ALCUNI COMMENTI SULLA CINA E SUI DIRITTI DEL LAVORO di M. Tozzato

Sul Sole 24 ore del 19.01.2011 Francis Fukuyama confronta la situazione attuale degli Usa con quella di dieci anni fa:

<<La democrazia statunitense era presa a modello, pur non essendo sempre amata; la sua tecnologia si diffondeva in tutto il mondo; il capitalismo "anglosassone", poco regolamentato, era considerato destinato a prevalere a ogni latitudine. Ma gli Stati Uniti sono riusciti a dilapidare quell'ingente capitale morale: la guerra in Iraq, la stretta associazione che si è venuta a creare tra invasione militare e promozione della democrazia l'hanno infangata, mentre la crisi finanziaria a Wall Street ha posto fine all'idea che si potesse fare affidamento sull'autoregolamentazione dei mercati.>>

Secondo Fukuyama, all’inizio del nuovo millennio, gli Usa mantenevano una netta supremazia oltre che sul piano politico-militare anche su quello ideologico-culturale ed economico; i nuovi paesi emergenti e la Russia parevano ancora incapaci di stabilire relazioni tra di loro con l’obiettivo di progettare grandi iniziative economico-politiche in totale autonomia rispetto all’area del cosiddetto Occidente (con l’aggiunta del Giappone) protagonista delle tre grandi “fasi” classiche di “industrializzazione”. Da allora in avanti – ammette però lo studioso americano – soprattutto la Cina – in cui la rinascita a tutti gli effetti dell’impresa e del mercato capitalistico ha giocato un ruolo fondamentale – ha saputo utilizzare in maniera efficace anche la proprietà statale delle aziende proprio in quei settori avanzati, indirizzati ai mercati esteri, dove il gap tecnologico pareva difficilmente recuperabile. Il politologo statunitense si interroga poi su una possibile definizione del cosiddetto “modello cinese”:

<<Molti osservatori distrattamente lo inseriscono nella categoria del "capitalismo autoritario", insieme a Russia, Iran e Singapore. Il modello cinese, invece, è del tutto sui generis: definirne e descriverne la modalità precisa di governance è difficile, e ancor più difficile è imitarla, motivo per il quale non si presta a essere esportato altrove. Il sistema politico cinese fa affidamento su un punto di forza particolare, la sua capacità di prendere decisioni complesse e di grande impatto in tempi rapidi e oltretutto relativamente bene, quanto meno in politica estera. Nondimeno, il governo cinese si distingue per una maggiore qualità rispetto a quello russo, iraniano o di altri regimi autoritari con i quali è spesso annoverato senza distinzione alcuna, proprio perché la leadership cinese si sente in parte tenuta a rispondere del proprio operato nei confronti della popolazione.>>

Di fatto la leadership cinese tiene conto, in maniera particolare, delle esigenze della classe media urbana oltre che delle grandi aziende che danno un grande contributo all’occupazione e nello stesso tempo cerca di mostrarsi attenta allo sdegno provocato dai casi di corruzione tra i quadri di partito di medio-basso livello. Gli squilibri sono comunque molto forti: lo sfruttamento dei lavoratori – inteso non come categoria critico-economica scientifica ma come livello del “tenore” e del “modo di vita” – si manifesta ancora in maniera esasperata sia al “centro” che nelle “periferie” meno sviluppate dove continua anche l’”espropriazione” dei  contadini poveri ad opera di speculatori terrieri ed immobiliari. A questo proposito Fukuyama aggiunge che il partito comunista cinese

<<in questo periodo sta spostando la spesa sociale verso l'interno, spesso trascurato, per alimentare i consumi e allontanare i disordini sociali.>>

Lo studioso americano ritiene comunque che una svolta “democratica” sia necessaria perché la Cina possa mettersi al riparo da rischi di lacerazione del tessuto sociale interno del paese; egli avrebbe dovuto invece considerare che la cultura tradizionale cinese di matrice confuciana non può nemmeno riuscire a porsi il problema di una modifica dell’ordine politico e sociale inteso nei termini e secondo le categorie di pensiero “occidentali”.

Il filosofo francese F. Jullien in un saggio di qualche anno fa, infatti, scrive:

<<Come è stato appena detto, provengo dalla filosofia, dunque dalla Grecia, ma ho fatto la scelta di passare per la Cina. Ed è proprio su un simile scarto che vorrei lavorare […], in quanto la Cina mi sembra essere la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra storia, almeno fino ad un’ epoca relativamente recente, fino al XVII secolo e addirittura, di fatto, fino al XIX secolo.>>

Comunque Fukuyama si dimostra abbastanza lucido quando prova a confrontare il livello di “competitività” dei rispettivi modelli politici tra Cina e Stati Uniti:

<<nel modello americano sussiste un problema […]grave, che è ben lungi dall'essere risolto. La Cina si adatta rapidamente, prende decisioni difficili e le traduce in realtà in modo efficace. Gli americani vanno orgogliosi dei riscontri e dei bilanci costituzionali, basandosi su una cultura politica che diffida di fatto del governo centrale. Questo sistema ha garantito la libertà dell'individuo e una grande dinamicità del settore privato, ma ormai è molto polarizzato e ideologicamente intransigente. Oggi esso evidenzia scarsa propensione e risolvere le sfide fiscali a lungo termine alle quali devono far fronte gli Stati Uniti. La democrazia in America avrà anche una legittimità intrinseca di cui è privo il sistema cinese, ma non potrà costituire un modello per nessuno se il governo è spaccato e non riesce a governare.>>

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Ernesto Galli della Loggia, in un articolo di commento al referendum di Mirafiori apparso sul Corriere, pone il problema del rapporto, nel nostro paese, tra  diritti politici e  diritti sociali in riferimento alla concezione della democrazia  che la nostra  carta costituzionale – in maniera a volte esplicita a volte implicita – propone. Secondo l’editorialista

<< il godimento dei diritti cosiddetti sociali e del lavoro in specie è perlopiù possibile solo se vi è un contesto economico esterno favorevole. Da qui — per esempio in una condizione di mercato planetario globale come è quella attuale— l’ovvia, inevitabile contrattabilità, e dunque anche comprimibilità, di tali supposti «diritti».[…] Tali diritti, infatti, hanno per loro natura un contenuto mutevole, non poggiano, né possono mai poggiare, su alcuna base solida definitiva. >>

Ne consegue che coloro che protestano contro limitazioni anche importanti dei diritti dei lavoratori non hanno ragione di farlo in nome di una presunta integrità da garantire alle nostre forme politiche democratiche. Secondo Galli della Loggia non si devono più mettere sullo stesso piano i “diritti del lavoro” e il “problema della condizione sociale dei cittadini”; non si tratta di sminuire l’importanza dei diritti sociali ma piuttosto di disegnare un nuovo welfare – compatibile con le limitazioni create dalla mondializzazione della competizione mercantile – e nello stesso tempo mettere al centro dell’attenzione la cittadinanza sociale e i “bisogni più urgenti&rd
quo;.  E’ evidente che il discorso del professore non regge per più di un motivo: i diritti civili e politici sono, in realtà, altrettanto comprimibili di quelli economici e sociali e l’unica considerazione fattuale da accettare sta nel primato “storico” nella loro nascita che non implica certo un parallelo primato logico e “valoriale”. I capitalismi emergenti nel nuovo ordine multipolare, difatti, ottengono un forte consenso dalla popolazione e dai lavoratori proprio invertendo l’ordine di importanza tra diritti di prima generazione (civili e politici) e quelli di seconda generazione (sociali, diritto a un decente tenore di vita ecc.). Per quanto riguarda welfare state  e diritti del lavoro appare del tutto evidente che il ridimensionamento dei secondi è legato ad una riformulazione “peggiorativa” del primo; le risorse che non sono più disponibili per i lavoratori in maniera diretta non saranno compensate da maggiori servizi e minori costi per i cittadini perché la nuova situazione richiede un arretramento dello stato (status) sociale sia dei lavoratori che dei cittadini tutti – oltre che una maggiore libertà di chi governa rispetto al “diritto di veto”  delle corporazioni – in funzione di una gestione maggiormente “efficace” delle risorse nazionali. Ciò non toglie che ogni attore sociale continuerà a fare la sua parte e che i vari segmenti del “lavoro sociale” (lavoratori a tempo indeterminato pubblici e privati, atipici, precari ecc.) cercheranno, quando possibile, di organizzarsi – necessariamente in una maniera diversa rispetto al passato – per “difendersi” e possibilmente anche per giocare una parte attiva nel conflitto tra gruppi sociali.

Mauro Tozzato    23.01.2011