostanza e grandezza di valore risultano ormai, per usare una espressione di Maria Turchetto, dei puri e semplici oggettoni metafisici anche se, in un ambito diverso, filosofico-antropologico, non ci sentiamo di escludere che nozioni quali quella di valore e di lavoro-sostanza possano trovare una qualche collocazione. Per quanto riguarda la critica dell’economia politica e quindi la teoria dei modi di produzione rimane, ci pare, ancora valida la categoria interpretativa detta forma di valore (in quanto forma sociale). Attraverso un approfondimento analitico si potrà, non in questa occasione, ritrovare un filo conduttore che renda conto del legame stretto che i concetti di rapporto sociale, forma sociale e istituzione sociale intrattengono tra loro attraverso le chiavi interpretative fornite da un approccio marxista nuovo ed originale (La Grassa) e da considerazioni attorno a temi riguardanti il senso e le funzioni nell’articolazione dei sistemi sociali in quanto unità relazionali strutturate necessarie per comprendere il “mondo sociale”.
1. L’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico è in realtà la costruzione di un oggetto teorico; il rapporto tra questo e il concreto e storico darsi della formazione sociale capitalistica mette in gioco il rapporto tra un ipotesi di lavoro e l’assunzione epistemologica e metodologica del postulato realistico che permette di orientare la pratica secondo il criterio dell’efficacia dell’azione. Nel primo capitolo del 1° Libro de “Il Capitale” Marx introduce però due schemi teorici che gli servono sia per inserire degli elementi preliminari necessari per lo studio del modo di produzione capitalistico sia per dare ragione della genesi logica di detto modo di produzione indipendentemente dalla concreta dinamica storica che lo ha prodotto. Uno dei due schemi teorici è ben noto ed è quello ampiamente studiato e analizzato con la formula di produzione mercantile semplice. Marx parla di esso in maniera
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esplicita e tale da non lasciar dubbi riguardo al fatto che in quanto semplice schema esso non prende in considerazione nessuna realtà storica determinata neppure nel senso del tipo ideale. Abbiamo assistito, più volte, a tentativi, portati avanti da alcuni storici di grande valore (un nome su tutti: Fernand Braudel), di individuare una epoca storica caratterizzata dalla presenza di una produzione mercantile capitalistica in una posizione non dominante – a causa del suo intreccio con formazioni economiche e forme di produzione diverse – durante quel lungo periodo che va dal XIV° al XVIII° secolo, che può essere definito (questi limiti temporali non sono però comunemente accettati) con l’espressione di Antico Regime; si sono così avanzate interpretazioni favorevoli all’ipotesi di un predominio di una economia genericamente definita mercantile (o mercantilistica) nel periodo sopra citato. Si tratta di una interpretazione con la quale ci troviamo, naturalmente, in netto disaccordo.
L’altro schema teorico a cui Marx fa riferimento in più punti ma in maniera che parrebbe occasionale si potrebbe definire come la produzione della comunità organica. Esso è in parte ricavato da alcune generalizzazioni e astrazioni determinate da riferimenti a processi storici concreti.
Questo schema fa riferimento, sostanzialmente, a una struttura interrelata e pianificata da un gruppo dirigente di funzionari dotati di saperi amministrativi, organizzativi e contabili connessi spesso a componenti dogmatiche di carattere religioso tali da impedire qualsiasi critica dal basso che miri in qualche modo a minare l’ordine costituito. Nella comunità organica predomina quindi una divisione comunitaria del lavoro mentre il livello della divisione tecnica è da considerare sostanzialmente non rilevante nell’articolazione dello schema; elementi decisivi sono invece l’assenza di scambi mercantili all’interno della comunità e la proprietà collettiva sia dei beni strumentali e di consumo che della terra. La distribuzione della parte del prodotto totale che corrisponde ai beni necessari alla riproduzione della comunità (prodotto necessario) avviene in forma sostanzialmente egualitaria, ma il plusprodotto, simbolicamente attribuito all’autorità sovrana o addirittura alla divinità stessa, dapprima “consumato” in atti di “dispendio” sacralizzati (Bataille), diviene successivamente oggetto di appropriazione da parte degli agenti rappresentanti-dirigenti la comunità stessa. Rispetto alla produzione comunitaria semplice la produzione mercantile semplice pare presentarsi come una articolazione sociale egualitaria di individui artigiani-mercanti (quand’anche in un’unica bottega lavorasse più di uno di essi lo farebbero, si intende, in qualità di “soci” alla pari) che scambiano i loro prodotti e che attraverso questo scambio stesso “producono” e utilizzano in qualità di mezzo di scambio (equivalente generale) una specifica merce-denaro.
2. Il presupposto da cui partiamo è che, nel 1° Capitolo de Il Capitale Libro I°, Marx abbia operato una torsione ideologica consapevole, ritenuta da lui necessaria per motivi politico-strategici.
Se le fonti della ricchezza sono la natura e il lavoro combinati (vedi W. Petty), per quanto riguarda il valore era necessario rimarcare che soltanto il lavoro umano ne era la causa; stabilire un fondamento metafisico e astorico come la sostanza di valore doveva permettere di costruire le basi di quella formazione ideologica di cui il movimento operaio, entità collettiva la cui dinamica soggettiva doveva rappresentare uno dei presupposti fondamentali della costituzione del lavoratore cooperativo associato, secondo Marx ed Engels, aveva assoluta necessità. Se quindi è esatto affermare che il fondatore del marxismo è stato Kautsky, bisogna altresì ricordare che sia Engels, in maniera quantitativamente più rilevante, a partire dall’Anti-Duhring , sia Marx con la forma di esposizione adottata per la teoria del valore-lavoro all’inizio del 1° Libro de Il Capitale, hanno contribuito in maniera decisiva alla transizione dalla teoria del comunismo critico al marxismo propriamente detto.
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Una ipotesi differente e ricorrente nel dibattito marxista, tra gli altri portata avanti dal filosofo Costanzo Preve, ripropone la tesi che anche nel Marx maturo siano presenti tematiche che rimandano ad una antropologia filosofica mai sviluppata compiutamente dal “Moro” ma abbozzata in vari frammenti sparsi nelle opere più importanti.
Ne Il Capitale ,oltre al capitolo sul feticismo delle merci e del denaro, sarebbe perciò presente in più parti uno schema del tipo lavoro umano – mezzo e oggetto di lavoro (natura modificata dall’uomo) – natura (come ambiente di un sistema sociale fondato sulla produzione di valori d’uso ad opera del lavoro umano). I concetti di natura e di sostanza (penso comunque che il riferimento sia più Aristotele che Spinoza in questo caso) sorreggono un sistema relazionale in cui le tre nature (inorganica, organica e umana) si rapportano tra di loro in maniera che la parte meramente oggettiva di esse, in quanto sostanza , subordina l’agire umano pratico-sensibile evidenziandone la materialità e riducendo i ruoli e le funzioni dei concreti soggetti sociali (produttori di forme) a semplici epifenomeni della sostanza stessa. Comunque non è nelle nostre intenzioni negare la legittimità e l’utilità dell’antropologia filosofica e quindi una eventuale critica di determinate impostazioni riguardanti questa disciplina (un confronto, ad esempio, tra l’impostazione ontologica di un Lukacs e quella funzionalistica del Cassirer del Saggio sull’uomo potrebbe risultare molto fecondo) dovrà essere impostata in maniera rigorosa e soprattutto con una attenzione particolare alla riflessione sul senso delle categorie fondamentali su cui si fondano. Per ritornare all’oggetto di questa nota ci pare sia necessario, inizialmente, ipotizzare, o forse, con espressione più corretta, definire, alcuni presupposti teorici utili per chiarire i termini della questione.
I modi e le forme di produzione possono venire considerati ed analizzati, fondamentalmente, attraverso tre livelli decrescenti di astrazione teorica:
il primo considera i modi di produzione come schemi, modelli, oggetti teorici puri costruiti a partire da concetti ipotetici ricavati dalla riflessione scientifica passata e presente attorno alla natura della società e dei sistemi sociali;
il secondo classifica le forme di produzione secondo il grado di corrispondenza delle stesse a dei tipi ideali weberianamente intesi; qui il costrutto puramente logico del primo livello di astrazione si combina con l’universalizzazione del dato storico, in modo tale da
stabilire un movimento di corrispondenza tra queste due dimensioni, in cui si
manifestano l’identità della sostanza e la contraddizione con modificazione del
processo-soggetto. Si può qui rilevare come proprio nelle filosofie di Spinoza e Hegel questi concetti trovano la loro espressione più ampia e la loro declinazione ontologica più estesa;
il terzo definisce i modi di produzione come generalizzazioni di forme produttive storicamente date per cui anche a livello terminologico l’adozione del sintagma formazione economica appare più adeguato all’oggetto da considerare.
L’altra determinazione fondamentale da cui partire è l’assunto che per tutti e tre i livelli di astrazione su riportati esiste un rapporto tra modo (o forma) di produzione e forma (o forme) di valore tale che, il primo, il quale rappresenta l’oggetto centrale dell’analisi, l’oggetto teorico specifico, è posto in posizione di dominanza rispetto alla seconda, la quale è a sua volta considerata, teoricamente, all’interno del primo oggetto e subordinata e coordinata strettamente allo stesso.
Ci pare pertinente iniziare con la considerazione dell’approccio marxiano nella sua opera maggiore nei termini di quello che sopra è stato denominato primo livello di astrazione. All’inizio del 1° Libro del Capitale Marx utilizza uno schema teorico implicito che anticipa l’introduzione dello schema teorico esplicito denominato produzione mercantile
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semplice. Questo schema teorico che entra in scena immediatamente all’inizio del primo capitolo può essere provvisoriamente individuato con l’espressione produzione comunitaria semplice. Diventa necessario comunque anticipare, seppure in maniera sintetica, alcune considerazioni riguardo al rapporto tra forma, sostanza e grandezza di valore indispensabili per comprendere lo sviluppo delle argomentazioni successive. Se Marx ha voluto “civettare” all’inizio della sua opera maggiore con la dialettica hegeliana ci permettiamo di seguirne l’idea, consapevoli che al massimo ci potrà accadere di affermare delle tesi del tutto errate, cosa che di questi tempi mi pare possa capitare anche a pensatori considerati, non so se a torto o a ragione, particolarmente “illuminati”. La forma di valore in quanto forma sociale non deve essere intesa, prevalentemente, come fondata su una sostanza caratterizzata da una certa grandezza bensì, hegelianamente, come un soggetto (processo automoventesi). All’inizio del primo capitolo Marx scrive:<<L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. E’ un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. [ … ] I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa.>>
La forma di valore assume una propria autonoma apparenza e grandezza sociale solo quando diventa forma di valore di scambio sviluppata ovvero quando una merce specifica acquista la funzione di equivalente generale diventando merce-denaro. La forma sociale del denaro è comunque costituita sulla base dalla sua funzione indipendentemente dal sostrato materiale che la sostiene.
La questione epistemologica del rapporto tra i concetti di sostanza e di funzione è stata sviluppata da E. Cassirer ma una rilettura di queste categorie in chiave marxiana richiederà per forza una trattazione specifica. Prima che faccia la sua comparsa la forma-denaro la forma di valore non possiede una sostanza (e conseguentemente una grandezza della medesima) diversa dalla forma naturale della merce ovverosia dal valore d’uso. La forma di valore in quanto forma sociale è difatti essenzialmente processo e relazione e il rapporto con il sostrato materiale di essa potrebbe forse essere qualificato attraverso la nozione di accoppiamento strutturale caratteristica della sociologia funzionalista (vedi Luhmann-De Giorgi.1992).
Quando Marx equipara i valori d’uso che vengono scambiati affermando poi <<che i valori di scambio validi della stessa merce esprimono la stessa cosa>> inizia un ragionamento che prosegue con la considerazione che <<il valore di scambio può essere in generale solo il modo di espressione, la “forma fenomenica” di un contenuto distinguibile da esso.>>
E più avanti nel testo in riferimento alla divisione sociale del lavoro afferma:<<Essa è condizione d’esistenza della produzione delle merci, benchè la produzione delle merci non sia inversamente condizione d’esistenza della divisione sociale del lavoro. Nell’antica comunità indiana il lavoro è diviso socialmente senza che i prodotti diventino merci.>>
Quello che appare tra le righe sembra essere l’idea che il contenuto distinguibile dal valore di scambio non sia altro che qualcosa che assume consistenza e visibilità soltanto in condizioni sociali in cui non si siano stabiliti ancora rapporti di scambio. Una produzione diretta e pianificata dal centro che decide la quantità da produrre dei vari beni e la distribuzione degli stessi nella comunità deve tener conto della capacità di lavoro complessiva della comunità stessa, deve considerare la quantità di lavoro come qualcosa di omogeneo, deve valutare quanto di esso nella forma di lavoro umano generico, astratto è disponibile e utilizzabile. E’ quindi solo all’interno dello schema teorico della produzione comunitaria semplice che la nozione di lavoro astratto esposta
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da Marx all’inizio del primo capitolo del Capitale trova una sua collocazione socialmente determinata, sfuggendo alla sua apparente inconsistenza che le derivano dall’apparire una costruzione mentale arbitraria e astorica, un universalità muta quanto la nozione di lavoro in generale. E’ poi altrettanto evidente che il carattere sociale del lavoro astratto non è rappresentato dal fatto di essere espressione di energie umane in quanto tali; il lavoro astratto ha valenza sociale soltanto perchè utilizzato dal suddetto centro dirigente come criterio per la suddivisione della forza-lavoro della comunità tra le varie branche della divisione sociale del lavoro. Mentre la forma semplice di valore (la forma corrispondente allo stadio dello scambio ancora non generalizzato , casuale ed accidentale) vede già sorgere la polarizzazione tra forma relativa di valore da una parte e forma di equivalente dall’altra, nella forma comunitaria di valore i valori d’uso, e quindi anche i lavori concreti necessari per la loro produzione, presi in quantità determinata, vengono equiparati l’uno all’altro per arrivare a determinare la quantità di lavoro medio semplice (astratto) necessario per produrre: X quantità del beneA = Y quantità del bene B = Z quantità del bene C ecc..
La pianificazione della produzione, attraverso questa equiparazione-comparazione, perviene alla determinazione di una unità contabile (l’ora media semplice di lavoro) che è del tutto differente dalla forma di equivalente prima semplice, poi sviluppata, generata dal movimento della forma-merce. Quello che nella produzione mercantile si presenta come risultato oggettivo di un processo sociale, nella produzione comunitaria si manifesta come elaborazione soggettiva di un piano razionale di divisione del lavoro sociale.
Il movimento di socializzazione dei lavori privati attraverso lo scambio, che caratterizza la produzione mercantile, non si presenta nella produzione comunitaria dove il lavoro è dato in forma direttamente sociale, cooperativa e coordinata da una autorità dirigente la cui funzione è di applicare il principio di piano alla totalità della produzione della comunità. Vediamo ora di analizzare in maniera più approfondita quella che abbiamo chiamato forma comunitaria di valore. Per iniziare riportiamo un paio di citazioni dal I° Capitolo del 1° Libro de Il Capitale:
<<Una certa merce, per es. un quarter di grano, si scambia con x lucido da stivali, o con y seta, o con z oro, ecc.: in breve, si scambia con altre merci in differentissime proporzioni. Quindi il grano ha molteplici valori di scambio invece di averne uno solo. Ma poichè x lucido da stivali, e così y seta, e così z oro, ecc. è il valore di scambio di un quarter di grano, x lucido da stivali, y seta, z oro, ecc. debbono essere valori di scambio sostituibili l’un con l’altro o di grandezza eguale fra loro. Perciò ne consegue: in primo luogo, che i valori di scambio validi della stessa merce esprimono la stessa cosa. Ma, in secondo luogo: il valore di scambio può essere in generale solo il modo di espressione, la “forma fenomenica” di un contenuto distinguibile da esso. Prendiamo poi due merci: per es. grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentato in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, per es. un quarter di grano = un quintale di ferro. Che cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in un quarter di grano come pure in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l’uno e l’altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l’uno né l’altro. Ognuno di essi, in quanto valore di scambio, dev’essere dunque riducibile a questo terzo.>>
Più avanti, nel paragrafo sul feticismo della merce, Marx scrive:
<<Immaginiamoci in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino
con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro
individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni
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del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta come mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori. Solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro reciterebbe una doppia parte. La sua distribuzione, compiuta socialmente secondo un piano, regola la esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D’altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte del prodotto comune consumabile individualmente. Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione.>>
La prima citazione sopra riportata fa riferimento alla merce e allo scambio ma la conclusione a cui Marx arriva, cioè l’equivalenza tra beni diversi, non vale solamente per i rapporti sociali di tipo mercantile; sia che si consideri, per utilizzare l’esempio di Marx, che per produrre un quarter di grano e un quintale di ferro sia stato necessario lo stesso dispendio di lavoro umano in astratto oppure si ritenga con Bohm-Bawerk che sia identica l’utilità in generale dei due beni, possiamo comunque ipotizzare che questo rapporto di eguaglianza venga a manifestarsi anche in una comunità articolata secondo una divisione sociale del lavoro di tipo pianificato. La forma comunitaria di valore si potrebbe esprimere allora con l’equazione: X LAVORO UTILE A = Y LAVORO UTILE B = Z LAVORO ASTRATTO con quest’ultimo termine espresso in ore di dispendio generico lavorativo semplice e medio. Il lavoro è semplice perché, di qualsiasi attività si tratti, esso viene eventualmente rapportato, se di natura complessa, ad un maggior tempo di un dispendio qualitativamente inferiore e medio per l’intensità e densità (tempi e ritmi) del suo estrinsecarsi. Per usare una analogia con la marxiana forma semplice di valore , che però serve ad esemplificare il rapporto di scambio mercantile nella sua manifestazione ancora accidentale e rarefatta, potremmo dire che i primi due termini (beni) appaiono in forma relativa di valore mentre il terzo in quello di forma di equivalente. Nella forma comunitaria di valore però, e questo è della massima importanza, non assistiamo ad un processo di passaggio dalla forma semplice a quella sviluppata. Il processo di circolazione delle merci porta al denaro e il movimento del denaro, in qualche maniera, dà luogo a quelle forme improprie e <<antidiluviane>> del capitale che sono il capitale commerciale e il capitale usuraio, mentre il piano comunitario stabilizza in una forma fissa e stabile il rapporto tra i lavori concreti e l’equivalente astratto di essi. I cambiamenti che avvengono riguardano solo l’aspetto quantitativo e sono dovuti a mutamenti della produttività, densità ed intensità del lavoro stesso. Non bisogna poi pensare al lavoro astratto come ad un oggettivo termine di riscontro che serva ad equiparare realmente i lavori utili tra loro. Il lavoro astratto rappresenta, come già accennato sopra, soltanto uno strumento contabile che ha la funzione di permettere al centro direttivo pianificatore della comunità di organizzare la produzione al fine di soddisfare i bisogni e di riprodurre le condizioni della produzione stessa. Così come il sistema dei prezzi in una società mercantile, l’unità di misura lavoro dovrebbe servire ad ottimizzare le funzioni di produzione e di consumo dei vari soggetti
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anche tenendo conto che la regolazione della soddisfazione dei bisogni dei vari gruppi sociali è programmata dall’alto quanto l’allocazione delle risorse produttive.
BREVE APPENDICE
1.Nella prima parte dell’articolo ho provato ad accennare brevemente al lavoro del grande storico Fernand Braudel e in particolare alla sua monumentale opera Civilisation matérielle, économie et capitalisme (tre vol. – 1980). Mi pare che Braudel, nonostante la sua distinzione tra vita materiale, economia di mercato e capitalismo, sia sempre stato convinto, in realtà, che lo scambio allargato ( quello che F. Hayek chiamava ordine esteso di mercato) non poteva non essere contemporaneo alla piena affermazione dei rapporti sociali capitalistici. Il suo discorso però, a questo riguardo, può lasciare la porta aperta a più di una interpretazione.
Braudel comunque afferma – in La dinamica del capitalismo (Il Mulino – 198 1) – che durante «« l’ Ancien Régime, tra il 1400 e il 1800>> siamo in presenza «« di una economia di scambio assai imperfetta [ … ] : grandissima parte della produzione, assorbita dall’autoconsumo della famiglia o del villaggio, non entra nel circuito del mercato [ … ] , l’individuo, l’”agente”, può essere incluso od escluso dallo scambio, da ciò che ho chiamato vita economica opponendola alla vita materiale , per poi distinguerla – ma solo in un secondo tempo – dal capitalismo.>> La produzione mercantile capitalistica, per Braudel, cioè il mercato di ««livello superiore>> come ««le fiere e le borse>> si trovava in una posizione, per così dire, subordinata, agli imperativi della vita materiale e all’estensione di un mondo di relazioni mercantili di ««livello inferiore>>: «« i mercati, le botteghe, i venditori ambulanti>>. In sostanza, sostiene lo storico francese, :«« l’economia di mercato ed il capitalismo sono, fino al XVIII secolo, aspetti minoritari dell’attività umana che resta avviluppata ed inghiottita negli sconfinati territori della vita materiale.>> Così Braudel conclude affermando che quella ««forma di capitalismo che generalmente viene chiamata mercantile è , in effetti, ben lontana dal controllare e manovrare nelle sue strutture d’insieme l’economia di mercato, benché quest’ultima ne costituisca la condizione indispensabile. Ciononostante il ruolo nazionale, internazionale, mondiale del capitalismo è già evidente.>>
2.La nostra idea, magari un po’ azzardata, riguardo all’esposizione marxiana nel 1° Cap. del I° Libro di Il Capitale concerne fondamentalmente l’ipotesi che sia presumibile pensare che Marx potesse scegliere di sviluppare esclusivamente l’analisi della forma di valore, introducendo il concetto di lavoro astratto solo come categoria sociale, priva di elementi sostanzialistici, e definendolo come il risultato dei rapporti sociali che si stabiliscono tra un gruppo dirigente e dominante e i lavoratori inseriti in una divisione sociale del lavoro – ma non in un economia di scambio – allo scopo di erogare lavoro utile , a volta a volta diverso, per tipo e quantità nei vari settori a seconda dei bisogni contingenti della comunità.
Da questa ipotesi ne discenderebbe un’ altra che vorrebbe vedere nell’esposizione di Marx, nel suo rimarcare il concetto di sostanza di valore , una finalità politica e ideologica, perseguita rafforzando la dimensione oggettiva e ontologica della capacità della forza lavoro umana di produrre quella forma sociale (che quindi esiste solo nella relazione tra esseri umani) che si chiama appunto valore.
Ottobre 2007
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