ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA POVERTA’ IN ITALIA PRECEDUTE DA UNA BREVE RIFLESSIONE POLITICO-MORALE
Così scriveva il grande Immanuel Kant:
<<al concetto intellettivo che contiene la regola deve aggiungersi un atto del giudizio, per il quale l’uomo pratico distingue se il caso cade o no sotto la regola; e siccome per il giudizio non si possono dar sempre di nuovo regole a cui rivolgersi nella sussunzione (poiché ciò andrebbe all’infinito), così può avvenire che vi siano teorici che nella loro vita non possono mai diventar pratici, perché ad essi manca la capacità di giudicare.>>
Il filosofo tedesco, inoltre, riteneva che fosse <<ancora più tollerabile un ignorante, che considera la teoria non necessaria e superflua per la sua pretesa pratica, che non un dotto, che esalta la teoria […]e, nello stesso tempo, afferma che le cose nella pratica vanno altrimenti…>> ovvero che proclami la validità di un principio << in thesi, ma non in hypothesi>> come se la ragione teoretica e la realtà empirica fossero irrimediabilmente separate e irrelate ; hypothesis è un termine greco composto da hypo, “sotto” e thesis, “posizione”, da cui normalmente si trae la parola supposizione. Ma mi pare più corretto intendere l’espressione in maniera letterale di modo che il sostantivo si presenti come fondamento e l’avverbio di luogo come locuzione subordinata: l’ipotesi risulta così sottomessa alla tesi in quanto posizione di valore avente valore esistenziale. Solo a partire da un “qualcosa” presupposto, seppure solo esistenzialmente e non ontologicamente, possiamo costruire, “porre” l’ipotesi; non possiamo partire in quarta e trarla semplicemente dalla nostra immaginazione come un certo costruttivismo metodologico, “raffinato” ma spesso incauto, pretenderebbe. Comunque anche quando il discorso kantiano si applichi strettamente alla morale, non viene meno la serietà e il rigore dell’argomentazione, la scientificità del discorso. Le obiezioni rispetto alla legge morale intesa come “dover essere” categorico sviluppate in nome dell’edonismo e dell’eudemonismo valgono ben poco; l’unica chiara debolezza nel discorso etico kantiano è resa manifesta dal noto caso in cui si debba decidere se mentire o no ad un assassino potenziale. Si tratta di un problema enorme riguardo al quale la soluzione di Kant risulta inaccettabile ma si tratta anche di una questione sviluppata da numerosi pensatori, e ricordiamo tra gli altri Max Weber, mediante la contrapposizione e il confronto tra etica della convinzione e etica della responsabilità. La messa a fuoco del problema delle conseguenze dell’azione e la sua comprensione può farsi avanti solo in un epoca in cui sia stata superata la fiducia illuministica nella trasparenza e nella “chiarezza” di una realtà fenomenica dipendente da un soggetto trascendentale che quando venga assolutizzato diventa un cattivo mostro metafisico figlio del più antiquato realismo della scolastica medievale. La coscienza del campo ideologico in cui siamo immersi ha prodotto le decostruzioni marxiane e nietzschiane, l’etica analitica di Moore e dibattiti fondamentali, come quello tra Carl Schmitt, Nicolai Hartmann e Max Scheler attorno ai valori, ma ciononostante qualsiasi elaborazione di una etica formale coerente – che si possa poi evolvere “materialmente” come in Scheler oppure giuridicamente come in Kelsen, Rawls e Bobbio – (sempre che si ritenga necessario che esista) non può fare a meno di ripartire dal grande pensatore di Konigsberg. Tornando alla citazione iniziale si può evidenziare la messa in luce di una delle qualità principali dello stratega, sia che il campo di applicazione riguardi la sfera militare oppure quella politica o quella economica (d’impresa), ovverosia l’attitudine a far discendere dai principi generali della tattica e della strategia e dall’”analisi concreta della situazione concreta” la capacità di giudicare, e quindi scegliere, tra le varie opzioni quella maggiormente efficace. Scelta che sarà effettuata sulla base anche di considerazioni non propriamente razionali nella misura in cui – di fronte a situazioni bloccate e apparentemente irresolubili – diviene necessario “scommettere” e quindi azzardare, facendosi soccorrere dalla parte intuitiva della nostra mente, la cui legittima funzione viene giustificata proprio dall’impossibilità che le semplificazioni operate dalla razionalità strumentale possano sempre essere in grado di confrontarsi validamente con ciò che sfugge nel flusso continuo degli eventi. Diviene necessario, quindi, mettere in campo le virtù “pratiche” dell’ arte e della saggezza ( la téchne e la phronesis aristoteliche) per compensare pragmaticamente ciò che sopravanza i nostri tempi e limiti conoscitivi. Sempre dal medesimo saggio kantiano ( Sopra il detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” – 1793) si può riportare – come spunto per un possibile futura discussione sulla politica negli antichi e nei moderni – la definizione, prettamente formalistica, dello “stato civile” secondo il filosofo tedesco: <<Lo stato civile […] è fondato sui seguenti principi a priori:
1) La libertà di ogni membro della società, in quanto uomo;
2) L’uguaglianza di esso con ogni altro, in quanto suddito;
3) L’indipendenza di ogni membro di un corpo comune, in quanto cittadino.>>
Questa definizione mi sembra che si ponga a metà strada tra la tradizione classica e il liberalismo successivo a Kant che pure appare fortemente differenziato nelle due principali componenti: quella continentale e quella anglosassone. Per concludere questa premessa, infine, riporto una ultima citazione da un saggio di Roberto Gatti che tematizza questioni che forse non tutti coloro che sono interessati a, e lavorano in, questo blog considerano veramente importanti ma che per me non possono invece essere considerate di secondaria importanza.
<<A differenza di quanto avviene per la scienza politica e per la storia dei fatti e delle idee politiche, in questo caso non si tratta né di “capire descrivendo” mediante un “linguaggio osservativo” e un approccio tendenzialmente “avalutativo” né di comprendere un avvenimento ricostruendone il significato culturale relativamente all’epoca presa in esame, quanto piuttosto di sollevare le domande radicali sulla natura, sui fini, sui fondamenti della vita politica, adottando una prospettiva apertamente prescrittiva e tendenzialmente, anche se non assolutamente, sovrastorica. La filosofia politica rappresenta, in tale ottica, una “teoria intellegibile dell’insieme dell’ambito politico”; ciò significa che intende “istituire un senso per ogni elemento in relazione all’insieme, riunificare mediante dei concetti, ordinare secondo dei principi, pensare secondo un ordine di ragione, rivelare una verità”. Com’è stato osservato, in essa si esprime altresì la fiducia nel “dibattito razionale” quale mezzo per la ricerca, senza fine ma non per questo priva di plausibilità e attendibilità, dei criteri di valore cui dovrebbe conformarsi l’esistenza nella Città secolare per poter rispondere alle istanze della persona e ai problemi posti dalla sua esistenza storico-sociale. Il “bene politico” come oggetto, l’intento prescrittivo come finalità, il ricorso alla ragionevolezza argomentativa come metodo per l’accertamento delle opinioni a confronto costituiscono perciò gli elementi distintivi della filosofia politica, quegli elementi che, come ha ricordato Leo Strauss, erano ritenuti caratterizzanti di tale disciplina fin dalle sue origini, quando “venne alla luce in Atene”.>>
In un articolo sul Sole 24 ore del 22.05.2015 si può leggere che, per quanto riguarda l’Italia, il
<<rapporto presentato ieri dall’Ocse […] indica quattro strade per cercare di limitare un fenomeno che tra il 1990 e il 2010 ha frenato del 4,7% la crescita potenziale: combattere la disparità di genere; diminuire il divario tra lavori precari e stabili; investire sull’istruzione, in particolare quella tecnico-professionale; varare politiche fiscali più mirate.>>
Il “fenomeno” di cui si parla è l’aumento esponenziale del divario tra ricchi e poveri alimentato nel nostro paese da una elevatissima percentuale di giovani disoccupati e dagli squilibri di un mercato del lavoro sempre più duale. Nel 2013
<<il reddito medio del 10% della popolazione italiana più ricca è stato superiore di 11,4 volte a quello del 10% della popolazione più povera, rispetto a una media Ocse di 9,6 volte (in Francia è di 7,4 e in Germania di 6,6). Si tratta di un dato superiore a quello del Portogallo (10,1) e che ci avvicina a Spagna (11,7) e Grecia (12,3).>>
La situazione si è particolarmente aggravata, ovviamente, a partire dall’inizio della crisi globale con un calo del reddito anche nei ceti medi in misura proporzionalmente maggiore per le fasce più vicine ai lavoratori e pensionati con redditi bassi. Il 40% della popolazione più ricca ha assorbito il 62,8% dei flussi di reddito mentre la stessa quota di quella più povera soltanto il 19,7%. In termini patrimoniali abbiamo che il 61,6% della ricchezza è in mano al 20% più benestante e il coefficiente di Gini (1) è cresciuto in Italia dallo 0,313 del 2007 allo 0,327 del 2013. Quello medio Ocse è dello 0,315. In Francia è dello 0,306 e in Germania, uno dei Paesi con le minori disuguaglianze, dello 0,289. Ovviamente il livello di povertà tende ad aumentare ancora nelle fasce di età dei giovani e dei giovanissimi (sotto i 18 anni) anche se l’indicatore relativo ai minorenni comporta un impatto sociale relativo nelle aree geografiche non economicamente sottosviluppate. L’articolo si conclude con un ultima considerazione sulla situazione del mercato del lavoro in Italia:
<<Stefano Scarpetta, responsabile della direzione Ocse per il mercato del lavoro, spiega che la situazione dell’Italia è contraddistinta dal fortissimo aumento (ben superiore alla media Ocse) del lavoro cosiddetto atipico («che spesso vuol dire precario e non scelto»), che non si trasforma in lavoro stabile nei tre anni successivi. Questo avviene solo nel 20% dei casi, mentre ci sono Paesi come la Germania – che hanno saputo valorizzare le filiere della formazione professionale, usare correttamente l’apprendistato e adottato politiche mirate – in cui questa quota sale al 50 per cento.>>
Il motivo per cui determinati paesi riescono a portare avanti politiche del lavoro maggiormente razionali ed efficaci anche in funzione di una migliore coesione e sicurezza sociale non derivano solamente dalla maggiore forza economico-finanziaria, dalla superiore competitività e capacità di acquisizione di quote di mercato, dal tasso di crescita e di sviluppo innovativo che risulta, poi, ovviamente correlato con un più alto livello di autonomia e di intraprendenza nell’arena internazionale. Esistono anche una serie di problematiche legate effettivamente a quelle “necessarie riforme” che i poteri comunitari e “nazionali” predominanti nella Ue sbandierano con un enfasi che ha molto di retorico ma che corrisponde anche ad esigenze reali del sistema capitalistico europeo.In un breve saggio del docente olandese Anton Hemerijck viene messo in rilievo che negli ultimi decenni
<<le riforme sociali si sono prevalentemente incentrate sull’occupazione, puntando verso una maggiore flessibilità del mercato del lavoro e mirando a rendere il lavoro più vantaggioso (‘make work pay’) delle prestazioni socio-previdenziali. La spinta verso l’occupazione ha assunto due forme di massima: l’una ispirata dal ridimensionamento sociale e dalla deregolamentazione del mercato del lavoro, l’altra basata su una proattiva politica sociale “produttivista” volta a incrementare l’offerta e la produttività della manodopera tramite servizi ‘capacitanti’ (ovvero improntati a uno sviluppo di autonomia e di opportunità di scelta, N.d.T.) destinati alle famiglie, alla formazione e all’impiego. I dati disponibili suggeriscono che quest’ultima (la strategia ‘più alta’ di riforme sociali incentrate sull’occupazione) è riuscita a far aumentare i posti di lavoro più produttivi, competitivi e sostenibili, mentre la prima (la strategia ‘più bassa’ di ridimensionamento sociale e deregolamentazione del mercato del lavoro) ha generato lavori meno produttivi, sottoremunerati e scarsamente qualificati.>>
Insomma, oltre agli elementi che concernono l’eventuale debolezza ed inadeguatezza sistemica di un determinato paese, risulterebbe, comunque, decisiva la capacità di operare scelte strategiche vincenti di politica economica e sociale con conseguenze inevitabilmente positive anche riguardo ad una migliore collocazione nella scacchiera internazionale. Le conclusioni che ne seguono possono essere così esemplificate, sempre secondo il suddetto professore:
<<La forza competitiva delle economie scandinave, prima e dopo la stretta creditizia del 2008, è fondamentalmente ascrivibile al varo di riforme sociali attive e ‘capacitanti’. Per contro, i vuoti competitivi legati al welfare nella periferia meridionale dell’eurozona, specialmente in Grecia e Italia, sembrano derivare intrinsecamente dai rispettivi contratti sociali (antiquati, passivi e sbilanciati a favore dei pensionati) nonché da mercati del lavoro segmentati su due livelli che inibiscono sia opportunità occupazionali di qualità che tutela e prestazioni sociali adeguate a favore di donne altamente scolarizzate, giovani e famiglie monoparentali.>>
Si tratta di questioni di non facile decifrazione ma ciò nonostante ci pare che le conclusioni che si possono trarre per il nostro paese comportino un giudizio fortemente negativo nei confronti delle politiche balbettanti ed inefficaci messe in atto dagli ultimi governi e quindi anche da quello in carica che, in campo internazionale, può vantare solamente il “merito” di coniugare una particolare arrendevolezza reale nei confronti dei padroni d’oltreoceano e dai loro “commissari” europei con una apparente sfacciataggine e un presunto “sfoggio di abilità” nel debellare oppositori politici interni in realtà “inesistenti”.
(1)Il coefficiente di Gini misura le disuguaglianze del sistema redistributivo e va da un minimo di zero nel caso – ovviamente teorico – in cui tutti hanno lo stesso reddito a un massimo di 1 – altrettanto teorico – nel caso in cui una persona sola detiene l’intero reddito nazionale. [Definizione tratta dal Sole 24 ore]
Mauro Tozzato 27.05.2015